Polini: “Dalla Repubblica Romana alla lotta contro i totalitarismi“
Di Francesco Subiaco
Oggi 25 Aprile in occasione delle celebrazioni del 78° anniversario della sconfitta del nazifascismo, i repubblicani romani hanno organizzato una manifestazione politica e culturale per commemorare la Resistenza e ribadire i valori che ne hanno incarnato l’azione attraverso un evento intitolato “Dalla Repubblica Romana alla lotta contro ogni fascismo”. La manifestazione si svolgerà alle 11 alle ore 13 sulla terrazza del Gianicolo alla statua di Giuseppe Garibaldi, dove gli esponenti dell’unione romana ribadiranno e celebreranno i valori liberaldemocratici che hanno mosso l’azione del Pri e delle forze laiche durante la Resistenza, alla luce della tradizione mazziniana e delle sfide del presente. Durante l’evento interverranno Saverio Collura della direzione nazionale del Pri, Riccardo Bruno direttore politico de La Voce Repubblicana, Pino Pelloni della Fondazione Levi Pelloni, Simone Ascoli, Carlo Camangi e Michele Polini segretario dell’Unione comunale del Pri di Roma.
“Il 25 aprile, è una festa che rappresenta non solo la liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista, ma che in verità incarna soprattutto la celebrazione della libertà, dell’anelito dei popoli ad essere padroni del proprio destino contro le oppressioni dei totalitarismi e le discriminazioni dei fanatismi ideologici”. Ha così commentato preliminarmente il segretario dell’Unione Romana Michele Polini, prima dell’avvio della manifestazione, rinnovando l’importanza di questa celebrazione poiché “oggi è più importante che mai rinnovare la memoria del 25 Aprile, perché è fondamentale in questo scenario di conflitto e di tensioni internazionali rinnovare i valori della libertà dell’individuo e dei popoli contro nuovi tentativi aggressivi e dispotici”. Ribadendo di fronte alle rievocazioni della storia del Partito Repubblicano, dalla Repubblica Romana fino alle controversie internazionali recenti prodotte dalle sfide delle autocrazie, l’importanza della “libertà, connessa indissolubilmente con la democrazia e con l’autodeterminazione dei popoli come valore fondante della nascita della nostra Repubblica e dei valori sia del nostro Partito che della Costituzione”. Sottolineando sulla scia di commenti autorevoli che il 25 aprile è “una festa di tutti e che appartiene a tutte le grandi forze politiche del Paese che trovano nei valori liberaldemocratici il fondamento di un dialogo comune che vede nella visione suprema della difesa della dignità e libertà dell’uomo un suo fondamento”.
“Questo è il Dovere supremo dell’uomo che lotta: incamminarsi verso l’alta vetta raggiunta da Cristo , il primogenito della salvezza. Come possiamo cominciare? Se vogliamo seguirlo, dobbiamo conoscere a fondo il suo conflitto, dobbiamo rivivere le sue angosce: la sua vittoria sulle insidie fiorite della terra, il suo sacrificio per le grandi e piccole gioie degli uomini e la sua ascesa di sacrificio in sacrificio, di battaglia in battaglia, di elevazione in elevazione fino, al culmine del martirio, la Croce. (Nikos Kazantzakis, L’ultima tentazione)
Perseguitato dal suo destino, abbandonato in una terra arsa dalla fame e dalla rivolta, in una notte infuocata e insopportabile tra i deserti della Palestina, il Cristo è vittima di un incubo. Sogna gli apostoli che vengono a richiamarlo per compiere la sua missione, sogna il destino di sacrificio e di redenzione che il suo padre celeste ha scritto per lui, sogna la sua fine fatta di abbandoni e di martirio e questo sogno gli appare come un incubo e una persecuzione. Infatti, dopo una notte inquieta ed agitata si sveglia e torna alla sua vita di piccolo falegname di una provincia ribelle del più grande impero del mondo antico. È ancora troppo presto e quel destino che sente più che come una vocazione, come una maledizione gli sembra ancora lontano e nel silenzio della sua bottega pensa ancora di sfuggirgli. Ma tutti i giorni che precedono la sua chiamata, non sono altro che delle prove tecniche di resurrezione, dei rituali preparatori del suo destino, sfuggirgli è solo un’illusione, tutto si compirà. Cristo non è un falegname come gli altri un giovane qualunque che vive nascostamente tra gli uomini, ma anzi è odiato dal suo popolo, è visto come un traditore, un crumiro della causa di Israele perché è un crocifissore. Un uomo che prepara e porta le croci sui tanti calvari della Palestina per consegnare ai ribelli di Israele gli assi dell’esecuzione dei romani che con quelle croci, le stesse che un giorno lo circonderanno sul Golgota, estirperanno le speranze e le vite dei tanti Messia pronti a sacrificarsi per la libertà di Gerusalemme. Proprio in una di quelle esecuzioni mentre porta la croce per un Maccabeo, il Cristo scorge il suo destino, quel giorno non è una simulazione del suo destino, ma una sua anticipazione, già quel giorno la sua passione inizia e lo accompagnerà fino alla sua fine. Si apre con questa narrazione il primo magistrale capitolo de “L’ultima tentazione” di Nikos Kazantzakis (Crocetti). Un romanzo straordinario con cui Kazantzakis non vuole solo scrivere una rivisitazione in chiave umanistica dei fatti e dei detti del vangelo, ma con essi realizza un vero e proprio apocrifo moderno, l’ultimo, il più straordinario. Un apocrifo che non mostra un Cristo gnostico o orientale e mistico, bensì un Cristo umano, ma non blasfemo, terreno ma non materiale. Non è né un rivoluzionario né una super star è un uomo che soffre, che piange, che sanguina e che esita. Seppur ha fede trema, seppur divino è vulnerabile ai dolori e alle piaghe della vita.
L’opera segue le vicende del profeta nei suoi ultimi anni di vita, dal pellegrinaggio nel deserto alla crocifissione, dall’abbandono della casa natia alle ultime tentazioni che lo accompagneranno sulla croce. Non è però un Cristo esclusivamente terrestre, umano e carnale quello descritto da Kazantzakis. La sua storia è densa di miracoli, il suo destino è impregnato delle sorti dell’assoluto, delle estasi del soprannaturale. Materia e spirito, terrestre e numinoso, sangue ed anima si intrecciano nelle pagine di Kazantzakis che sia grondano del sangue dei rivoltosi e della corona di spine del Rex iudeorum, sia sono inebriate dall’incenso dei templi e dei luoghi sacri che resistono tra i deserti del mondo antico, creando l’immagine di una passione caravaggesca in cui i corpi nodosi, mortali e infestati di dubbi e piaghe dei suoi personaggi si contaminano di grazia, di mistero, di salvezza. La vicenda de “L’ultima tentazione” accompagna il lettore in una cronaca sinottica, ma apocrifa di quella evangelica fino ad arrivare all’attimo della crocifissione, al momento in cui proferendo quel celebre “Eli Eli lama sabactani”(Dio Dio perché mi hai abbandonato) si abbandona al suo irrimediabile destino, immolandosi per l’umanità intera dimostrando che nessuna rivoluzione materiale è sensata senza resurrezione spirituale. In quel momento però il Cristo viene colto da una folgorazione, il suo padre celeste ha mandato un emissario a salvarlo, il suo sacrificio non sarà consumato, il suo destino sarà libero da questa maledizione, la sua missione è stata compiuta ed ora, salvato da un angelo, può scegliere di tornare ad una vita semplice seguendo insieme alla Maddalena una esistenza familiare e casalinga. Un sogno da cui però viene risvegliato grazie al pensiero dei suoi apostoli e alla consapevolezza del suo compito. Ha esitato, ha tremato di fronte all’ultima tentazione del peccato, ma il suo turbamento non è una prova della sua sconfitta bensì un sintomo della sua lotta. Una lotta che anche di fronte alle tentazioni sulla croce del maligno può essere affrontata, può essere vinta. In questa senso tutta la storia del Cristo può essere letta come quella di un modello supremo di ogni uomo che lotta, della lotta eroica che ogni uomo conduce e che non solo può essere vinta, ma già lo è stata. Il Cristo di Kazantzakis infatti non è un santino o uno sfondo aureo di una bella e distaccata agiografia, ma è un mito, un modello, un esempio. Un martire dell’umanità che sceglie la via della redenzione, della salvezza, della lotta consegnandosi al mondo e ai suoi tormenti non con serafica compostezza, ma con i dubbi, con le passioni e le paure di un uomo, con la disperazione di un uomo mortale e con il disincanto e la rabbia di un Dio che osserva un destino che sfugge al suo controllo, mostrando non solo quanto è difficile essere un Dio, ma soprattutto quanto è difficile essere un uomo. Un Cristo proibito che è costato al suo autore l’esilio morale e proscrizione, l’odio delle gerarchie ecclesiastiche e l’oblio della cultura accademica, ma che a distanza di secoli può riscattarlo, può mostrargli che anche la sua battaglia è stata vinta. Nell’opera infatti si sentono gli echi della sua Ascetica e le tensioni della sua Odissea e dietro alla maschera di questo Cristo proibito ed apocrifo si cela quella di Nietzsche, di Zorba, di Odisseo e del suo autore, di una filosofia della lotta e di una teologia eretica imperdonabile e numinosa, sacra e popolare, carnale e soprannaturale il cui contenuto non è solo amplificato dallo stile di Kazantzakis, ma è ad esso intrinseco. Uno stile carnale e puro, pasoliniano e caravaggesco, classico e moderno in cui le parole sembrano risvegliarsi dal silenzio della scrittura ed iniziano a risvegliarsi, a risorgere, a sanguinare ancora come carne viva, come verità e realtà profonda dell’uomo e non come mere descrizione del suo travaglio. Una cronaca trecentesca, tra i martirii di Caravaggio e la durezza del “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini, tra l’incenso della mistica cristiana e il sangue del sacrificio del popolo greco durante l’ottocento, gli abissi di Dostoevskij e le illuminazioni dello Zarathustra. Un romanzo straordinario e struggente scritto dal più imperdonabile degli scrittori greci per raccontare la passione di Cristo in tutta la sua celestiale umanità.
