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L’Occidente “colpevole” e “vincente”. Parla Giacalone.

L’Occidente “colpevole” e “vincente”. Parla Giacalone.

Di Francesco Subiaco




Guerrafondai, colonialisti, imperialisti, classisti, paternalisti in una parola: “colpevoli”. Colpevoli, dei crimini dei propri avi e di quelli che non riescono ad evitare dei loro contemporanei, di essere ricchi, di essere moderni, di essere democratici (ma anche di non esserlo abbastanza…). Ma soprattutto di essere “vincenti”. Macchiati di un nuovo peccato originale secolare, ogni giorno gli occidentali sono chiamati ad essere giudicati senza possibilità di replica per quei “crimini” compiuti al passato da loro o dai loro avi, che però vengono tanto difesi quando vengono declinati al presente dai loro avversari. Ma come è possibile che oggi l’Occidente sia vittima di questa fantasiosa inquisizione laica? E come si può superare questa religione della colpa? Ne parliamo con Davide Giacalone, saggista, direttore de La Ragione ed editorialista di RTL 102.5, vicepresidente della Fondazione Luigi Einaudi, che ha brillantemente risposto a queste domande nel suo ultimo saggio edito Rubbettino: “Colpevoli & vincenti. Gli occidentali contro sé stessi”. Un testo che analizza le nevrosi, le psicosi e i miti che attanagliano gli occidentali e che li pongono in uno stato di minorità autoindotta, creando un clima da “giudizio universale permanente”, in cui alla luce del terzomondismo, del mito autocratico, del pietismo e del woke, si pretende di giudicare e condannare la civiltà occidentale, in nome di colpe epocali, sempre condannate al passato, quanto giustificate al presente.



Perché “Colpevoli e vincenti”?

“Colpevoli” perchè per buona parte del dibattito pubblico noi occidentali siamo colpevoli di tutto. Di quello che facciamo e di quello che facemmo (o, meglio, che fecero le nostre passate generazioni). Portiamo la colpa di quel che abbiamo prodotto, ma anche di quello che non riusciamo a evitare. Dal colonialismo alle guerre scatenate da altri che a detta di molti non sappiamo evitare. Siamo colpevoli per quel che contiamo, nel mondo, ma anche per quel che non contiamo. Siamo, quindi colpevoli perché vittima di un eurocentrismo capovolto. Infatti se prima gli occidentali si sono sentiti e raccontati come il centro della civiltà, che nell’Europa prima, e nell’Occidente poi, ha visto il motore principale della Storia (ignorando le altre civiltà che si sviluppavano parallelamente alla nostra…), poi gli occidentali si sono sentiti invece i colpevoli di ogni malefatta, di ogni crimine ed abuso.

-Di cosa siamo “colpevoli”?
Siamo “colpevoli” di ogni cosa: del colonialismo del passato, che viene evocato ogni volta per attaccare ed accusare l’occidente, mentre si sminuisce o si dimentica troppo spesso quello presente delle autocrazie; della schiavitù, diffusa già nel mondo antico, da popoli di diversa provenienza, dai romani agli egiziani, passando per molti popoli africani; delle guerre, soprattutto di quelle provocate da altri…
Siamo colpevoli perché “vincenti” e saremo perdenti perché vincenti. Secondo un modo di pensare che elimina la Ragione, ma affascina il pensiero di quanti non possono accettare che ci siano passi in avanti, giacché si dimostrerebbe solo che quei pensieri antidemocratici ed antioccidentali sono rimasti indietro, intimoriti, incapaci di fare i conti con la realtà. Siamo colpevoli anche di dubitare, di osservare criticamente tale autoflagellazione occidentale, siamo colpevoli del sentirci orgogliosamente cittadini della parte migliore del mondo, quella in cui i ricchi altrui corrono ad abitare e che i poveri altrui provano a raggiungere con ogni mezzo. Una colpevolezza che ci affligge anche perché per parlarne usiamo e useremo delle parole e le parole sono colpevoli, perché i colpevoli devono tacere e se proprio non riescono a farlo devono usare un linguaggio che interiorizzi la colpa, quindi cancelli le parole, le genufletta al pentimento per averle generate con culture del dominio. La nostra cultura è colpevole in quanto tale, in quanto anche solo si definisce tale, mentre si deve portare rispetto per le altre culture, comprenderne il “fondato”, “giusto” e “giustificabile” risentimento verso di noi. Peccato che, vaneggiando in questo modo, si commette il più atroce dei soprusi: si toglie umanità a queste altre culture, le si relega in un campo che, volendolo santificare, diventa il campo santo del pensare, in cui esistono solo culture morte e devitalizzate. Così facendo però si è veramente colpevoli ma di abolire le culture, le differenze, le libertà. La colpa è in sostanza l’altra parte della medaglia della conquista.

-E perché si è diffusa questa “apologia della colpa”?

Si è diffusa perché, in fondo, essa non è altro che la denigrazione, l’odio, la paura della libertà. Perché quest’ultima non si separa mai dalla responsabilità. E se crogiolarsi nelle colpe collettive ha l’indubbio pregio di non dovere mai pagarne le conseguenze, preferire evitare questo sciocco esercizio e dedicarsi a quello della libertà comporta l’indubbio prezzo di risponderne direttamente. Poi c’è un altro fattore.

Quale?

Che il nostro Occidente ha al suo interno “gli occidentali contro se stessi”.

Ovvero?
Una parte del nostro mondo e della nostra cultura disprezza ed odia l’Occidente perché odia la democrazia e la libertà, perché queste due componenti hanno una pessima compagna: la responsabilità. La fuga dalla libertà è una fuga dalla responsabilità verso un mondo in cui si può essere irresponsabili, innocenti solo perché si è sudditi. Per questo si tifa contro i nemici dell’Occidente perché così facendo si è dalla parte dei nemici della libertà, anche contro ogni logica. Pensiamo alla barbara invasione della Russia, contraria ad ogni convenzione internazionale o militare. Anche di fronte a questo crimine internazionale c’è chi ha accusato la Nato, gli Stati Uniti, l’Europa con vaneggiamenti su ipotetici accerchiamenti occidentali della Russia, smentiti anche dallo stesso Putin…


Secondo lei come potrà l’Occidente uscire da questo stato di minorità autoindotta?

Riconoscendo che si tratta di uno stato di minorità apparente. Perché l’Occidente non è solo la parte del mondo in cui si vive meglio e più a lungo, ma perché è anche quella che sia a livello economico sia sotto il profilo delle libertà civili, è più avanzata. Siamo un mondo imperfetto, perché da noi non ci si sente liberi se tutti gli uomini non sono liberi e non si sente ricchi se tutti gli uomini non possono avere gli strumenti per realizzarsi materialmente. La civiltà occidentale ha una aspirazione universale alla libertà, alla democrazia, al dubbio che è la nostra vera forza e l’essenza del nostro modo di essere occidentali. Riscoprendo questa aspirazione potremmo superare questa condizione da lei descritta.

