Claudio Magris, dialogo con un Grande Laico

Claudio Magris, dialogo con un Grande Laico

Di Francesco Subiaco e Francesco Latilla



Claudio Magris, tra i nostri maggiori narratori e studiosi, è uno degli ultimi grandi maestri della letteratura. Scrittore, saggista, accademico e intellettuale, Magris ha saputo condensare nelle sue opere narrative i motivi principali della migliore letteratura mitteleuropea dandogli una connotazione epica e civile, personale e meravigliosa. Autore di romanzi tra i più significativi degli ultimi 50 anni, come “Danubio” e “Alla cieca”, ha saputo racchiudere nella sua opera i numi e i simboli di una tradizione letteraria che si è fatta eco di ogni frontiera e canto di un eterno ammutinamento nei confronti di un destino immutabile e convenzionale. Come studioso ha creato nella sua Trieste uno dei maggiori poli di germanistica del nostro Paese componendo un personalissimo alfabeto letterario che ha saputo costruire la bussola unica per orientarsi tra le pieghe delle pagine e dei segreti dei grandi maestri della letteratura. Da Musil a Roth, da Borges a Vigny, indagando in maniera definitiva il mito absburgico e le sue immobili e fantastiche atmosfere. Ma è fondamentale ricordare un altro aspetto dell’itinerario di Claudio Magris: quello dell’intellettuale civile. Editorialista storico del Corriere e autore di opere saggistica cruciali, come “La storia non è finita”, Magris rimane uno degli ultimi testimoni di quella grande cultura laica che ha difeso le ragioni di un umanesimo democratico e risorgimentale di fronte alle barbarie dei totalitarismi e alle spinte disumane del nostro tempo. Un testimone di una Italia di minoranza, alta e severa nel suo mandato morale, colta e popolare nelle sue responsabilità civili. Questi sono solo alcuni degli aspetti di un autore straordinario capace di affrontare la vita e i suoi grandi enigmi rivelandone la complessità senza dissolverla sia con la lente dello studioso e dell’intellettuale che con la profondità e la sensibilità che compete solo ai grandi scrittori.


Walter Siti una volta ha scritto: “E penso che in fondo, anche se ne scriviamo molti, i nostri romanzi si possono riassumere in uno solo: quello che ci contiene a nostro dispetto, l’opera da cui non possiamo scappare”. Quale è l’opera (o le opere) da cui non riesce a scappare Claudio Magris?


Una domanda molto difficile. Vi posso dire però che esiterei tra tre: “Danubio”, “Microcosmi” e “Alla cieca”.


Perché come terzo ha scelto proprio “Alla cieca”?
In quanto credo che la terribile storia di “Alla cieca”, che racconta la vita di personaggi che sono colpiti dalle più orrende tempeste della Storia, rispetto ai miei altri romanzi abbia la costruzione più compiuta ed incalzante, sia nelle vicende personali che in quelle collettive che vi compaiono. Però devo dirvi che non amo parlare dei miei libri, preferisco parlare dei libri degli altri, o che dei miei libri ne parlino altri…


-“Il mito rivela la verità solo quando lo si guarda con spirito illuminista”. Quali sono i miti d’oggi più imperanti e che meriterebbero un maggiore sguardo critico ed illuminista?


Credo soprattutto quelli che riguardano questa sorta di “discoteca universale permanente” in cui siamo immersi. Il circo delle interconnessioni e del continuo frastuono che è tipico di questi anni, in cui tutti vogliono apparire e comunicare. Un clima che purtroppo rischia di inflazionare il confronto, la riflessione, i veri rapporti interpersonali dietro questa permanente frenesia.


Nella prefazione del ‘96 del suo Il mito absburgico dice che esso è diventato un po’ il romanzo della vita del suo autore, della geografia spirituale e intellettuale. Può spiegarsi meglio e cosa di quel testo ha condizionato e prefigurato la sua vita e sensibilità intellettuale?