Urso:”La Sovranità tecnologica sarà il fondamento della nostra indipendenza strategica” i commenti di Checchia e Luciolli
Di Francesco Subiaco e Francesco Latilla
Il 16 marzo si è svolta presso la Nuova Aula dei Gruppi Parlamentari della Camera dei Deputati la conferenza “Sovranità tecnologica e indipendenza nazionale”, organizzata dalla Fondazione Farefuturo in collaborazione con Digital Policy Council. Dopo i saluti da parte del Segretario Generale della Fondazione Farefuturo, Matteo Gelmetti, e del Presidente del Digital Policy Council, Valerio De Luca, sono seguiti gli interventi del Ministro delle imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, e la lettura del messaggio di buon lavoro da parte del Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani.
Un intervento quello del ministro Adolfo Urso che ha sottolineato l’importanza del tema della sovranità tecnologica “per l’Italia e per la nostra Europa affinché non si trasformi il nostro continente in un polo museale, ma invece lo si trasformi in un polo tecnologico per lo sviluppo globale”. Una visione che, come ha affermato il ministro per lo sviluppo economico ai nostri microfoni, è fondamentale perché “difendere la sovranità tecnologica è una delle nostre priorità ed è per questo che il governo italiano si è impegnato in questi giorni in Europa anche per far capire che il 2023 dovrà essere l’anno di una politica industriale comune e della realizzazione di una sovranità tecnologica europea fondamentale per la realizzazione di una nostra vera indipendenza strategica”. Un progetto di lunga prospettiva, da svolgere insieme ai partner euroatlantici che dovrà essere perseguito al meglio “perché l’Occidente deve tornare in campo e l’Italia dovrà svolgere un ruolo fondamentale per dare il suo contributo in questa azione”.
Ad aprire il dibattito del primo tavolo tematico sullo “Stato stratega”, il Presidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari, Giulio Tremonti, e a seguire gli interventi del Vicedirettore generale dell’Agenzia nazionale per la cybersecurity, Nunzia Ciardi, dell’Economista Roberto Pasca Di Magliano e del Docente degli Studi Strategici, Paolo Quercia, moderati dal Direttore delle Relazioni Internazionali Farefuturo, Ambasciatore Gabriele Checchia. Il secondo tavolo di discussione incentrato sulla “sovranità tecnologica oggi”, ha visto gli interventi del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega all’innovazione, Alessio Butti, del Presidente della VII Commissione permanente della Camera, Federico Mollicone, del fondatore e presidente del “Centro Economia Digitale”, Rosario Cerra, del presidente di STMicroelectronics Italia, Giuseppe Notarnicola, del vicepresidente Global Market Development WWS at Microsoft, Antonio de Palmas, del direttore Affari istituzionali ed Europa Centro e Sud Orientale di Amazon Web Services, Franco Spicciariello, dell’AD e direttore generale del Polo Strategico Nazionale, Emanuele Iannetti, moderati dal Direttore Scientifico di Farefuturo, Luigi Di Gregorio. Il terzo tavolo tematico è stato quello sulla “difesa e industria della difesa”, ha visto gli interventi dell’AD di Elettronica Spa, Domitilla Benigni, dell’AD di Rheinmetall Italia, Alessandro Ercolani, del Presidente Fincantieri, Claudio Graziano, e dell’AD di Avio, Giulio Ranzo, moderati dal Direttore Editoriale di Farefuturo, Mauro Mazza. Il quarto ed ultimo tavolo tematico dedicato alla “sicurezza energetica e materie prime/terre rare”, con gli interventi del dottor Alessandro Aresu (Limes), del presidente Gruppo Iren, Luca dal Fabbro e del docente di Economia, Carlo Pelanda, moderati dal direttore delle Relazioni Internazionali Farefuturo, Ambasciatore Gabriele Checchia. All’ambasciatore Gabriele Checchia sono state affidate anche le conclusioni finali dove ha ribadito la necessità di “agire in complementarietà con l’alleato atlantico in una ottica comune di difesa di quei valori occidentali fondati sulla libertà e la democrazia”, mostrando la sua affinità con gli interventi del ministro Urso e del Presidente Tremonti sulla necessità di un’ azione culturale capace di orientare e gestire i cambiamenti del presente in un’ottica comune, democratica che vede “nella sovranità tecnologica e nell’indipendenza strategica dell’Occidente unito un fondamentale prerequisito”. Sugli interventi e sulle conclusioni dell’evento il presidente del Comitato Atlantico Italiano il Professor Fabrizio Luciolli, presente in sala, ha così commentato: “Ritengo di assoluta rilevanza e attualità i lavori del forum sulla sovranità tecnologica e l’indipendenza nazionale nei settori degli approvvigionamenti strategici. Dalla relazione introduttiva del ministro Adolfo Urso è apparso evidente come il mantenimento della superiorità tecnologica sia vitale tanto per l’Italia che per l’Occidente in un mondo sempre più competitivo, multipolare e caratterizzato da potenze autocratiche. Sfide, se non minacce, che richiedono una visione strategica nazionale che spazi dalle priorità per l’industria della difesa, alla sicurezza energetica e al reperimento delle terre rare, come è emerso dalle conclusioni dell’ambasciatore Checchia, responsabile delle relazioni internazionali della fondazione Farefuturo“.