Cosa ne pensa del politicamente corretto e del woke?
Io penso proprio che uno dei veri punti di debolezza dell’Occidente sia questa strana forma di ipocrisia interna portata dalla cancel culture e dal politicamente corretto. Una ipocrisia con sfumature anche molto demenziali in alcuni casi… Ad esempio, la stupidità di non poter dire “maschio” o “femmina” perché si rischia di poter offendere qualcuno parlando di “sesso di nascita” o “biologico”. Intendiamoci la libertà del nostro mondo è giustamente totale e ognuno può scegliere di intraprendere o un percorso di transizione e fare quello che vuole nella propria vita privata, e deve poter vedere difeso e garantito questo diritto. Ma pretendere di dare una definizione ad ogni cosa che ognuno ama fare nella propria vita sessuale o di attuare delle vere e proprie persecuzioni del vocabolario o della grammatica, mi sembra qualcosa di demenziale. La libertà e i diritti sono un’altra cosa…


Che ne pensa della questione israeliana?

Israele anche se non fa parte dell’Occidente geografico, fa sicuramente parte dell’Occidente storico. Come diceva Ugo La Malfa, la libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme. Una frase che mi sembra attuale oggi più che mai. Israele è, infatti, una grande democrazia occidentale assediata da una organizzazione terroristica come Hamas. Ma occorre precisare un fattore: Hamas è un organizzazione terroristica, che non si batte per i palestinesi ma che usa i cadaveri e la miseria dei palestinesi per bloccare quei processi di pace e convivenza. Del resto la striscia di Gaza è tornata a essere un problema non quando gli israeliani la consegnarono ai palestinesi, ma quando Hamas fece fuori l’Anp(Autorità Nazionale palestinese ndr.). Che oggi non conta più niente. È da quando Hamas vinse le elezioni, grazie ai soldi che riceveva dai nemici occidentali, che Gaza è divenuta una rampa di lancio – continuo – per missili contro Israele. Contro questa furia fanatica approcci ragionevoli e aiuti sono stati neutralizzati dal delirio terrorista. Occorre ribadire quindi che Israele è un bastione della libertà occidentale, come l’Ucraina è una trincea della sicurezza occidentale. Né Israele né l’Ucraina sono la perfezione, perché la perfezione è impossibile, se non nei deliri totalitari. Ma l’attacco a Israele e all’Ucraina viene dai nemici del nostro mondo. Ed è contro di essi che bisogna rispondere. Perché questi sono i nemici della libertà e della democrazia.

Colpevoli & vincenti. Gli occidentali contro sé stessi” di Davide Giacalone (Rubbettino)