È stato un libro fondamentale, oltre che il mio primo libro, che nacque originariamente come la mia tesi di laurea. Quando chiesi al mio professore di realizzare questa tesi, infatti, non sapevo bene cosa volevo raccontare o descrivere, ma avevo in mente una atmosfera che volevo rappresentare. Nel suo piccolo, Il mito asburgico è divenuto un po’ il romanzo della vita del suo autore, la mappa della sua geografia spirituale e intellettuale, il disegno e la trama dei sentieri ch’egli continua a percorrere e che si biforcano in sempre nuove piste, nello spazio, reale e immaginario, della Mitteleuropa, ma forse più oltre ancora. La storia del mito asburgico è la storia di una cultura che vive con particolare intensità, nelle sue forme peculiari, la crisi e la trasformazione epocale di tutta un’area non certo soltanto austriaca; è la storia di una civiltà che, in nome del suo amore per l’ordine, scopre il disordine del mondo. Il mito asburgico è soprattutto la storia di quell’amore per l’ordine, e si affaccia appena, forse con troppa discrezione, sul ciglio di quella scoperta del disordine che scopre il musiliano Comitato per l’azione parallela nelle pagine dell’Uomo senza qualità. Quando lavoravo al libro inseguivo qualcosa che andava precisandosi e prendendo forma soltanto nel corso della mia ricerca, tanto che, all’inizio, non ero riuscito a spiegare bene al mio maestro Leonello Vincenti quale fosse veramente l’oggetto della mia tesi di laurea, vale a dire quel libro. Cercavo di cogliere un mito, ossia i modi e le forme con le quali una civiltà si sforza di ridurre la pluralità del reale a un’unità, il caos del mondo a un ordine, la frammentaria accidentalità dell’esistenza a un’essenza, le contraddizioni storico-politiche a un’armonia capace di comporle se non di risolverle. Mi proponevo soprattutto di descrivere la morfologia ma anche di seguire la storia di questo mito, la sua genesi, il suo sviluppo, le sue motivazioni e funzioni politiche, il rapporto che la sua formulazione poetica e la sua sovrastruttura ideologica intrattengono, di volta in volta, con la realtà sociale. Si trattava di ripercorrere la storia della civiltà asburgica, ma anche di estrarre dal suo contesto storico un nucleo essenziale, un “mito” che ne mettesse in evidenza la funzione intellettuale e conoscitiva, la capacità di far risaltare, con una chiarezza da laboratorio, quello che Musil definiva un «esperimento del mondo». Quando mi sono accostato a quel mondo, a differenza del 1996 quando scrissi la prefazione che voi mi avete citato, non se ne parlava quasi mai. Sembrava dimenticato, tramontato. La storia fa talora questi scherzi; qualcosa che pareva superato e defunto, improvvisamente riappare con una carica di rinnovata attualità, mentre ciò che pareva attuale e proteso all’avvenire si rivela invecchiato. Alla sua origine il libro e la sua scrittura rispondevano, sul piano personale, alla mia necessità di fare i conti – saggisticamente, ossia per via obliqua, metaforica – con Trieste, con la mia storia, con la mia tradizione e col suo significato culturale ed esistenziale. Lasciata Trieste per andare a studiare a Torino, avevo la sensazione di dovermi appropriare intellettualmente e fantasticamente del mio mondo, del suo retroterra, ossia di un mio passato prenatale. Per capire Trieste dovevo confrontarmi con ciò che le stava dietro e quindi anche con quel mondo asburgico cui essa aveva appartenuto e che era diventato parte essenziale della sua realtà, ecco perché quel libro è indirettamente anche un saggio autobiografico trasposto e oggettivato nell’analisi e nella rievocazione di un mondo storico. Il saggio del resto è per definizione un genere letterario obliquo, che parla di una cosa per parlare anche – talora soprattutto – di un’altra e il cui tema non si riduce mai al suo oggetto esplicito. Anche se penso di aver scritto il vero finale del “Mito absburgico”, oltre che in “Lontano da dove”, soprattutto in due libri: sul piano saggistico, ne “L’Anello di Clarisse” (1984), un volume dedicato alla problematica del nichilismo e del grande stile, imperniato sulla letteratura europea e specialmente austriaca tra la fin de siècle e la stagione contemporanea; sul piano narrativo, in “Danubio”. Qust’ultimo, dei tre romanzi che vi ho citato prima, è forse quello che più mi contiene e mi riassume. Per questo Il mito può essere considerato forse un saggistico romanzo della mia esistenza.


Lei da molti è considerato uno dei maggiori rappresentanti di quella tradizione laica, azionista, repubblicana. Quella dei La Malfa, dei Bovio, dei Rossi. Cosa crede rimanga di quel filone della nostra cultura e quanto può essere attuale?


Ritengo che questa cultura laica rappresenti una stagione straordinaria della storia culturale italiana che fu fondamentale nella mia formazione. Una stagione, che vissi in prima persona grazie alla militanza repubblicana di mio padre, e che fu molto importante per la storia del nostro Paese e che è ancora di grande attualità. Di questi personaggi, molto diversi tra loro, rimangono oggi alcuni insegnamenti che ritengo siano fondamentali per il futuro come la laicità (non intesa come laicismo), il pluralismo, la tolleranza.


Essendo un grande scrittore umanista, di fronte alla instaurazione di una civiltà delle macchine, dei codici e delle connessioni quanto ritiene siano importanti i valori umanistici in questa fase?
Non sono, a mio avviso, le macchine a minacciare i valori umanistici, ma gli uomini. Quando gli esseri umani trasformano le macchine in un valore in sé, sono loro i primi a minare queste concezioni. Ma di questa degradazione non è responsabile la tecnica…


-È stato da poco ripubblicato per Garzanti il suo “La storia non è finita”, in cui racchiude alcuni tra i più significativi articoli che hanno accompagnato la cosiddetta “Fine della storia”. A distanza di quasi vent’anni cosa resta di quel mondo e quale abbiamo davanti a noi?