Ambasciatore Gabriele Checchia e Fabrizio Luciolli
Il sistema portato dalla globalizzazione è la quinta essenza dell’utopia. Senza luogo, senza confini, senza identità. Un paradiso artificiale, razionale e mercatista in cui il primato del mercato prevale su quello della politica, lo strapotere della finanza e delle corporates sui corpi intermedi instaurando un nuovo ordine “immateriale”, fatto di commerci, di scambi, di connessioni. Un ordine nato nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e che vede la sua dissoluzione a partire dal 2016 con le elezioni americane. Ad esso è seguito un nuovo ordine terrestre, non globale, ma internazionale; fatto di commerci, ma anche di conflitti, di catene commerciali, ma anche di nazioni, stati e popoli. La fine di un mondo, ma non la fine del mondo, parafrasando Obama, che viene straordinariamente descritta e analizzata dall’ex ministro e presidente della Commissione Esteri del Senato Giulio Tremonti nel suo ultimo libro: “Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile”(Solferino). Un testo che analizza le piaghe della globalizzazione, quelle della deglobalizzazione e le possibili soluzioni a queste problematiche, conformandosi come la sintesi completa di una analisi politica dalla caduta del Muro di Berlino agli sconvolgimenti attuali. Una analisi fondamentale per comprendere le sfide e le possibilità di un nuovo mondo fatto di frontiere digitali e guerre globali, emergenze planetarie e mutamenti sociali che Tremonti non mostra solamente, ma rivela, scrivendo sul tema parole definitive.
–Quali sono le piaghe della globalizzazione? Le piaghe della globalizzazione sono sette: il disastro ambientale; lo svuotamento della democrazia sversata nella repubblica internazionale del denaro; le società in decomposizione nel vuoto della vita; la spinta verso il transumano; l’apparizione dei giganti della rete; la pandemia; le guerre. Ma è un numero destinato a salire: inflazione e recessione, crisi finanziarie, carestie, migrazioni, altre guerre. Tutti sconnessi anelli di una stessa catena, perché non è la fine dell’inizio e non è neppure l’inizio della fine: è proprio la fine della globalizzazione. Dopo il 2016 con le nuove elezioni americane abbiamo assistito alla ritirata della globalizzazione che ha portato al ritorno ad un nuovo ordine “internazionale”.
–Quali sono state le cause che hanno portato alla ritirata della Globalizzazione? Appena trent’anni fa gli «illuminati» ci hanno graziosamente comunicato il passaggio dalla vec chia triade Liberté, Égalité, Fraternité alla loro nuova triade: Globalité, Marché, Monnaie. Ci hanno detto che, finita la storia e via via destinati a finire gli Stati, in un mondo nuovo lubrificato dal magico fluido del denaro saremmo entrati nell’«età dell’oro». E questo grazie alla verificata utopia della globalizzazione. E, guarda caso, utopia vuol dire assenza di luogo -ou-topos, in greco “non luogo” – e dunque è proprio questa l’essenza della globalizzazione. E in effetti è stata la globalizzazione che, per trent’anni, ha plasmato il mondo e le nostre vite, non solo nel bene, per cui ci si illudeva, ma anche nel male, che oggi viviamo e vediamo. All’origine c’è un «incidente della storia»: la caduta del muro di Berlino. Ma un incidente subito seguito dalla combinazione tra il mercato e la rete, i due pilastri su cui veniva basandosi un’architettura po- litica mai prima vista nella storia: il mercato sopra e gli Stati sotto, l’economia sopra e i popoli sotto, nazioni senza ricchezza e ricchezza senza nazioni. Ma oggi è proprio la storia, la storia che si diceva essere finita, è proprio la storia che è tornata, con il carico degli interessi arretrati e accompagnata dalla geografia, ridando così vita a quello che per secoli e secoli è stato un «mundus furiosus».
–Quale è la principale differenza rispetto al passato? Certo, in passato ci sono state forti mutazioni. Per esempio quando, scoperta l’America, lo spirare dei venti atlantici squassò il chiuso, secolare ordine dell’Europa. Ma questa volta è diverso, non fosse perché, a differenza dell’altra, questa mutazione non ha occupato lo spazio lungo di due secoli, ma quello breve di un trentennio. Un trentennio in cui la storia, come mai prima, è stata compressa e poi esplosa.
–Il transumsnesimo e le “repubbliche digitali” ed che ruolo hanno in questo scenario? Oggi il transumanesimo è realizzabile come prodotto delle novità epocali intervenute via globalizzazione con i giganti della rete, i gruppi di capitale e potere verticale generati dalla globalizzazione, questi detti anche “Repubbliche digitali”, gruppi ormai divenuti i nuovi soggetti egemoni perché: tendono a sostituire gli Stati e a modificare le vecchie strutture sociali e politiche, con la rete che sostituisce il popolo determinando una gigantesca traslazione dei poteri costituzionali. Un tempo era funzione degli Stati fare le strade, battere moneta, permettere la democrazia. Oggi è lo stesso, ma in altro modo, con le Repubbliche digitali che offrono le autostrade informatiche, battono moneta digitale, permettono infine forme di nuove agorà democratiche; modificano le nostre strutture mentali, spin- gendoci dal vecchio «cogito ergo sum» verso un nuovo e faustiano «digito ergo sum», ver- so un mondo ibrido risultante dalla fusione di internet of humans e internet of things; pianificano la fabbricazione chimica del nuovo cibo sintetico, che al principio dovrebbe essere “eticamente prodotto” per sfamare i poveri e le vittime delle carestie, ma in prospettiva è destinato a diventare il cibo universale.
–Nonostante le divisioni e le mancanze che caratterizzano l’Europa, possiamo dire che con la guerra in Ucraina l’Europa è tornato ad essere quel Mundus Furiosus del suo precedente libro? “Mundus Furiosus” è stato scritto, infatti, nel 2016, quando si avvertiva la fine della globalizzazione come sistema universale e progressivo che considerava il primato del mercato sugli stati e sui popoli. La cui conseguenza è stato il passaggio ad un mondo internazionale fatto di commerci, ma anche di conflitti. In questo senso è significativa la frase del presidente Obama a seguito della vittoria di Donald Trump che affermava: “non è la fine del mondo, ma la fine del nostro mondo”.
–Secondo lei oggi il nuovo scontro tra terra e mare non passa più tra Russia e Usa, ma tra Cina e Usa? Sui documenti dell’elite anglosassone prima ancora del novecentesco Terra e Mare si evoca la contrapposizione fatta da Tucidide ne “La guerra del Peloponneso”: Atene contro Sparta. Atene, inteso come il fronte delle democrazie e Sparta, invece come quello delle autocrazie. Stati Uniti ed Europa, da una parte contro Cina e Russia dall’altra, che tra loro si contrappongono ricordando il novecentesco potenze terrestri contro potenze marittime. Uno scontro per il dominio marittimo e commerciale, democratico, contro quello terrestre delle autocrazie.
-La guerra in Ucraina ha segnato la fine della globalizzazione? Non è la guerra che pone fine alla globalizzazione, ma è la fine della globalizzazione che porta alle guerre. È anche così che la guerra in Ucraina ci si presenta come una guerra di tipo nuovo: è la prima guerra di tipo globale. Globale perché non è fatta solo con armi convenzionali, ma anche con armi che sono appunto «globali».
–Quale è il vero vantaggio dell’Occidente? La libertà. Poiché solo la libertà permette lo sviluppo della scienza, dell’innovazione e dell’individuo.
–A fine opera lei prefigura gli elementi e le proposte di una proposta alternativa, con elementi innovativi, quali il global legale standard. Quali sono le conclusioni che propone nel testo e le soluzioni possibili? In un mondo post globale caratterizzato da scambi e commerci internazionali servono delle regole comuni. Il Global legal standard, fu proposto dopo la crisi del 2009, per reagire alla prima crisi della globalizzazione prodotta dai subprime (inventati per creare un contrappeso e una compensazione alle perdite portata dalla delocalizzazione). Tale crisi non era una crisi finanziaria bensì il cortocircuito di un modello politico che era quello della globalizzazione. L’idea alla base del Global Legal Standard era passare dal Free trade al Fair trade. Non è sufficiente che il prezzo sia giusto, perché incrocia domanda ed offerta, ma è necessario che sia giusta anche la produzione di quel bene servizio. Era la bozza scritta dal governo italiano all’ OCSE nel 2009. Sottolineo che all’articolo 4 di tale documento c’era come requisito il rispetto di regole igieniche e ambienta, che mi sembra oggi più che mai attuale e centrale alla luce degli scenari degli ultimi anni.
