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MAGNANI: “CAVALCARE L’ONDA DEL CAMBIAMENTO È L’UNICO MODO PER NON ESSERNE TRAVOLTI”

MAGNANI: “CAVALCARE L’ONDA DEL CAMBIAMENTO È L’UNICO MODO PER NON ESSERNE TRAVOLTI”

Di Francesco Subiaco

Dai conflitti internazionali all’avvento del digitale, dall’obsolescenza professionale portata dall’AI alla costruzione di estese catene globali del valore. In ogni sua manifestazione il cambiamento ha ridefinito le regole, le convinzioni e le sovrastrutture della contemporaneità in maniera radicale e ravvicinata. Un cambiamento che si è caratterizzato come dirompente e continuo che ha ridefinito in maniera radicale e permanente il tessuto economico e il contesto sociale, come mai è stato possibile nel passato. Di fronte al cambiamento continuo, tsunami minaccioso e pronto a travolgerci, subirne senza reazione gli effetti equivale ad esserne travolti. È necessario quindi conoscerne le caratteristiche ed imparare ad affrontarne le possibilità ed opportunità al fine di cavalcare “l’onda perfetta”, seguendo come bussola due concetti: “learn” and “adapt”, imparare ed adattarsi. Una tesi che è alla base dell’ultimo libro del Professor Marco Magnani, “L’Onda Perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti” (IlSole24Ore Editore, 2022) con cui l’autore indaga le metamorfosi del presente con uno sguardo attento su come trasformare le sfide del presente di opportunità per l’avvenire.

Un libro che come il precedente “Fatti non foste a viver come robot. Crescita, lavoro, sostenibilità: sopravvivere alla rivoluzione tecnologica (e alla pandemia)”(Utet, 2020) indaga le contraddizioni, i cambiamenti, le mutazioni che caratterizzano l’innominabile attuale sia sul piano economico sia sul piano etico e culturale. Dalla robotica all’emergenza, dalle sfide della transizione digitale alle necessità di un ripensamento delle regole del welfare capaci di tenere il passo con i cambiamenti dell’infosfera. Opere che non vogliono solo descrivere le sfide del futuro, ma rivelarne i meccanismi profondi che ne causeranno il destino. Per approfondire queste tematiche abbiamo intervistato il Professor Magnani, economista e docente di International Economics presso Luiss Guido Carli a Roma e presso Università Cattolica a Milano, oltre che Senior Research Fellow presso Harvard Kennedy School.

L’Onda Perfetta
Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti
IlSole24Ore Editore, 2022



Come nasce “L’ onda perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti”?
Il mio libro nasce dalla constatazione che oggi viviamo in un’epoca che ha un livello ed una rapidità di cambiamenti che non ha precedenti nel corso della storia. Un cambiamento continuo che si compone di mutamenti di diversa tipologia, ma che si presentano soprattutto come “cambiamenti dirompenti“, nell’accezione che a questo termine diede il grande economista Joseph Schumpeter. Una tipologia di stravolgimenti che dal punto di vista economico, sociale ed individuale con la loro manifestazione obbligano a ripensare completamente il modo di produrre, consumare, lavorare. Se pensiamo, infatti, agli ultimi anni, e guardiamo lo scenario economico e geopolitico, si sono susseguiti rapidamente, in un lasso di tempo molto breve, una sequenza di “disruptive changes”. Dall’11 settembre alla crisi finanziaria negli USA del 2008, passando per quella del debito sovrano in Europa del 2015, a cui si sono aggiunti poi la pandemia e la guerra in Ucraina, il cambiamento ha ridefinito il mondo degli ultimi anni in una maniera che mai era stata pensata prima. Nell’epoca caratterizzata da una delle maggiori intensità di cambiamento nel corso della storia, imparare a gestirlo è una questione di sopravvivenza. Cavalcare l’onda è l’unico modo per non esserne travolti.

Quanto la necessità di adattamento ai cambiamenti tecnici ha modificato il modo di concepire le imprese e il loro ruolo nel contesto sociale?
Naturalmente l’innovazione tecnologica da sempre cambia e ridefinisce il business model, il rapporto con i dipendenti, con i clienti e con il mercato conformandosi come una delle principali variabili del cambiamento. Di fronte all’innovazione tecnologica i business model subiscono radicali cambiamenti, come abbiamo visto per esempio con l’economia digitale. L’innovazione tecnologica produce sia delle criticità, sia delle nuove opportunità. Generalmente aumentano la produttività, trasformano i luoghi di lavoro, modificano la sensibilità dei consumatori così come il ruolo dell’impresa nel contesto sociale. Una mutazione che investe tutta la supply chain, dalla produzione al marketing, causando cambiamenti profondi in tutto il sistema economico.


Come la retorica del cambiamento è diventata uno strumento ideologico propagandistico e che conseguenze ha avuto nella politica moderna?
I politici sono maestri nell’utilizzare la retorica e il mito del cambiamento come strumento di propaganda politico, a volte per fare paura e per poi rassicurare guadagnando consenso elettorale, oppure per dare speranza e guidare lo sviluppo, riuscendo ad aggregare le forze sociali ottenendo legittimazione da parte della società. “Cambiamento” è una parola che il mondo politico padroneggia con grande abilità, ma non sempre ne sa controllare le potenzialità, infatti gli stessi politici non sempre sono bravi a gestire il cambiamento ed a volte ne sono travolti.