Europa-Usa 2024: Sfide transatlantiche

Europa-Usa 2024: Sfide transatlantiche



Di Francesco Subiaco e Francesco Latilla


Durante la mattinata dello scorso 18 settembre, all’interno della Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani del Senato, a Roma, si è svolto il nuovo importante evento promosso dalla Fondazione Fare Futuro dal titolo “Europa- USA 2024: sfide transatlantiche”. L’iniziativa, incentrata su una prestigiosa tavola rotonda aperta al pubblico, è stata accolta dal forte interesse dei partecipanti riguardo gli argomenti trattati, offrendo così numerosi spunti di riflessioni per comprendere le principali sfide dello scenario geo-politico che sta attraversando non solo l’Europa, ma l’intero Occidente, tra l’espansione delle autocrazie verso l’Africa e il ruolo dell’India e delle democrazie asiatiche nella definizione di un Occidente non solo geografico, ma soprattutto valoriale. Proseguendo nella sua opera di dibattito, analisi e anticipazione degli scenari che investono nel breve/medio periodo le sfide elettorali del 2024, dalle elezioni europee alle elezioni americane, passando per le elezioni indiane. Una evento promosso dalla Fondazione Fare Futuro, che ha visto la partecipazione di esponenti del Comitato Atlantico, dell’International Republican Institute e dell’Heritage foundation, che è stato aperto dal vicesegretario generale di Farefuturo dott. Nicola Portacci. I lavori si sono articolati in due successivi panel. Il primo, dal titolo “2024 UE e USA: un anno di lezioni sulle due sponde dell’Atlantico“, che ha visto gli interventi di Lucio Malan (Presidente del gruppo di Fratelli d’ Italia al Senato), del vicepresidente dell’Heritage Foundation James J. Carafano e di Thibault Muzergues (“Senior Advisor dell’IRI per la strategia transatlantica”). Un tema che il dottor Muzergues ha affrontato sottolineando il suo punto di vista sulle evoluzioni dello scenario europeo: “Credo sia un cliché parlare di momento chiave in questa fase, dato che sempre ci troviamo in periodi importanti dove bisogna prendere determinate decisioni. Ricordiamo che oltre alle elezioni americane, importantissime, a breve ci saranno anche quelle di molti paesi europei che bisogna tenere d’occhio come quelle in Gran Bretagna e in Spagna. Sicuramente stiamo assistendo ad una nuova ondata conservatrice da parte di quei partiti che, seppur partendo da istanze rivoluzionarie figlie del cosiddetto populismo europeo, per poter gestire l’esistente si sono istituzionalizzati virando verso istanze conservatrici, generaliste e di governo. Il centrodestra non è più quello di 15 anni fa, e oggi il movimento conservatore deve comprendere i cambiamenti che hanno portato ad una nuova fase politica”. Sul tema del ruolo dei conservatori è importante sottolineare quanto espresso dal vicepresidente dell’Heritage Foundation James Carafano sull’importanza del mondo conservatore: “Oggi i conservatori sono la vera alternativa ai populisti. Le risposte che essi offrono partono dalle stesse istanze dei movimenti populisti, ma seguono percorsi differenti. Nelle prossime elezioni il ruolo dei conservatori sarà fondamentale sia negli Stati Uniti quanto in Europa”. Il dibattito del primo panel ha offerto lo spunto per riflessioni, da parte dei Relatori, sui possibili esiti della duplice consultazione elettorale del 2024: quella del prossimo giugno per il rinnovo del Parlamento europeo e quella del prossimo novembre per l’elezione dell’inquilino della Casa Bianca per il quadriennio a venire. Appuntamenti in entrambi i casi cruciali: nel primo, per l’avvenire del nostro Continente in uno scenario europeo e mondiale in profonda evoluzione; nel secondo, per il futuro della prima potenza mondiale e nostro principale alleato: gli Stati Uniti d’America. Il “panel” è stato moderato da Flavia Giacobbe, direttrice di Formiche, i cui quesiti articolati sono stati caratterizzati dalla ricerca di : “Una nuova prospettiva comune tra Italia e Stati Uniti”. Gli indirizzi di saluto sono stati pronunziati dal Ministro delle Imprese e del Made in Italy Sen. Adolfo Urso: “Queste elezioni nei tre continenti riguardano le grandi sfide comuni rispetto alle sfide con le autocrazie e alla creazione di un orizzonte comune. Quella della Russia e quella della Cina. Alla sfida tecnologica ed industriale della Cina l’Europa deve costruire una ulteriore alternativa. Insistiamo affinché l’UE risponda alla sfida cinese con una strategia assertiva rispetto a quella statunitense per un disegno euroatlantico complementare per una comune architettura globale. In questo contesto in alternativa alla ‘Via della seta cinese’, sarà cruciale l’impostazione di una ‘Via del cotone’ capace di unire il Mediterraneo e il sud est asiatico“. Tornando sulla definizione di un nuovo occidente valoriale e non geografico il ministro Urso ha poi sottolineato che è necessario:”costruire un ponte con il Piano Mattei verso l’Africa. In una logica dell’occidente allargato in cui tutte le rotte si intersecano nel Mediterraneo”. Il secondo panel dal titolo “Relazioni transatlantiche: sfide e opportunità”, ha visto gli interventi di Fabrizio W. Luciolli presidente del Comitato Atlantico Italiano e di Velina Tchakarova, analista geopolitica, moderati da Francesco Galietti, co-fondatore e ceo Policy Sonar. Un intervento quello del presidente del Comitato Atlantico Luciolli che ha messo in luce lo scenario di “in-sicurezza globale” in cui siamo immersi puntando l’attenzione sulle nuove sfide della Nato e dell’alleanza comune: “La posizione dell’Italia deve essere oggi inquadrata in una ottica un po’ meno politica, ma sempre più geopolitica e strategica. Se analizziamo, infatti, il ruolo dell’Italia in relazione alle sfide strategiche del Mediterraneo, oggi più complesse e cruciali che in passato, arriviamo alla conclusione che sono finite le eleganti semplicità della guerra fredda, ma anzi oggi ci si prospettano le nuove sfide dal dominio sommerso, della cyber security, delle rotte economiche. In questo scenario occorre guardare ad un occidente allargato che deve guardare alle sfide del futuro con una prospettiva comune capace di affrontare i sommovimenti, potremmo dire tettonici, che ne caratterizzano la complessità. In questa ottica la Nato rappresenta oggi quella che è l’organizzazione internazionale più efficace che la storia abbia mai conosciuto. Riscoprendo la natura squisitamente politica della NATO per avere un focus maggiore sulla difesa collettiva che può avvenire solo attraverso una divisione dei compiti in una prospettiva comune. Una organizzazione in cui tutti devono svolgere il loro ruolo ed in cui solo lo sforzo e soprattutto l’impegno comune dei paesi alleati può affrontare le sfide dei nuovi domini. In questo contesto è quindi fondamentale considerare il discorso del 2% per mantenere la nostra credibilità sul piano internazionale”. Il ministro Tajani, ha inviato un testo con i saluti e gli auspici di buon lavoro, dove ha sottolineato l’importanza di un dialogo intenso e proficuo tra le due sfide dell’Atlantico per la risoluzione delle sfide del futuro. La sessione è stata l’occasione per un confronto a più voci, europee e americane, sul presente e futuro delle relazioni tra le due sponde dell’atlantico. E questo, in una fase di rilancio dell’immagine e credibilità dell’alleanza atlantica sullo sfondo della perdurante guerra di aggressione della Russia putiniana all’Ucraina e del recente collegato allargamento dell’alleanza a Svezia e Finlandia. Al termine del panel l’ambasciatore Gabriele Checchia, responsabile Esteri della Fondazione Farefuturo, ha espresso le sue considerazioni conclusive: “Oggi si sta lavorando ad una prospettiva comune di un occidente allargato trovando nelle democrazie asiatiche un baluardo contro le autocrazie. L’Italia in questo quadro è un governo saldamente in sella che può svolgere un ruolo di intermediario tra i conservatori e i popolari di fronte agli sconvolgimenti dell’Unione Europea. C’è un vento di destra che soffia in Europa, che seppur partendo da istanze populiste in alcuni casi quando vince si istituzionalizza, uscendo così dai movimenti rivoluzionari, riuscendo a farsi forza di governo ed è ciò che sta avvenendo anche nella nostra maggioranza di governo. I popolari sono ancora alla ricerca di una propria collocazione strategica e devono ancora decidere se rinnovare la propria alleanza ad Ursula Von Der Leyen o ad un parlamento volto al centrodestra. L’Italia ha un peso fondamentale all’interno dell’alleanza transatlantica e un’importante conferma ne è la recente elezione dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone a presidente del Comitato militare della Nato“. Considerazioni quelle dei relatori, cruciali per comprendere i cambiamenti della contemporaneità.

CINEMA SOTTO LE STELLE – DAL MITO AL PUBBLICOLA RASSEGNA IDEATA DAI FRATELLI LATILLA CON LA COLLABORAZIONE DI ERMETE LABBADIA

CINEMA SOTTO LE STELLE – DAL MITO AL PUBBLICO

LA RASSEGNA IDEATA DAI FRATELLI LATILLA CON LA COLLABORAZIONE DI ERMETE LABBADIA


Grande attesa a Fondi per l’evento “Cinema Sotto le stelle – dal mito al pubblico”, rassegna cinematografica a cura dei Fratelli Latilla (registi e sceneggiatori) con la collaborazione di Ermete Labbadia (direttore artistico del Festival Inventa un Film).
Una collaborazione importante quella tra Labbadia e i Latilla, per una serata ricca di cortometraggi arrivati nelle fasi finali del Festival Inventa un Film. L’evento nasce con lo scopo di valorizzare il mondo dei cortometraggi che oggi sta diventando sempre di più un veicolo di comunicazione e di arte.
Le opere presentate toccheranno tematiche importanti dell’era contemporanea dimostrando che il cinema, anche quello di breve durata, può fornire spunti notevoli per osservare come attraverso una lente di ingrandimento il mondo che ci circonda. Al termine di ogni proiezione seguirà una breve analisi da parte dei fratelli Latilla per poi concludere la serata con un dibattito col pubblico volto alla comprensione dei lavori mostrati. Inoltre, verrà presentato un lavoro audiovisivo sperimentale al di fuori della collaborazione con Inventa un Film e a presentare l’opera in questione sarà Alfredo Cerrito (compositore, direttore d’orchestra, sassofonista) reduce dal programma televisivo StraMorgan andato in onda su Rai 1.
I fratelli Latilla, dopo il successo internazionale del loro ultimo cortometraggio “Il guerriero”, hanno preferito ideare tale evento affinché anche il grande pubblico possa avvicinarsi ad opere che nonostante la breve durata hanno acquisito nel tempo lo stesso valore del circuito dei lungometraggi e formato intere classi del nuovo cinema mondiale.