–Può elencarci un’altra proposta? Un’altra proposta è la De-tax per l’Africa, ovvero se un esercizio commerciale è convenzionato con una rete di volontariato o di solidarietà attiva in Africa, l’Unione Europea rinuncia a una quota della sua IVA sugli acquisti, se questa è destinata a favore dell’Africa. Una proposta, che può essere parte di un piano di governo per sostenere gli stati africani, oppure può fare parte di un disegno europeo o del Piano Mattei, la cui urgenza è necessaria per aiutarli veramente a casa loro.
Antonelli:”Con Fontana per difendere i valori europei e liberaldemocratici della Lombardia”
Il 12 e il 13 Febbraio si svolgeranno le elezioni regionali in Lombardia per l’elezione del presidente di Regione e del Consiglio Regionale, una competizione elettorale che vede sfidarsi tra loro Attilio Fontana, già ex presidente della Regione, Letizia Moratti e Pierfrancesco Majorino. A sostegno della candidatura di Fontana i repubblicani lombardi hanno candidato Valerio Massimo Antonelli, segretario regionale della FGR e membro della segreteria nazionale del Pri. Antonelli, a 19 anni, è il candidato più giovane di tutta la competizione elettorale e con la sua candidatura vuole portare avanti una voce laica, repubblicana, europea e mazziniana all’interno della lista a sostegno dell’ex governatore.
–Perché ha scelto di candidarsi per le elezioni regionali in Lombardia e quali sono le principali iniziative che propone con la sua candidatura?
Ho scelto di candidarmi, come ho scritto nel mio messaggio elettorale, perché credo nella forza della politica, che è la forza del fare. Gran parte delle cose che oggi diamo per scontate si devono non alla provvidenza, ma a uomini che si sono rimboccati le maniche e hanno afferrato le grandi opportunità per la coda. Avendo 19 anni, credo di poter rappresentare bene il mondo studentesco. La sola città metropolitana di Milano dispone di sette università e più di 2000 scuole di ogni ordine e grado. È un mondo, di residenti come di fuorisede, che esige una solida rappresentanza nelle istituzioni, perché saremo noi in primis a pagare le conseguenze delle scelte di oggi.
–Quali saranno le iniziative che proporrete per rispondere alle esigenze del mondo giovanile?
È necessario un coordinamento sempre maggiore tra istituzioni regionali e scuola. Non di invasione dei reciproci campi, ma di reciproca collaborazione. Per questo sarebbe ottima cosa continuare a organizzare incontri come quelli promossi dal Consiglio Regionale della Lombardia l’inverno scorso, dal titolo “I giovani incontrano le istituzioni”, in giro per i licei, ma penso anche per le università. Credo che iniziative del genere, facendo educazione civica, sarebbero un primo rimedio contro il forte sentimento di antipolitica che tra i giovani purtroppo spopola. Un coordinamento più capillare con l’apparato scolastico e le consulte studentesche provinciali, andrebbe poi a beneficio soprattutto della Regione e degli enti che sono chiamati a decidere sul futuro dei giovani.
–Quanto sono attuali i valori repubblicani e mazziniani in questo scenario?
Tantissimo. Non solo in questo scenario. Da Mazzini e Cattaneo i Repubblicani vogliono solo un’Italia moderna. Che sia più giusta, ma anche più ricca e più libera. Sono orgoglioso di candidarmi nella circoscrizione di Milano perché qui è dove Giovanni Spadolini venne eletto consigliere comunale, con quasi 40 mila preferenze. Il quale non a caso, all’apice della sua carriera politica, amava definirsi “Senatore a vita di Milano”. Perché Milano è una città europea, civile, competitiva, moderna, dove il lavoro, e solo il lavoro, come pensava Mazzini, ha realizzato il futuro che oggi viviamo.
-Perché come Repubblicani avete scelto di proseguire il sostegno alla candidatura di Fontana?
Ha spiegato bene le ragioni l’amico Franco De Angelis. La candidatura Moratti è priva di un reale intento di governo, e il terzo polo che la appoggia altrettanto. Inoltre, dalle elezioni comunali di Roma sono molti gli episodi che hanno fatto pensare al Partito Repubblicano non solo lombardo che possano esistere alleati ben più validi. Quanto a Majorino, per sua stessa ammissione i valori liberali non lo riguardano. Fontana, invece, si è rivelato, al netto di una campagna mediatica segnata da una opposizione molto marcata, un amministratore equilibrato, moderato, che in certe zone della Lombardia, vedi Varese, ha fatto cose che non si era mai riuscito a fare da quando le regioni esistono.
-Quali saranno le priorità dei candidati repubblicani in questa competizione elettorale?
Porre l’attenzione sullo sviluppo economico di Milano, e della Lombardia, perché essenziale per la vita della regione; aumentare ancora di più l’attrattività verso i mercati, come ha fatto benissimo Fontana in questi 5 anni; guardare alla scuola (soprattutto a quella pubblica, perché la formazione dell’uomo libero non può essere lasciata alle paritarie) non come un bene secondario ma come la fonte di tutto il resto.
L’Italia vista da un liberale. Intervista a Angelo Panebianco
Di Francesco Subiaco
È una controstoria dell’Italia vista da una prospettiva laica e radicale quella scritta dal professor Angelo Panebianco e da Massimo Teodori, che nel loro ultimo saggio, “La parabola della Repubblica. Ascesa e declino dell’Italia liberale”(Solferino). In questo testo Panebianco e Teodori raccontano controcorrente la storia del nostro paese vista dal un punto di vista repubblicano, libertario, liberale e radicale, oltre i pregiudizi e le calunnie di cui è vittima questa tradizione di minoranza. Una storia che parte dai delitti eccellenti del fascismo, da Gobetti e Amendola, fino alla ricostruzione, che passa per Einaudi, Pacciardi e Parri fino a Spadolini, Pannella e Malagodi, raccontando una altra Italia, Risorgimentale e eterodossa, liberale e libertina, che agognava la modernità e anelava una società libera dai dogmatismi delle due grandi chiese dell’Italia repubblicana, quella comunista e quella clericale. Una storia fatta di protagonisti che hanno segnato per sempre la storia nazionale nonostante il peso minoritario della loro tradizione, dalle prediche inutili di Einaudi alla Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, fino alla contemporaneità, mostrando come costante la volontà di costruire un’Italia diversa, fondata sull’individuo e sulle sfide della modernità. Tramite le pagine di Panebianco si scoprono le dinamiche di una Italia che esita e traspare oltre le risse del cattocomunismo e che sogna un avvenire diverso ispirato ai principi della democrazia liberale, fatta di grandi occasioni perse e straordinari esempi di uomini che hanno fondato e cambiato per sempre le nostre istituzioni. Per parlare di questa controstoria italiana abbiamo intervistato il Professor Panebianco tra gli editorialisti più acuti e pungenti del Corriere della sera che attraverso il suo lavoro accademico ha diffuso e analizzato i grandi temi del pensiero liberale.
–La cultura laica e liberale in Italia nonostante l’influenza e i successi ottenuti è un progetto minoritario e ancora incompiuto da cui si potrebbe trarre molto? È stata soprattutto una tradizione di minoranza che ha contato di più nella storia del nostro paese di quanto fosse la sua consistenza elettorale reale. Ciò è dovuto a varie ragioni, soprattutto internazionali, poiché dopo l’ottocento la cultura liberale diventò una cultura politica minoritaria e divissima nel paese, che nonostante queste problematiche svolse un peso culturale nella storia italiana, dall’unità d’Italia al presente, fondamentale.