Di quel libro, che negava dal punto di vista culturale, politico ed intellettuale, questa concezione della end of history, rimangono, a mio avviso, soprattutto le esigenze di fondo che lo animavano. In quegli articoli e saggi brevi cercavo di difendere un certo “ethos”, uno spirito e uno stile. Tutti elementi che si fondano sulla speranza. Un fondamento cruciale per una vera etica e prospettiva umanistica. La speranza è, infatti, più grande della fede e della carità, in quanto si fonda sulla ricerca di un domani sempre migliore e più giusto. Un fondamento politico e etico che andre


E lei, invece, ha ancora dei sogni o delle speranze…


È difficile dire questo. Il futuro indeterminato certamente mi appare molto preoccupante. Naturalmente cerco di non abbandonarmi al pessimismo, ma sicuramente non credo che l’orizzonte sia roseo…


In “La storia non è finita” ha molta importanza la dimensione della “Laicità”. Oggi secondo lei, tra le spinte più aggressive del mondo laicista e la nascita di nuovi fanatismi religiosi e alle loro conseguenze politiche come le proteste delle banlieue e le nuove ventate di ortodossia, qual è il ruolo e il significato della laicità?


Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l’opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato. La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l’attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura— anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo. Una visione religiosa può muovere l’animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l’articolo del codice penale che punisce l’omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l’autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall’idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, ma in entrambi i casi è la negazione del principio di laicità.


Oggi secondo lei assistiamo ad una nuova letteratura timorata che non sa confrontarsi col male, con l’amorale, con l’eccezione?


Senza generalizzare o tracciare sintesi epocali, penso che in parte ci troviamo ancora di fronte a questa tendenza. C’è troppa bonomia e troppo timore nell’affrontare le vere questioni dell’esistenza, dimenticandoci purtroppo che la vita è una cosa seria. Ciò non vuol dire propagandare il male, né svilire la grandezza dell’umorismo (la cui importanza ci è stata ribadita dai grandi maestri del Novecento), ma affrontare la vita in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue declinazioni, confrontandosi anche con il male che è presente nella vita. Per affrontare realmente la rete di malvagità che ci invischia e che ognuno di noi fila come un velenoso baco da seta, non bastano né la declamazione di buoni sentimenti né le apoteosi della trasgressione. Credo che solo una letteratura capace di confrontarsi senza compiacimenti e senza riguardi con l’immane potenziale del negativo insito nella vita e nella storia può esprimere l’ardua bontà; sono “Les liaisons dangereuses” e non i romanzi sentimentali a narrare l’intensità, lo smarrimento e anche la tenerezza dell’amore. Le parole “bontà” e “buono” non stonano in bocca a Dostoevskij, proprio perché egli si è immerso senza remore nel fango che scorre nelle nostre vene, come un messia che risorge ma prima muore e scende davvero all’inferno, tanto per fare due esempi. Ogni vero libro si misura con la demonicità della vita. In questa capacità di scrutare verità anche intollerabili c’è una bontà più grande di ogni conciliante bonomia, la disponibilità a scendere sino in fondo, con impavida e sconsolata pietà, nel nostro buio.

Sta scrivendo un nuovo romanzo?


No in questo momento sto scrivendo solo dei vaghi appunti. Sapete i miei libri sono nati sempre con una loro determinata fisionomia che si è manifestata quando le esperienze della vita e delle cose del mondo si sono intrecciate con le mie vicende personali, trovando un punto d’incontro e un’immagine che li avviasse o li delineasse. Mentre scrivevo “Alla cieca”, ad esempio, non riuscivo ad andare avanti perché il “cosa” che volevo raccontare, non coincideva con il “come”. Ciò che raccontavo non riusciva a coincidere con l’unico stile possibile per esso. Un giorno, mentre ero in Belgio, visitai un museo delle polene e rimasi così impressionato da quella visita che riuscii a completare “Alla cieca”.


Cosa la impressionò?


Lo sguardo delle polene. Le polene, quegli ornamenti femminili messi sulla prua dei galeoni, quasi ad anticipare e a difendere la nave dagli schiaffi delle onde e delle tempeste, mi colpirono con i loro occhi dilatati quasi da veggenti, capaci di scorgere naufragi e scherzi del destino prima degli altri. Lo scontro dell’uomo col mare, col destino, con le forze eterne e ribelli dell’esistenza in quel museo fiammingo mi apparve più chiaro, netto, definito.


«Il mare è la vita, la pretesa tracotante di vivere, di espandersi, di conquistare – dunque è la morte, la scorreria che depreda e distrugge, il naufragio.»…

Esattamente. Dopo quella visita il blocco che mi aveva impedito di scrivere “Alla cieca” scomparve. Ora non ho in mente, invece, nessun romanzo, solo alcuni appunti.

“Polene. Occhi del mare” di Claudio Magris (La Nave di Teseo)

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