L’evento si terrà sabato 19 agosto alle ore 21:00 presso il Chiostra di San Domenico a Fondi ed è patrocinato e sostenuto dal Comune di Fondi, Parco Naturale Regionale Monti Ausoni e Lago di Fondi e da Molti Sponsor e partner presenti sul territorio. Ad aprire la serata ci sarà KO party, un duo musicale composta da Domenico Pernarella (Voce) e Valerio Sepe (Chitarra).
L’ingresso è gratuito.
Per info & prenotazioni potete contattare il numero 3290723152

L’Ottocento visto dai suoi protagonisti

L’Ottocento visto dai suoi protagonisti

Di Francesco Subiaco

La locuzione di natura storica “lungo XIX secolo” o “lungo Ottocento” (in lingua inglese Long 19th Century) fu coniata per la prima volta dal grande storico britannico, di formazione marxista, Eric Hobsbawm. Lo studioso, nel suo omonimo saggio, indicava, infatti, il XIX secolo (l’Ottocento, 1801-1900) come un secolo che si è esteso – almeno sul piano della storiografia e dello sviluppo culturale – tra l’anno 1789 e l’anno 1914. Un saggio che indicò in quell’ottocento “allargato”, della crisi dei modelli canonici dell’arte, l’antitesi rispetto a quel novecento “ristretto” ritratto ed analizzato nel suo “Il secolo breve”, e che, parafrasando Massimo Cacciari, sono contesi tra paradiso e naufragio. La storia dell’ottocento per Hobsbawn nasce, infatti, con la rivoluzione francese, con il primo cedimento di quel mondo vano e vanitoso incarnato da figure come Luigi XIV, come Colbert, e che in quel 1789 si chiude drasticamente portando alla fine, al meno sul piano simbolico, di quel mondo fatto di ordini e non di classi, di sovrani taumaturghi e corti e non di capi carismatici e di popoli. Con la fine dell’Ancient régime in Francia termina un mondo arcano che sopravvissuto all’ombra del rococò ha attraversato la storia nel tentativo di  ricostruire una quieta grandezza ed una connessione ancestrale con una bellezza ideale e con un’epoca più gloriosa, più vivace, più libera. In quella temperie tra illuminismo e assolutismo all’ombra della corte di Versailles e delle vestigia papaline artisti, scrittori, filosofo trovavano nell’ideale classico, e nella sua estetizzazione, un punto di svolta, un momento di rinascita, che animato dal furore teorizzatore di Winckelmann, prese il nome di neoclassicismo. Una stagione artistica che animò la fine del settecento arrivando fino all’ottocento e configurandosi come il vero dominus del mondo artistico, trovando in artisti come Ingres, come Thorvaldsen, come Canova (seppur accusato di preromanticismo) dei riferimenti indiscussi. Un’arte quieta, classica, mite, eterea, “ingenua”, che non poteva non cozzare con quello spirito di rivolta, di individualità, di soggettivismo che poi animerà il lungo XIX, che processava e contrastava il primato del bello e della divina mimesis, portando poi alla temperie che animò le avanguardie. La favola bella del neoclassicismo verrà infatti messa completamente in discussione di fronte ai cambiamenti dirompenti che investiranno un secolo magnifico e complesso come l’ottocento. Al bello si sostituirà il sublime, alla rappresentazione l’impressione, alla natura fondale delle passioni umane la Natura protagonista di Friedrich che si carica di significati politici, simbolici, religiosi. Nell’Ottocento avviene un cambiamento nella sensibilità europea, come affermò Mario Praz, che porterà alla nascita di nuove concezioni dell’arte e dell’artista. La Natura, il vero, il numinoso, le passioni, l’irrazionale, il cambiamento sociale, la realtà industriale, le corrispondenze segrete dell’assoluto entrano  prepotentemente come temi, come evidenze e come novità che ridefiniscono completamente il ruolo dell’artista, dell’opera d’arte, della critica. Di fronte allo sviluppo industriale e alla nascita delle metropoli industriali quale è il ruolo dell’artista? Oltre le finzioni dei miti e del bello esiste una dimensione selvaggia, spaventosa e magnifica, passionale e mostruosa, perché non raccontarla? Perché rifugiarsi in sogni ed illusioni mitiche se il mondo è pieno di storie, di vita, di vitalità? Sono queste le domande che sconvolgono l’artista ottocentesco e che ne condizionano le scelte, le decisioni, le innovazioni. Per conoscere le atmosfere, le illuminazioni e i cambiamenti che hanno trasformato il volto del XIX secolo è indispensabile sapere come pensavano, cosa sentivano e cosa volevano comunicare questi artisti visionari che hanno inaugurato un nuovo modo di fare arte e di concepire l’arte dal romanticismo all’impressionismo, dai puristi ai simbolisti, le cui idee e testimonianze sono magistralmente raccolte nella splendida antologia di Silvia Bordini,”L’Ottocento. Le fonti per la storia dell’arte (1815-1880)” edito Carocci. L’opera che fa parte della straordinaria collana dedicata alla letteratura artistica dall’antichità ai giorni nostri affronta criticamente, nell’introduzione e nei testi raccolti nell’antologia, la pluralità di tendenze e teorie che attraversano l’arte dell’Ottocento. Evidenziando i profondi mutamenti nei modi di pensare e fare l’arte, nella concezione e nella realizzazione delle opere come nella loro percezione e diffusione. In un mondo segnato da rivoluzioni politiche, economiche e culturali gli artisti rivendicano e sperimentano – non senza contrasti – un’inedita libertà di espressione; tra i poli dialettici di tradizione e innovazione, ragione e passione, nasce così un universo di immagini nuove che coinvolge anche gli interventi della critica e le risposte del pubblico, le indicazioni delle istituzioni e l’espansione del mercato. Il continuo interrogarsi dell’arte sulla propria identità, sulle articolazioni dei processi linguistici quanto delle finalità, emerge dagli scritti dei critici e degli artisti e viene analizzato nelle pagine di questo libro attraverso un’interpretazione storico-critica che mette a fuoco l’intrecciarsi dei modelli di riferimento e delle invenzioni, gli scandali, le polemiche, il dibattito teorico: dal classicismo accademico ad un medioevo sognato e alle suggestioni dell’oriente; dal senso della storia alle immagini della vita quotidiana; dall’impegno ideologico e civile all’impero dell’immaginazione; dall’esaltazione del bello ideale alla ricerca di una moralità dell’arte.
Dal ruolo parziale, magico ed evocativo del critico secondo Baudelaire a quello analitico, scientifico e razionale di Zola, alla concezione del genio che anima gli artisti romantici e le feroci critiche all’accademia, alla industrializzazione. Mostrando la voce, spesso inascoltata di grandi artisti (Delacroix, Courbet, Friedrich e Signorini), letterati (Baudelaire, Zola, Goncourt) e soprattutto critici (Ruskin tra tutti). Ricostruendo un grande atlante della sensibilità ottocentesca: dalla scoperta del vero e della dimensione storica e politica in Mazzini e D’Azeglio all’impegno per il sociale di Proudhon e Zola; dalle ierofanie di un mondo fatto di simboli e richiami segreti come quello di Baudelaire e Abbot, al culto delle passioni e della Natura che fonde panteismo e spirito religioso. Mostrando in maniera plastica e chiara il contenuto sedimentato che l’immagine fa fiorire.