–Che giudizio trae della figura sciamanica e libertariana di Marco Pannella? Il suo Partito Radicale nonostante le numerosi battaglie modernizzatrici ha rappresentato una rivoluzione incompiuta per il liberalismo? Quella di Marco Pannella fu certamente una rivoluzione incompiuta, causata da due fattori che spiego ampiamente nel libro. Il primo fattore è dato dalle circostanze, poiché Pannella attraverso il Partito Radicale voleva “conquistare” il Partito Socialista per trasformarlo in un “Partito liberale di massa” a cui avrebbe attribuito una tendenza profondamente radicale che avrebbe sconvolto i quadri politici del paese. Un tentativo che purtroppo nel 1979 non gli riuscì, soprattutto perché in quegli anni si insediò nel Psi la leadership di Bettino Craxi che ne sconvolse il destino. L’altro fattore è dato dai limiti caratteriali di Pannella, che non è mai riuscito ad essere un aggregatore ed un mediatore e per questo è stato incapace di conciliare e mediare posizioni diverse che gli avrebbero permesso di realizzare il suo progetto. La sua era una operazione molto a la Mitterand che non poteva essere svolta da una personalità come Pannella, che aveva certamente portato delle notevoli innovazioni modernizzatrici nella politica italiana col suo Partito Radicale, ma che allo stesso tempo non riuscì a compiere un salto di qualità capace di compiere il suo progetto e soprattutto di realizzare una rivoluzione liberale nel paese.
-Durante la stagione del centrismo degasperiano che ruolo hanno giocato figure come Pacciardi, Einaudi, Croce, La Malfa, nonostante il peso elettorale minoritario, nella ricostruzione del paese? Basta solo ricordare i nomi di questi statisti per vedere quanto le personalità abbiano un peso enorme in politica. Infatti nonostante essi appartengano a culture politiche con un peso elettorale minoritario, sono riusciti a rappresentare questa tradizione attraverso ruoli decisivi nella storia del nostro paese che superano la consistenza elettorale del Pri, del Pli e del Partito d’azione, riuscendo a essere alternativi tra un mondo massimalista e comunista da una parte e una tradizione cattolica democristiana dall’altra. Una componente minoritaria che permane nella storia politica italiana insieme alla spaccatura tra tradizione massimalista e gradualista all’interno della sinistra politica.
–Il mito patriottico costituzionale ha impedito una modernizzazione del paese, chiudendo aprioristicamente a qualsiasi revisione? Secondo me si, poiché la costituzione, figlia di un determinato momento storico, garantisce certamente ampi e diffusi poteri di veto rispetto gli esecutivi che non aiutano i governi durante la loro azione, ma rendono più complessa la gestione dei governanti. Queste criticità sono emerse sempre di più durante la fine della prima Repubblica, ai tempi della prima commissione bicamerale, presieduta dall’on. Bozzi, ma non vennero affrontate dalla classe politica, dimostrando che la proposta della modifica della costituzione resta ancora oggi un tabù che non abbiamo minimamente superato. Nel nostro paese per ragioni culturali da una parte, per interessi personali dall’altra, permane la volontà di non permettere all’esecutivo di avere gli stessi poteri che hanno, per esempio, i primi ministri in Gran Bretagna ed in altri paesi occidentali.
–Oggi molti cronisti parlano di restaurazione liberale, che ne pensa? Io quando sento parlare di Restaurazione Liberale non riesco a rimanere serio, sono solo parole in libertà. Non vedo restaurazione di nessun tipo.
–Da tangentopoli ai 5 stelle lo spirito giustizialista non solo non si è mai sopito ma sta facendo nuovi anticorpi contro i tentativi di riforma garantisti, come quelli della Cartabia? Certamente ci sono forti interessi che vogliono impedire una riforma dell’ordinamento giudiziario e che non si sono mai sopiti. Il problema è che con la fine del vecchio sistema dei partiti si è creato un vuoto di potere in Italia che è stato riempito non dalla politica ma da altri, ovvero dalla burocrazia e dal potere giudiziario.
–Berlusconi, padre della rivoluzione liberale nostrana a distanza di anni è stato più un Crono o uno Zeus nella storia del nostro paese? Certamente c’erano in Berlusconi, o almeno nel primo ingresso di Berlusconi in politica, elementi liberali, che hanno attirato intellettuali vicini al pensiero liberale, come Marcello Pera e Lucio Colletti, ma successivamente questa componente si è rapidamente esaurita. Per questo motivo non riesco a mettere Berlusconi sullo stesso piano di Pannella.
– Chi sono i suoi riferimenti culturali? Da un lato i grandi autori del pensiero sociologico e politico e dall’altro gli autori esponenti del pensiero laico e liberale Italiano. Certamente Einaudi è uno dei miei punti di riferimento.
–Come è diventato un liberale? Credo che questa adesione sia nata in reazione al sessantotto, cercando riferimenti alternativi a quelli della stagione sessantottina, quando ero una matricola universitaria. Sicuramente mi formarono molto la lettura dei testi dell’illuminismo e la vicinanza al mio maestro, Nicola Matteucci. Matteucci, fortemente liberale, è stato il mio punto di riferimento per la mia formazione personale e a lui devo moltissimo.
Il mondo non è un palcoscenico, dove gli individui e i popoli inscenano il gioco delle parti, nella pantomima della storia e dei destini umani, ma è un campo di battaglia. Uno scontro aspro in cui le comunità e le nazioni duellano, sui terreni dell’economia, della strategia, della sopravvivenza. Un duello che oggi si può riassumere nella sfida tra le democrazie occidentali e le autocrazie. Una sfida che inizia dall’indomani della guerra fredda, che si è evoluta, nel contrasto per il predominio sul Mediterraneo e sull’Indo Pacifico. Oggi il braccio di ferro tra autocrazie e democrazie euroatlantiche, passa su tre scenari, tre diversi campi di battaglia, il confine orientale, teatro del conflitto tra Russia e Ucraina, il Mediterraneo, e l’Indo Pacifico, dove sull’indipendenza e la libertà di Taiwan passa il destino degli equilibri della scacchiera internazionale. Scenari e campi di battaglia che rappresentano i nuovi confini tra mondo occidentale e suoi partner etico-ideologici e le autocrazie e gli altri Rogue States. Per meglio comprendere le regole del campo di battaglia abbiamo intervistato Fabrizio Luciolli, Presidente del Comitato Atlantico Italiano e dell’Atlantic Treaty Association (2014-2020), è una delle voce più importanti dell’alleanza euroatlantica in Italia.
–In questa fase del conflitto tra Russia Ucraina quali possono essere le strategie e le soluzioni dell’Occidente per contenere le ripercussioni del caro energia? La strategia più efficace è quella di rimanere coesi, perché le ripercussioni economiche e sociali del conflitto, che non sono diretta conseguenza delle sanzioni come una certa narrazione russa è riuscita a veicolare in Occidente, possono essere superate solo attraverso un’azione solidale delle democrazie occidentali. Ciò è particolarmente vero con riferimento al tema energetico, dove esiste una asimmetria nei prezzi dell’energia all’interno dei diversi paesi dell’Unione Europea. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, questa situazione trova origine nell’insipienza con cui sono state operate le scelte del passato, come la volontà di dire no al nucleare in controtendenza con gli altri paesi europei e la più recente politica di assoggettamento solo ad alcuni fornitori nel settore energetico, nello specifico la Federazione Russa, che hanno portato il nostro paese a scontare, più di altri, il ricatto energetico di Putin. Per tali ragioni le uniche misure che possono mitigare le conseguenze di questo conflitto, prima della cessazione dello stesso, è avere come bussola questo binomio: coesione e solidarietà tra i paesi dell’UE. In tale prospettiva, l’Unione Europea ha attivato numerosi strumenti, ma è necessario organizzarli in maniera ben più coordinata ed efficiente al fine di pervenire a una diversificazione delle fonti, a una integrazione del mercato energetico e un abbattimento dei costi del gas.
–Quanto un ritorno al nucleare potrebbe agevolare una politica nazionale energetica autonoma da altri paesi come è stato con la Russia e la Libia in passato? La via del nucleare è un percorso da perseguire ma che permetterà di beneficiare dei suoi risultati solo tra dieci, quindici anni, secondo le più recenti previsioni. Nell’immediatezza l’Italia ha già intrapreso la strada della diversificazione delle fonti energetiche e dei relativi fornitori, e si stanno testando in prospettiva anche le potenzialità che possono scaturire dall’utilizzo dell’idrogeno, per esempio ricavato dai rifiuti. Tuttavia, nell’attuale criticità di approvvigionamenti energetici appare ineludibile rafforzare la cooperazione europea, anche creando reti volte alla interconnessione e scambio di flussi energetici in situazioni di emergenza così come già avviene nei paesi scandinavi.