I morti sono vivi, i vivi sono morti. L’inconscio del mondo secondo Le Bon.

I morti sono vivi, i vivi sono morti. L’inconscio del mondo secondo Le Bon.

Di Francesco Subiaco

“Le idee rappresentano le molle invisibili delle cose. Quando scompaiono, si spezzano le molle segrete delle istituzioni e delle civiltà. Fu sempre per un popolo un’ora tremenda quando le sue vecchie idee scesero nella fosca necropoli dove riposano gli dèi morti”



Gustave Le Bon è stato uno dei più grandi sismografi e conoscitori della società di massa di cui ha saputo cogliere vizi, virtù, fisiologie e patologie con visionario anticipo e con estrema ed audace lungimiranza. Sguardo da negromante, profilo mistico Le Bon, è un intellettuale totale, dalla poliedricità davinciana: sociologo, psicologo, medico, storico, filosofo, fisico. Candidato più volte al Nobel per la fisica per le sue straordinarie intuizioni sulla relatività e conosciuto al grande pubblico come il mago, il conoscitore principale delle folle e della psicologie delle masse, che ha saputo instillare con chiarezza e profondità sconcertante nei suoi testi più importanti. Opere con cui Le Bon sminuzza la società e la analizza nelle sue contraddizioni ed elevazioni, nei suoi miti e nelle sue credenze analizzando le dottrine politiche, la nascita del mondo delle massa, le degradazioni dell’uomo nella folla, i cambiamenti sociali che hanno condizionato lo sviluppo delle civiltà moderne. I suoi testi sono chiari, lucidi, visionari, spietati nell’osservare i veri meccanismi dei processi rivoluzionari come la genealogia (e la necrologia) delle opinioni e delle credenze, le isterie di massa della propaganda e la surrogazione degli slanci mistici dalla religione all’ideologia. I cui insegnamenti sono stati i veri catechismi dei principali statisti e dittatori, leader di partito e demagoghi della politica novecentesca, da Theodore Roosevelt a Mussolini, da Lenin a Ho Chi Min, fornendo le chiavi interpretative per comprendere le vere radici del potere e delle masse. Spunti che riescono a comprendere al meglio l’anima dei popoli e le evoluzioni delle convinzioni sociali, le credenze religiose e non, e le opinioni di massa. Tutte chiavi di volta per comprendere la società di massa, i suoi miti e i suoi riti, e che possiamo trovare ed osservare al meglio nello splendido testo leboniano edito da Gog Edizioni, con una splendida prefazione di Lorenzo Vitelli: “L’inconscio del mondo”. Un testo che analizza e approfondisce in modo chiaro, illuminante e totale l’evoluzione dei popoli e i meccanismi che condizionano la società di massa. L’opera però non si presenta solo come una immersione nelle strutture originarie in cui si forgia la nostra vita sociale, o una immersione negli anfratti più recondito dell’inconscio collettivo di un popolo, di una nazione, di una civiltà, bensì si mostra come un trattato di sociologia generale che analizza in tutte le sue angolazioni l’uomo, l’inconscio e il mondo, sia come singoli che come popoli. Rispondendo a domande fondamentali come: “I popoli hanno un’anima?”; “Cosa decreta il destino di un popolo?”; “Cosa condiziona il nascere e il morire di una civiltà?”; “Le folle, anch’esse, possiedono un’anima?”; “Cosa guida le masse, cosa le muove nelle loro aspirazioni?”. L’inconscio del mondo, trova una risposta a queste domande, accorpando due dei saggi più celebri di Gustave Le Bon: “Leggi psicologiche dell’evoluzione dei popoli” e “Psicologia delle folle”, pubblicati rispettivamente nel 1894 e nel 1895. Testi che mostrano come le opinioni comuni e le credenze non siano prodotti razionali, ma il frutto di processi secolari che coinvolgono l’agire umano nella loro potenza mistica, nel loro modo di integrare, coinvolgere e innestare l’uomo nell’ambiente sociale, nella loro capacità di creare una suggestione inconscia ed una connessione sentimentale tra l’uomo, degradato nell’io collettivo della folla, e nei nuovi demagoghi. In cui il ruolo di suggestioni inconsce e di retaggi ancestrali è molto più preponderante di dimostrazioni e spiegazioni. Le Bon spiega, del resto, che le leggi dell’evoluzione dei popoli non sono il risultato di complesse leggi economiche millenarie, ma il prodotto dell’anima di un popolo, del suo carattere e delle sue contraddizioni primarie. È soprattutto la manifestazione del primato dei morti sui vivi, dell’invisibile sul visibile. I popoli e le società sono condizionati da spinte inconsce che risalgono ai propri antenati, al rapporto con i defunti, con i loro predecessori che condizionano e indirizzano l’agire dei vivi molto più dell’interesse o dell’educazione. Lo spirito di un popolo è la principale legge che ne nuove l’evoluzione e lo sviluppo ed è composto da caratteri ancestrali, retaggi secolari e vizi collettivi che condizionano la storia e ne spiegano i principali cambiamenti. I valori, le illusioni, le spinte emotive formano il bagaglio di un popolo molto più degli indici di borsa o delle circolari di un ministero. La vera storia del mondo, infatti, per Le Bon non è quella delle trasformazioni politico-economiche, ma dei turbamenti che colpiscono e condizionano l’inconscio del mondo. Essa è fatta di stimoli, simboli, di suggestioni, di illusioni, di caratteri e valori. Questi fattori nell’epoca delle masse sono diventati, nella teoria leboniana, ancora più preponderanti creando la necessità di impiegare gli strumenti della suggestione e dell’immaginazione per orientare e condizionare l’avvenire delle masse. Da qui nasce nel mondo moderno la necessità di fare di ogni ideologia una mitologia, di ogni forma di comunicazione una forma di propaganda. Le opere di Le Bon, per tale capacità visionaria, rimangono delle chiavi fondamentali che nonostante gli anni riescono ad essere ancora attuali, decisive, cruciali per comprendere i cambiamenti del futuro (apparte la presenza di un concetto di “razza”, che seppur inteso non in senso etnico e biologico, bensì culturale-valoriale, ci appare lontano e deprecabile) dimostrandoci ancora una volta l’importanza di concepire il mondo oltre le illusioni dei razionalismi, ma alla luce delle vere anime dei popoli e delle vere forze che forgiano le opinioni e le credenze degli individui.