-Come si evolverà il conflitto ucraino con il finire dell’autunno? L’arrivo dell’inverno e delle rigidità dettate dalle condizioni meteorologiche, condizioneranno le dinamiche del conflitto e potrebbero schiudere delle opportunità per un’azione diplomatica che è auspicabile vengano colte. Ad una fase in cui si vanno ridefinendo i rapporti di forza e nella quale Kyiv sta guadagnando terreno, potrebbe far seguito un rallentamento dei combattimenti che nei prossimi mesi avverranno su terreni fangosi, con frequenti piogge e che impediranno un agevole spostamento di mezzi corazzati. Una condizione che penalizzerà le manovre offensive da parte russa e che sarà aggravata dai congelamenti dei mesi invernali. Da parte russa, inoltre, la cosidetta “mobilitazione parziale” richiederà tempo, non solo per il reclutamento forzato di personale militare ma anche per dotarlo di un addestramento basico e successivo dispiegamento al fronte. Giovani riluttanti che, dalle immagini pervenute, appaiono equipaggiati con materiali obsoleti se non talora anacronistici e che si troveranno ad operare su terreni ghiacciati, in cui l’addestramento ricevuto in questi anni dalle forze armate ucraine farà la differenza. –Come valuta la strategia della Russia durante questi mesi? Putin ha fallito su tutti i fronti: sia sul piano strategico e militare, che su quello politico, diplomatico, economico e sociale. Fino al 23 febbraio scorso, Putin era riconosciuto dalla comunità internazionale come un leader affermato e un politico scaltro. Con il lancio della criminale “operazione speciale” d’invasione non provocata dell’Ucraina, Putin ha dimostrato di non saper capitalizzare il proprio prestigio internazionale sotto il profilo politico, diplomatico e negoziale, perseguendo una strategia fallimentare che in pochi mesi ha devastato oltre l’Ucraina, il suo stesso paese, che è stato impoverito da decine e decine di migliaia di morti. Una strategia che dalla “denazificazione” dell’Ucraina si è oggi palesata come una guerra all’Occidente condotta con una campagna militare criminale, che si va caratterizzando sempre più con azioni di carattere pressoché terroristico, quali il lancio indiscriminato di droni kamikaze sulle popolazioni civili delle città, piuttosto che volte a evocare il terrore dell’uso dell’arma nucleare. Una strategia che ha compattato l’Occidente, non più solo geograficamente ma valorialmente inteso, e che ha avuto come più evidente conseguenza la storica richiesta di adesione alla NATO di Finlandia e Svezia. Una strategia a cui fa riscontro il fallimento della campagna militare di aggressione all’Ucraina, testimoniata dai diversi cambi di guida e condotta delle operazioni russe sul terreno. A ciò ha fatto riscontro la compattezza dell’Occidente nel sostenere le richieste di aiuti militari e non di Kyiv secondo un principio di cooperazione internazionale in linea con quanto sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite per la legittima difesa del proprio Paese e dei suoi cittadini. Un principio che in queste settimane paesi come Spagna, Francia ed Olanda stanno inverando con l’invio di mezzi volti a dare una maggiore protezione dello spazio aereo dalla minaccia dei droni di produzione iraniana lanciati da Mosca. Sotto il profilo economico, l’impatto dell’azione di Putin sulla fragile e modesta economia russa appare altrettanto disastroso. Le riserve che prima del conflitto ammontavano a circa 600 miliardi di dollari già pochi mesi dopo il lancio dell’”operazione speciale” erano ridotte a 22 miliardi e sono attualmente stimate pari a 2,2 miliardi. Ciò nonostante, l’aumento spropositato del prezzo con il quale per tutto il 2022 i paesi occidentali hanno continuato ad acquistare il gas russo, anche in quantità superiori al fine di salvaguardare gli stoccaggi. Pertanto, considerato che dal 2023 ci sarà un generale affrancamento occidentale dalle risorse energetiche russe e non avendo la Federazione Russa un’economia diversificata, è verosimile prevederne il collasso economico. Sta all’Occidente e a paesi come Italia e Germania, mantenere un atteggiamento fermo e coerente, senza tentennamenti, per accelerare la presa di consapevolezza e la necessità da parte russa di cessare le ostilità belliche e sedersi a un tavolo negoziale. Una seria e credibile iniziativa che, soprattutto da parte europea, dovrebbe riflettere in prospettiva sul futuro della Federazione Russa. Sotto il profilo sociale, la campagna militare e la recente “mobilitazione parziale” non solo ha distrutto le prospettive delle nuove generazioni russe ma ha comportato la fuga dal paese di circa un milione delle migliori menti del paese. –Putin ha quindi commesso l’errore di portare nel conflitto anche la società civile russa? All’inizio dell’aggressione all’Ucraina lo stato maggiore russo era riuscito a tenere fuori dalle conseguenze del conflitto la società civile e, in particolare, le élites di Mosca e San Pietroburgo. L’attuale “mobilitazione” ha rivelato alla società civile russa il carattere di “guerra” all’Occidente e non più di “operazione speciale” regionale, minando quella compattezza nazionale russa che aveva caratterizzato le prime fasi del conflitto. Le ripercussioni economiche della guerra e delle sanzioni, il reclutamento forzato dei giovani hanno fatto venir meno l’unità del fronte interno a più livelli. Le minacce del possibile utilizzo di armi nucleari tattiche e le rappresaglie russe condotte all’indomani del crollo del ponte di Kerch con il lancio indiscriminato di 84 missili su obiettivi ucraini civili, non sono state accolte favorevolmente dallo stato maggiore russo, anche in ragione della scarsità di materiale militare che non è più in grado di riassortire. Si stima che alla Federazione Russa occorrerebbero circa 5 anni per ricostituire la forza terrestre dei tank e gli altri materiali militari andati distrutti in questi mesi di guerra. Evocare la minaccia nucleare così come il lancio terroristico da parte russa di missili e droni su obiettivi civili ucraini rappresentano un evidente segnale d’impotenza da parte russa, che cela, tuttavia, un indice di pericolosità, piuttosto che delle opportunità che non vanno entrambe sottovalutate.
Una strategia del terrore che si scontra contro la cooperazione internazionale dei paesi occidentali che grazie ad una compattezza ed unità comune forse riusciranno a trascinare Putin sul tavolo delle trattative per mettere fine a questa guerra. Per fortuna in questi giorni si vede qualche spiraglio …
–Può spiegarsi meglio? La strategia del terrore, evocata con la minaccia nucleare piuttosto che con il lancio di missili e droni, a fronte di una compattezza occidentale e resistenza ucraina, dischiude altresì degli spiragli di dialogo che potrebbero far presagire ad un rilancio di un tavolo negoziale. Recenti dichiarazioni da parte russa affermano, per la prima volta, che una soluzione diplomatica è possibile a patto che sia salvaguardata la sicurezza della Federazione Russa. –L’Occidente secondo lei saprà rispondere di fronte a questi segnali? Confido che l’Occidente sappia prefigurare uno scenario post-bellico non solo per ciò che attiene la necessaria ricostruzione dell’Ucraina, politica economica, sociale e di sicurezza, ma anche per ciò che riguarda il futuro delle relazioni con la Federazione Russa. Prospettiva, quest’ultima, che attualmente manca e che è quanto mai necessario sviluppare e favorire, anche per evitare a Mosca derive ancor più oltranziste. Se analizziamo le ultimi dichiarazioni di Putin e ascoltiamo attentamente le parole del suo discorso postreferendario, emerge quanto a Mosca stia assumendo maggior peso la componente nazionalistica che durante le più recenti fasi del conflitto ha attaccato le istituzioni militari russe, salvo la presidenza, reclamando una maggiore uso della violenza militare e con ciò acquisendo un crescente credito popolare e presso lo stesso Putin. Nell’attuale critica fase del conflitto, con una Federazione Russa in crisi e un inverno che potrebbe mitigare le crudeltà del conflitto, l’Occidente diversamente in difficoltà sarà in grado di mantenere una posizione coesa ed esprimere una leadership in grado di confrontarsi con Mosca e interdire i rischi di una potenziale deriva oltranzista? –Come giudica il ruolo di Erdogan nella scacchiera globale? L’analisi dell’azione della Turchia in questi e nei prossimi mesi non può essere disgiunta dalle preoccupazioni di Erdogan per le elezioni presidenziali del 2023. È verosimile attendersi una politica a carattere intermittente, così come sta avvenendo sul processo di ratifica dell’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO e sugli ultimi dossier, ricercando soprattutto il sostegno degli Stati Uniti per risollevare la lira turca vittima di una pesante inflazione e vedere garantita la solidità del confine orientale, in chiave anti PKK. E’, pertanto, nella chiave elettorale che andranno ponderate le azioni, anche di negoziato e visibilità internazionale, che verranno adottate da Erdogan nei prossimi mesi. –Sta nascendo una nuova guerra fredda tra Autocrazie e democrazie occidentali? Non credo si vada cementando un fronte delle autocrazie in quanto oggi più che mai il ruolo della Cina è preponderante e a lungo termine assorbirà nella sua orbita le altre, prima fra tutte la Russia che uscirà dissanguata dal conflitto con l’Ucraina. La vera sfida globale dell’Occidente è e rimane la Cina. Tuttavia, la sfida con Pechino oggi passa per Kyiv. Mi spiego meglio, in queste ore sta circolando un documento chiamato Kyiv Security Compact, dell’ex segretario generale della Nato Rasmussen e da alcuni paesi Nato, che vorrebbero un agreement, per rafforzare in maniera codificata il rapporto stabilito con l’Ucraina. Una relazione che sia più forte del memorandum di Bucarest del 1994, che annunciava delle garanzie di sicurezza da parte della Russia all’Ucraina in cambio della cessione delle armi nucleari dislocate sul suo territorio (uno di quei tredici trattati e accordi internazionali, violati da Putin con l’aggressione del 24 febbraio), e che possa garantire la stabilità del confine orientale attraverso un accordo più solido e più forte, che non rappresentanti la membership Nato dell’Ucraina, ma ne garantisca la propria sicurezza e capacità di difendersi. La strutturazione del rapporto con l’Ucraina ed una sua futura stabilità, permetterebbe alla comunità euro-atlantica di dedicare maggiore attenzione e risorse alla regione indo-pacifica ed alla sfida rappresentata dalla Cina, rafforzando i partenariati con paesi like-minded dell’area. In tale prospettiva, può prefigurarsi una polarizzazione del mondo ma non più delimitata da confini territoriali o geografici, ma da valori di libertà e del rispetto delle regole del diritto. Valori che hanno condotto paesi della regione dell’Indo-Pacifico a partecipare, lo scorso giugno, al vertice NATO di Madrid.
–Di fronte a questa polarizzazione quanto la partita tra queste diverse potenze si gioca su Taiwan? Taiwan costituisce un faro di democrazia nella regione dell’Indo-Pacifico e ha per l’Occidente una valenza strategica di estrema rilevanza allorquando si consideri che Taipei detiene il 66% della produzione tecnologica del mercato mondiale dei microchip e che quel piccolo stretto vede transitare annualmente il 50% dei container che arrivano in Europa e negli Stati Uniti.
–Quale dovrebbe essere la bussola del futuro governo Meloni? Quale presidente del Comitato Atlantico Italiano ho particolarmente apprezzato le dichiarazioni dell’On. Meloni laddove ha inequivocabilmente collocato l’Italia nel solco europeo ed atlantico tracciato dai padri fondatori della Repubblica, i quali ritennero che l’Italia potesse perseguire più efficacemente i propri interessi nazionali attraverso una partecipazione attiva in seno alle organizzazioni euro-atlantiche. Oggi, in particolare, è attraverso un rinnovato rapporto transatlantico e un ancor più incisivo ruolo nella NATO che l’Italia potrà bilanciare talune velleità carolingie di una Europa post-Brexit. Nell’attuale fase di ricerca di una nuova stabilità del sistema internazionale, l’Italia può costituire il perno insostituibile di una rinnovata comunità euro-atlantica che affronti le sfide del futuro, Cina in primis, con un approccio globale bilanciato anche sulla regione del Mediterraneo allargato, ove l’Italia si proietta con 8.000 chilometri di coste, da sviluppare per intercettare i traffici commerciali destinati all’Europa. Una centralità strategica e commerciale dell’Italia che confido il prossimo governo saprà perseguire.
“Essere ammessi nel Monastero significa entrare in una sorta di area protetta, rarefatta e vagamente inquietante. È un impasto di spiritualità, di mistero, di segreti inconfessabili, che alla fine parlano il linguaggio impalpabile ma onnipresente di un potere antico, insieme sacro e spietato”. Così Massimo Franco descrive la sua entrata nella residenza vaticana del papa emerito nel suo ultimo straordinario saggio sugli ultimi 9 anni di “papato ombra” di Benedetto XVI: “Il monastero” (SOLFERINO). Un saggio che indaga e scruta le ombre, le atmosfere e le storie che hanno accompagnato il pontificato ratzingeriano, i suoi protagonisti ed i silenti abitanti del monastero. Un luogo diventato il paradigma di una chiesa in tumulto, di fronte ai cambiamenti rivoluzionari della curia, alle sfide della contemporaneità alle opposte tendenze delle corti dei due papi, che si muovono nell’atmosfera rarefatta delle mura vaticane come dei fantasmi di un’epoca lontana ed anacronistica. Massimo Franco, vaticanista, tra i massimi interpreti del giornalismo italiano, dopo avere reso immortali le ombre del divo, l’esilio di Craxi e gli enigmi del papato bergogliano traccia con il suo ultimo saggio su Benedetto XVI una fenomenologia delle anomalie che sta vivendo la chiesa, in uno scritto che unisce il rigore del giornalista con lo stile dello scrittore, immergendo il lettore in un castello kafkiano, una residenza landolfiana che diventa il subconscio di pietra dei tormenti del cattolicesimo contemporaneo.
Che cos’è il monastero e cosa ci racconta del suo illustre inquilino? E come esso diventa il paradigma di un papato anomalo?
Il Monastero è l’emblema dell’anomalia di questa fase della Chiesa cattolica e del Vaticano. Siamo abituati a pensare che sia Casa Santa Marta, l’albergo dentro le mura vaticane dove abita Francesco. In realtà, quella scelta è figlia delle “dimissioni” di Ratzinger. E l’intero papato è condizionato da quello strappo epocale. Lo stesso uomo del Monastero, Benedetto XVI, oggi papa emerito, simboleggia quell’anomalia. Ha mantenuto il nome che aveva da papa, si definisce “papa emerito”, veste con l’abito bianco e vive dentro il Vaticano. In cima a giardini curati, punteggiati da roseti, altari e cactus e garitte della Gendarmeria. Probabilmente, temeva di ammalarsi come Giovanni Paolo II e di essere condizionato dalla sua cerchia curiale, a cominciare dal segretario di Stato, Tarcisio Bertone, figura controversa. E dunque ha anticipato i tempi. Ma credo che credesse di sopravvivere poco, mentre ormai è stato per più tempo papa emerito che papa: 9 anni contro 8.
Tra i personaggi che abitano la galassia di questo monastero landolfiano, quale la ha colpita di più e perché?
Senz’altro il prefetto della Casa pontificia, monsignor Georg Gaenswein. E’ stato per anni il punto di raccordo, e il simbolo della continuità tra i due pontificati. E alla fine è stato schiacciato da questo doppio ruolo, strategico e insieme oggettivamente ambiguo, per dinamiche di potere che alla lunga non potevano non scaricarsi anche su di lui, al di là della sua volontà e di quella dei cosiddetti “due papi”. Il fatto che oggi rimanga Prefetto ma gli sia impedito di fatto di svolgere il suo lavoro è l’emblema dello scontro sotterraneo tra le “corti parallele” del Monastero e di Casa Santa Marta.