Il futuro della Nato e il ruolo dell’Italia. Le riflessioni del Comitato Atlantico

Il futuro della Nato e il ruolo dell’Italia. Le riflessioni del Comitato Atlantico

Il nuovo documento del Comitato Atlantico Italiano



Lo scorso 3 luglio si è svolto presso la Sala caduti di Nassiriya del Senato, il convegno promosso dal Comitato Atlantico Italiano dal titolo: “Il futuro della Nato e il ruolo dell’Italia“. Un evento che a ridosso del vertice di Vilnius di questi giorni ha chiarito, spiegato, sottolineato ed evidenziato le principali metamorfosi dell’alleanza atlantica di fronte alle sfide del presente e del futuro, puntando l’attenzione sull’importanza del ruolo dell’Italia nel blocco delle grandi democrazie occidentali. Uno scenario che viene approfondito soprattutto alla luce dello “stravolgimento tettonico” della dimensione della sicurezza causato dalla guerra in Ucraina che ha portato al passaggio da una sicurezza unipolare a guida statunitense ad una insicurezza multipolare prodotta dalle spinte espansionistiche ed imperiali di “rivali sistemici” che sfidano i valori ed il sistema di regole che costituiscono il tessuto connettivo delle libere società democratiche ed occidentali. Spunti di riflessione che sono stati presentati in un omonimo documento redatto dal Comitato Atlantico (che si aggiunge alla collana degli “Studi Atlantici”) e che chiarisce oggi il nuovo ruolo della Nato, come guida politica di un Occidente valoriale capace di proporre una nuova architettura globale della sicurezza. L’evento ha visto la partecipazione di studiosi, civil servant e figure di spicco del governo e del mondo parlamentare e si è articolato su tre panel principali: “Indirizzi di saluto”; “Il vertice Nato di Vilnius”; “Nuove sfide”. Il primo panel ha visto la presentazione del documento redatto dal Comitato Atlantico e le riflessioni dei principali esponenti istituzionali, e del presidente del Comitato Atlantico, Professor Fabrizio W. Luciolli, sulle principali sfide geopolitiche delle democrazie occidentali ed i cambiamenti principali che hanno sconvolto lo scenario attuale. I lavori sono stati aperti dal presidente della Commissione Politiche dell’Unione Europea del Senato Giulio Terzi di Sant’Agata che ha ribadito l’importanza del sostegno dei paesi europei alla resistenza ucraina, evidenziando la coesione degli agenti internazionali nel sostegno a Kyiv: “oggi l’Occidente è preparato e affronterà la sfida russa per tutto il tempo che riterrà necessario. È quindi importante ribadire il nostro sostegno militare, economico e politico all’Ucraina”. Rimarcando ulteriormente che “le sfide del domani, come quelle di Taiwan, sono non solo sfide economiche, ma anche sfide globali e di sicurezza” che non possono essere trascurate, ma anzi vanno capite ed affrontate al meglio, soprattutto in relazione ad un rivale sistemico come la Cina. Sono poi intervenuti il Sen. Maurizio Gasparri, Vice Presidente del Senato della Repubblica, e l’On. Lorenzo Cesa, Presidente della Delegazione Italiana presso l’Assemblea Parlamentare NATO, che hanno ribadito rispettivamente l’importanza dell’aumento della spesa per la difesa in una ottica di difesa e sicurezza comune e l’importanza del Mediterraneo come principale scenario dove si invererà il braccio di ferro tra autocrazie e democrazie e la imprescindibile responsabilità dell’Italia nella sua collocazione euroatlantica in questo rinnovato “campo di battaglia”. Il panel è stato concluso dal Prof. Fabrizio W. Luciolli, Presidente del Comitato Atlantico Italiano, il quale ha ribadito “l’importanza del ruolo della Nato nelle nuove generazioni e la necessità di una maggiore sensibilizzazione sul ruolo dell’intermediazione e della gestione delle emergenze”. Evidenziando poi come il nuovo testo degli studi atlantici: “non è solo un documento di ricerca, ma una analisi composta da proposte ed impegni con le autorità istituzionali e con l’opinione pubblica. Poiché oggi il nostro sistema di valori è minacciato dall’emersione di rivali sistemici che sfidano non solo la nostra sicurezza, ma anche i nostri valori”. Sottolineando, in conclusione l’importanza del vertice di Vilnius, in quanto esso si presenta come un vertice internazionale “di elevata complessità che riguarda un ulteriore necessità di adattare i nostri strumenti al mutare dello scenario di sicurezza. Una caratteristica straordinaria che ha sempre caratterizzato una delle principali qualità della Nato e che si mostrerà anche in questa fase”. Aggiungendo inoltre che: “oggi sono scomparse le eleganti semplicità della guerra fredda e questi epocali stravolgimenti, che caratterizzano l’attuale scenario di insicurezza multipolare, impongono un ripensamento della nostra azione per affrontare le sfide del futuro senza rimanere intrappolati negli schematismi del passato, che l’aggressione russa ha travolto definitivamente. Una nuova proiezione possibile attraverso una nuova strategia capace di rispondere alle sfide del presente e delle nuove tecnologie dirompenti e definendo una visione di un Occidente capace di essere più valoriale che geografico”.