L’emerito del monastero e il regnante di Santa Marta sono due figure archetipiche della chiesa di oggi. Che rapporto intercorre tra i due papi e che differenza c’è con le narrazioni degli opposti schieramenti riguardo i due inquilini pontifici?
Sono due persone molto diverse, consapevoli entrambe del trauma vissuto dalla Chiesa con la rinuncia di Benedetto, e dunque intenzionati a salvaguardare l’unità della Chiesa. Per questo all’inizio Francesco ha chiesto a Benedetto di non essere troppo in disparte, di partecipare alle cerimonie pubbliche, di intervenire. Si disegnava una sorta di “copapato”, con Francesco prosecutore delle riforme che Benedetto non aveva potuto portare a termine. Ma col passare del tempo, quando le riforme sono entrate in affanno, il Monastero è stato percepito dalla cerchia di Bergoglio come un ingombro, e gli interventi di Benedetto come inopportuni. E alla fine tra gli uomini di Bergoglio il Monastero è stato percepito come una sorta di luogo-simbolo di una sorta di contro-potere: quasi un polo antagonista, dietro il quale si muove una potente filiera tradizionalista. E Casa Santa Marta è stata vista da molti dai ratzingeriani come una sorta di enclave che dietro lo schermo della continuità cambiava non solo gli equilibri di potere ma l’approccio dottrinale e riferimenti diplomatici tradizionali della Santa Sede. E questo a dispetto, va ribadito, dell’impegno dei <due papi> (tra virgolette perché di papa ce n’é uno solo) a evitare fratture e scontri interni.
Dalla coesistenza alla rottura apparente, nonostante la popolarità di Bergoglio, Ratzinger in questi anni ha assunto un fascino per alcuni ambienti della cristianità forse superiore a quello che aveva quando era in carica. Come si spiega il successo “postumo” di questo papa di “cristallo”?
Si spiega con un’ostilità sempre più aperta e pregiudiziale dei cattolici tradizionalisti nei confronti di Francesco e delle sue riforme visionarie, profetiche ma anche caotiche; e con un rigore dottrinale e una finezza teologica di Benedetto che oggi, a torto o a ragione, vengono considerati carenti nel pontificato di Bergoglio. In più, l’essersi defilato e appartato nel Monastero ha fatto dimenticare gli scandali e le tensioni che hanno accompagnato la fine del pontificato di Ratzinger.
Il monastero è il peacemaker del potere Vaticano che riesce a garantire una unità forzata tra il progressismo dei bergogliani e il tradizionalismo dei loro oppositori?
Certamente lo è stato. Il Monastero è stato a lungo l’argine con il quale Benedetto ha frenato e assorbito le spinte contro Francesco provenienti dagli ambienti iper-ortodossi del cattolicesimo. Ha, di fatto, “coperto” questo versante della Chiesa, diffidente e poi ostile nei confronti di Francesco. Nel libro il cardinale Gerhard Muller arriva a sostenere che il Monastero è il luogo “dove vengono curate le persone ferite da Francesco. E sono molte…”: una frase che lascia indovinare le tensioni e gli scontri di questi anni, per quanto diplomatizzati o addirittura rimossi.
Perché nel libro lei definisce, in realtà, più rivoluzionario Benedetto di Francesco?
Perché la rinuncia, o “le dimissioni”, sono state uno strappo ben più epocale e inedito dei presunti strappi di Francesco. Il Monastero è l’emblema di quello che rimane tuttora un tabù: tanto che dopo nove anni non è stata ancora regolata da nessuna norma la rinuncia di un pontefice. E tuttora si parla di “due papi”, con frange minoritarie ma agguerrite che o non riconoscono come valide le dimissioni di Benedetto, o lo accusano di avere lasciato troppo spazio a Francesco e alla sua “rivoluzione”. In realtà, in modo diverso entrambi hanno desacralizzato l’istituzione papale.
Le anomalie portate dal rinuncio di Benedetto XVI e dall’insolita diarchia di questi anni come stanno cambiando per sempre la figura del papa e la condotta della chiesa?
L ’hanno cambiata nel senso di “umanizzare” il papa, con conseguenze molto controverse e ancora oggetto di dibattito e di imbarazzo. Il tema di fondo, mai affrontato pubblicamente, è se la rinuncia di Ratzinger sia un unicum, o un precedente che aprirà la strada ad altre dimissioni papali. La mia impressione, tuttavia, è che nei prossimi anni il tentativo sarà quello di ricostruire una figura papale su presupposti diversi; di rafforzare il governo vaticano; e di riaffermare il ruolo fondamentale di Roma, rispetto alle spinte centrifughe e alla narrativa anti-Curia e anti-italiana che hanno profondamente condizionato l’ultimo Conclave: sebbene gli scandali intorno a Benedetto avessero giustificato certi pregiudizi…
In più occasioni lei ha potuto conoscere ed intervistare il papa emerito, che immagine si è fatto di questo personaggio così particolare, freddo e distaccato durante il pontificato, ma allo stesso tempo umano e cordiale come nel suo incontro con il vignettista Giannelli? Può raccontarci un aneddoto?
In effetti sono rimasto sorpreso dalla sua semplicità, dalla sua fragilità fisica, dall’aura di autorevolezza e di mistero che trasmette, e insieme dalla sua rapidità intellettuale. Non riesce quasi più a articolare le parole, eppure in certo momenti, sforzandosi, si fa capire eccome. L’ha dimostrato quando, nel colloquio che abbiamo avuto con lui insieme col direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, ha voluto dire con chiarezza che il papa è uno solo, disarmando i critici di Francesco. E quando ha visto il nostro vignettista Emilio Giannelli, che gli spiegava di non essere affatto religioso, al contrario di un fratello che era mancato in tempi recenti, Benedetto ha replicato, pronto: “Ha tempo per rimediare”. E’ un aneddoto riportato nel mio libro.
Il terzomondismo bergogliano ha mostrato forse la più grande frattura tra i due papi: l’Europa. Cosa divide i “diarchi” sul tema delle sorti del vecchio mondo e come ciò influenzerà la linea futura della chiesa?
Il Vaticano tende a percepirsi e a presentarsi come un’istituzione che garantisce continuità. E questo avviene anche quando la continuità in realtà si adatta ai nuovi tempi. La mia impressione è che Benedetto sia stato un papa europeo e <italiano>, che voleva cercare di rianimare il cattolicesimo in Occidente; e che credeva e crede nei valori dell’Occidente. Ma l’operazione non è riuscita. Francesco è un americano, flglio di un’America latina che da terra di missione è diventata o ritiene di essere diventata terra missionaria, chiamata a rievangelizzare un’Europa e un Occidente ritenuti scristianizzati e senza futuro. Per questo Bergoglio è stato visto come un papa post-occidentale, che ha puntato molto sul Terzo Mondo; e, in parallelo, sui rapporti con la Russia, per sanare la frattura con la religione ortodossa; e con la Cina, per concordare la nomina dei vescovi e proiettare il cattolicesimo in Asia, dove fatica a penetrare. Ma l’aggressione militare russa all’Ucraina, di fatto assecondata dalla Cina, ha mostrato i limiti e le contraddizioni di questa strategia, impedendo almeno fino all’inizio di maggio al papa di esercitare la sua azione per la pace, nella quale il Vaticano è storicamente maestro. Le sue parole a favore dell’Ucraina sono state chiare e forti. E il fatto che durante due mesi e più di guerra Benedetto non abbia mai parlato dimostra come, se anche esistono delle differenze di giudizio, al Monastero ha prevalso una linea di unità e di ubbidienza a Francesco, per evitare fraintendimenti e speculazioni in una Chiesa cattolica percorsa da tensioni profonde e irrisolte.