Il secondo panel ha avuto come tema principale il vertice Nato di Vilnius di questi giorni ed è stato moderato e presentato dall’Ambasciatore Gabriele Checchia Presidente del Comitato Strategico, Comitato Atlantico Italiano ed ha visto gli interventi: del Ministro Plenipotenziario Alessandro Cattaneo, Capo Ufficio NATO, Questioni strategiche e di sicurezza politico-militari, Direzione Generale Affari Politici e di Sicurezza del Ministero Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, riguardo l’agenda di Vilnius e la posizione dell’Italia; del dottor Thibault Muzergues, Direttore Programma Europa e Euro-Med del International Republican Institute, sul quadro di Vilnius visto da una prospettiva transatlantica; e quello del Dott. Alessandro Marrone, Direttore Programma Difesa, Istituto Affari Internazionali, riguardo il partnerariato strategico tra Nato ed Unione Europea. I quali hanno sottolineato l’importanza della capacità di adattamento della Nato. Tra i più significativi l’intervento dell’ambasciatore Checchia che ha ribadito l’importanza della cooperazione euroatlantica e la necessità di una difesa comune europea in complementarietà con quella della Nato per affrontare le nuove sfide strategiche portate da questa nuova riconfigurazione della scacchiera internazionale. Puntando l’attenzione sull’importanza di una cooperazione comune per sottrarre l’Africa al giogo delle autocrazie, cercando di instaurare “un dialogo veramente non predatorio tra Occidente paesi africani in una prospettiva comune”. Checchia ha rimarcato, poi, l’attenzione sul sostegno ad un occidente valoriale e non geografico che va supportato in Medioriente con Israele, sul confine orientale attraverso il sostegno all’Ucraina, fino ad una grande democrazia come Taiwan.

L’ultimo panel invece è stato incentrato sulle nuove sfide della Nato che vanno dalle nuove tecnologie dirompenti al confronto con i nostri rivali sistemici. Il terzo macro tema presentato e moderato dal C.Amm. Cesare Ciocca, Coordinatore Scientifico, Comitato Atlantico Italiano ha visto i seguenti interventi: quello del Gen.C.A. Giorgio Battisti, Presidente della Commissione militare, Comitato Atlantico Italiano, sulle sfide della guerra in Ucraina all’occidente sotto il profilo di una prospettiva militare strategica; della Dottoressa Francesca Tortorella, Nato Emerging Security Challenges Division, sull’impatto delle nuove tecnologie dirompenti dall’AI al cyberwarfare; dell’Avv. Gabriele Iuvinale sui veri nodi della collaborazione sinorussa; dell’Avv. Nicola Iuvinale, sul liminal warfare cinese. Interventi e spunti che hanno analizzato le vere sfide e i veri nodi che dovrà affrontare la Nato e il conseguente ruolo dell’Italia. Dalla necessità di un nuovo adattamento ad una ridefinizione dei propri strumenti, ma non dei propri valori, analizzando gli spunti e gli elementi di riflessione ben delineati nel documento degli studi atlantici curato da Fabrizio W. Luciolli su “Il futuro della Nato e il ruolo dell’Italia“, in cui sono evidenziati i nodi e i temi fondamentali per comprendere veramente quello che emergerà in questi giorni di vertice internazionale, e comprendere al meglio la missione assiologica di una nuova Nato più europea e politica capace di affrontare le sfide del futuro.

Polini: “Dalla Repubblica Romana alla lotta contro i totalitarismi”

Polini: “Dalla Repubblica Romana alla lotta contro i totalitarismi

Di Francesco Subiaco

Oggi 25 Aprile in occasione delle celebrazioni del 78° anniversario della sconfitta del nazifascismo, i repubblicani romani hanno organizzato una manifestazione politica e culturale per commemorare la Resistenza e ribadire i valori che ne hanno incarnato l’azione attraverso un evento intitolato “Dalla Repubblica Romana alla lotta contro ogni fascismo”. La manifestazione si svolgerà alle 11 alle ore 13 sulla terrazza del Gianicolo alla statua di Giuseppe Garibaldi, dove gli esponenti dell’unione romana ribadiranno e celebreranno i valori liberaldemocratici che hanno mosso l’azione del Pri e delle forze laiche durante la Resistenza, alla luce della tradizione mazziniana e delle sfide del presente. Durante l’evento interverranno Saverio Collura della direzione nazionale del Pri, Riccardo Bruno direttore politico de La Voce Repubblicana, Pino Pelloni della Fondazione Levi Pelloni, Simone Ascoli, Carlo Camangi e Michele Polini segretario dell’Unione comunale del Pri di Roma.

“Il 25 aprile, è una festa che rappresenta non solo la liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista, ma che in verità incarna soprattutto la celebrazione della libertà, dell’anelito dei popoli ad essere padroni del proprio destino contro le oppressioni dei totalitarismi e le discriminazioni dei fanatismi ideologici”. Ha così commentato preliminarmente il segretario dell’Unione Romana Michele Polini, prima dell’avvio della manifestazione, rinnovando l’importanza di questa celebrazione poiché “oggi è più importante che mai rinnovare la memoria del 25 Aprile, perché è fondamentale in questo scenario di conflitto e di tensioni internazionali rinnovare i valori della libertà dell’individuo e dei popoli contro nuovi tentativi aggressivi e dispotici”. Ribadendo di fronte alle rievocazioni della storia del Partito Repubblicano, dalla Repubblica Romana fino alle controversie internazionali recenti prodotte dalle sfide delle autocrazie, l’importanza della “libertà, connessa indissolubilmente con la democrazia e con l’autodeterminazione dei popoli come valore fondante della nascita della nostra Repubblica e dei valori sia del nostro Partito che della Costituzione”. Sottolineando sulla scia di commenti autorevoli che il 25 aprile è “una festa di tutti e che appartiene a tutte le grandi forze politiche del Paese che trovano nei valori liberaldemocratici il fondamento di un dialogo comune che vede nella visione suprema della difesa della dignità e libertà dell’uomo un suo fondamento”.

IL CRISTO PROIBITO DI NIKOS KAZANTZAKIS

IL CRISTO PROIBITO DI NIKOS KAZANTZAKIS

Di Francesco Subiaco



“Questo è il Dovere supremo dell’uomo che lotta: incamminarsi verso l’alta vetta raggiunta da Cristo , il primogenito della salvezza. Come possiamo cominciare?
Se vogliamo seguirlo, dobbiamo conoscere a fondo il suo conflitto, dobbiamo rivivere le sue angosce: la sua vittoria sulle insidie fiorite della terra, il suo sacrificio per le grandi e piccole gioie degli uomini e la sua ascesa di sacrificio in sacrificio, di battaglia in battaglia, di elevazione in elevazione fino, al culmine del martirio, la Croce.
(Nikos Kazantzakis, L’ultima tentazione)

Perseguitato dal suo destino, abbandonato in una terra arsa dalla fame e dalla rivolta, in una notte infuocata e insopportabile tra i deserti della Palestina, il Cristo è vittima di un incubo. Sogna gli apostoli che vengono a richiamarlo per compiere la sua missione, sogna il destino di sacrificio e di redenzione che il suo padre celeste ha scritto per lui, sogna la sua fine fatta di abbandoni e di martirio e questo sogno gli appare come un incubo e una persecuzione. Infatti, dopo una notte inquieta ed agitata si sveglia e torna alla sua vita di piccolo falegname di una provincia ribelle del più grande impero del mondo antico. È ancora troppo presto e quel destino che sente più che come una vocazione, come una maledizione gli sembra ancora lontano e nel silenzio della sua bottega pensa ancora di sfuggirgli. Ma tutti i giorni che precedono la sua chiamata, non sono altro che delle prove tecniche di resurrezione, dei rituali preparatori del suo destino, sfuggirgli è solo un’illusione, tutto si compirà. Cristo non è un falegname come gli altri un giovane qualunque che vive nascostamente tra gli uomini, ma anzi è odiato dal suo popolo, è visto come un traditore, un crumiro della causa di Israele perché è un crocifissore. Un uomo che prepara e porta le croci sui tanti calvari della Palestina per consegnare ai ribelli di Israele gli assi dell’esecuzione dei romani che con quelle croci, le stesse che un giorno lo circonderanno sul Golgota, estirperanno le speranze e le vite dei tanti Messia pronti a sacrificarsi per la libertà di Gerusalemme. Proprio in una di quelle esecuzioni mentre porta la croce per un Maccabeo, il Cristo scorge il suo destino, quel giorno non è una simulazione del suo destino, ma una sua anticipazione, già quel giorno la sua passione inizia e lo accompagnerà fino alla sua fine. Si apre con questa narrazione il primo magistrale capitolo de “L’ultima tentazione” di Nikos Kazantzakis (Crocetti). Un romanzo straordinario con cui Kazantzakis non vuole solo scrivere una rivisitazione in chiave umanistica dei fatti e dei detti del vangelo, ma con essi realizza un vero e proprio apocrifo moderno, l’ultimo, il più straordinario. Un apocrifo che non mostra un Cristo gnostico o orientale e mistico, bensì un Cristo umano, ma non blasfemo, terreno ma non materiale. Non è né un rivoluzionario né una super star è un uomo che soffre, che piange, che sanguina e che esita. Seppur ha fede trema, seppur divino è vulnerabile ai dolori e alle piaghe della vita.

L’opera segue le vicende del profeta nei suoi ultimi anni di vita, dal pellegrinaggio nel deserto alla crocifissione, dall’abbandono della casa natia alle ultime tentazioni che lo accompagneranno sulla croce. Non è però un Cristo esclusivamente terrestre, umano e carnale quello descritto da Kazantzakis. La sua storia è densa di miracoli, il suo destino è impregnato delle sorti dell’assoluto, delle estasi del soprannaturale. Materia e spirito, terrestre e numinoso, sangue ed anima si intrecciano nelle pagine di Kazantzakis che sia grondano del sangue dei rivoltosi e della corona di spine del Rex iudeorum, sia sono inebriate dall’incenso dei templi e dei luoghi sacri che resistono tra i deserti del mondo antico, creando l’immagine di una passione caravaggesca in cui i corpi nodosi, mortali e infestati di dubbi e piaghe dei suoi personaggi si contaminano di grazia, di mistero, di salvezza. La vicenda de “L’ultima tentazione” accompagna il lettore in una cronaca sinottica, ma apocrifa di quella evangelica fino ad arrivare all’attimo della crocifissione, al momento in cui proferendo quel celebre “Eli Eli lama sabactani”(Dio Dio perché mi hai abbandonato) si abbandona al suo irrimediabile destino, immolandosi per l’umanità intera dimostrando che nessuna rivoluzione materiale è sensata senza resurrezione spirituale. In quel momento però il Cristo viene colto da una folgorazione, il suo padre celeste ha mandato un emissario a salvarlo, il suo sacrificio non sarà consumato, il suo destino sarà libero da questa maledizione, la sua missione è stata compiuta ed ora, salvato da un angelo, può scegliere di tornare ad una vita semplice seguendo insieme alla Maddalena una esistenza familiare e casalinga. Un sogno da cui però viene risvegliato grazie al pensiero dei suoi apostoli e alla consapevolezza del suo compito. Ha esitato, ha tremato di fronte all’ultima tentazione del peccato, ma il suo turbamento non è una prova della sua sconfitta bensì un sintomo della sua lotta. Una lotta che anche di fronte alle tentazioni sulla croce del maligno può essere affrontata, può essere vinta. In questa senso tutta la storia del Cristo può essere letta come quella di un modello supremo di ogni uomo che lotta, della lotta eroica che ogni uomo conduce e che non solo può essere vinta, ma già lo è stata. Il Cristo di Kazantzakis infatti non è un santino o uno sfondo aureo di una bella e distaccata agiografia, ma è un mito, un modello, un esempio. Un martire dell’umanità che sceglie la via della redenzione, della salvezza, della lotta consegnandosi al mondo e ai suoi tormenti non con serafica compostezza, ma con i dubbi, con le passioni e le paure di un uomo, con la disperazione di un uomo mortale e con il disincanto e la rabbia di un Dio che osserva un destino che sfugge al suo controllo, mostrando non solo quanto è difficile essere un Dio, ma soprattutto quanto è difficile essere un uomo. Un Cristo proibito che è costato al suo autore l’esilio morale e proscrizione, l’odio delle gerarchie ecclesiastiche e l’oblio della cultura accademica, ma che a distanza di secoli può riscattarlo, può mostrargli che anche la sua battaglia è stata vinta. Nell’opera infatti si sentono gli echi della sua Ascetica e le tensioni della sua Odissea e dietro alla maschera di questo Cristo proibito ed apocrifo si cela quella di Nietzsche, di Zorba, di Odisseo e del suo autore, di una filosofia della lotta e di una teologia eretica imperdonabile e numinosa, sacra e popolare, carnale e soprannaturale il cui contenuto non è solo amplificato dallo stile di Kazantzakis, ma è ad esso intrinseco. Uno stile carnale e puro, pasoliniano e caravaggesco, classico e moderno in cui le parole sembrano risvegliarsi dal silenzio della scrittura ed iniziano a risvegliarsi, a risorgere, a sanguinare ancora come carne viva, come verità e realtà profonda dell’uomo e non come mere descrizione del suo travaglio. Una cronaca trecentesca, tra i martirii di Caravaggio e la durezza del “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini, tra l’incenso della mistica cristiana e il sangue del sacrificio del popolo greco durante l’ottocento, gli abissi di Dostoevskij e le illuminazioni dello Zarathustra. Un romanzo straordinario e struggente scritto dal più imperdonabile degli scrittori greci per raccontare la passione di Cristo in tutta la sua celestiale umanità.