Le due crisi della pandemia e della guerra in Ucraina hanno ridefinito i confini della “catena globale del valore”?
Abbiamo capito che le catene globali del valore sono profondamente fragili e che quindi la stessa globalizzazione è vulnerabile. Dopo 30 anni di continua espansione, con tantissimi benefici, la globalizzazione ha mostrato limiti profondi e pericolose distorsioni. Le catene globali del valore si sono rivelate spesso troppo lunghe, vulnerabili e lontane dai mercati di sbocco. A fronte di shock esterni quali la pandemie e la guerra, hanno mostrato la loro intrinseca fragilità. Ora la tendenza è quella di accorciarle. La Apple, ad esempio, per produrre un iPad realizza componenti in più di 40 paesi diversi, al fine di massimizzare l’efficienza. Nel mondo globalizzato in cui non ci sono barriere tariffarie, problemi internazionali, guerre e pandemie, si può attingere a fornitori di paesi diversi e lontani e massimizzare l’efficienza, minimizzando i costi e ampliando i margini di profitto delle imprese coinvolte in tali cicli produttivi. Ma nel momento in cui sorgono delle emergenze (una pandemia, una guerra o una catastrofe naturale), questa catena così lunga ed efficiente va in frantumi. Ci siamo concentrati in questi anni a massimizzare l’efficienza rinunciando alla resilienza, ovvero alla capacità di reagire con successo agli shock esterni. Adesso il trend è esattamente l’opposto, si accorciano le catene del valore minimizzando l’efficienza al fine di valorizzare la resilienza.

Come possono le piccole e medie imprese affrontare i cambiamenti dirompenti senza esserne travolte?
Lo potranno fare se seguiranno queste due indicazioni di fondo, (che sono descritte anche nella quarta di copertina del mio libro): learn e adapt, imparare ed adattarsi.
Se le piccole e medie imprese punteranno su questo binomio non solo potranno sopravvivere ai cambiamenti prodotti dallo sviluppo tecnico, ma riusciranno, anche, ad avere un vantaggio competitivo rispetto alle grandi imprese dominanti nel mercato.
Infatti, la maggiore flessibilità, combinata con la minore complessità organizzativa e burocratica, permetterà alle piccole imprese di adattarsi meglio e più velocemente rispetto alle grandi strutture complesse e rigide delle grandi corporates. Le piccole e medie imprese se seguiranno il learn e adapt, riusciranno a governare il cambiamento e a non esserne travolte.

Lo sviluppo ipertrofico di “infomi”, come smartphone ad esempio, in che modo ha cambiato l’ossatura della nostra società?
Se analizziamo gli sviluppi del metaverso nei campi dell’intrattenimento e dei giochi possiamo dire che ci troviamo già in un mondo immersivo, cioè capace di fondere mondo virtuale e fisico. La cui applicazione produrrà un mutamento totale nei diversi ambiti economici. Ciò mi fa ripensare ad un libro di Vittorino Andreoli: “Il cervello in tasca”. Un testo dove si affronta il grande rischio che all’aumentare dei mezzi tecnici ci sia una tendenza a delegare le nostre capacità di approfondimento, calcolo e analisi ai mezzi tecnici impoverendoci drasticamente. Producendo il rischio di vivere in un mondo sdoppiato, tra reale e virtuale, che non ci metterebbe più nella condizione di riuscire a cogliere le differenze tra i due.

Perché mai oggi gestire il cambiamento è ancora più complesso?
Il cambiamento dirompente, c’è sempre stato nella storia dell’uomo. Oggi però ha tre caratteristiche differenti che ne causano la maggiore complessità rispetto al passato: è più frequente e ravvicinato a causa della moltiplicazione e combinazione delle sue conseguenze in tutti gli ambiti in cui esso si manifesta; il mondo di oggi è molto più interdipendente rispetto al passato, avendo come conseguenza che il cambiamento influenza tutte le parti in gioco; anche se non si è influenzati direttamente dal cambiamento, ne siamo comunque a conoscenza (pensiamo al disastro di Fukushima), e questo genera un senso di ansia diffuso. Per questo sia a livello politico che a livello manageriale oggi è molto più difficile governare e confrontarsi con il cambiamento.

Oggi il digitale e la specializzazione tecnica prefigurano l’alba di una nuova ridefinizione del concetto elaborato da John K. Galbraith di tecnostruttura?
Così come negli anni ‘50-‘60 i grandi gruppi industriali e commerciali avevano un grande potere, attraverso le lobby, i media di massa e il mercato con capacità di influenza e condizionamento pari a quelle degli stati, oggi il peso delle big tech è ancora più rilevante nella società globale rispetto al passato. Dalla AI alla robotica fino alle tecnologie di ultima generazione, (caratterizzate dal forte impiego di capitali), c’è un forte squilibrio nei processi produttivi tra il peso della forza lavoro e quello del capitale.

Lei per esempio in alcuni suoi saggi parla di una ristrutturazione della piramide del lavoro. Cosa intende?
Oggi la piramide del lavoro è caratterizzata da un forte divario tra l’oligarchia tecnologica, composta da pochi operatori altamente specializzati e remunerati all’apice della piramide, contro una base composta da “in-person servers” (servitori personali), cioè coloro che svolgono mestieri al servizio dell’oligarchia tecnologica (per esempio rider, giardinieri, camerieri, etc.). Tra questi due estremi esiste un gap molto profondo, causato dalle conseguenze sia della sostituzione tecnologica sia dalla crisi della classe media di fronte al cambiamento.

Fatti non foste a viver come robot
Crescita, lavoro, sostenibilità: sopravvivere alla rivoluzione tecnologica (e alla pandemia)
Utet, 2020


E invece riguardo al tema della tecnostruttura, ovvero di una classe burocratico organizzativa che rappresenta il vero centro della corporate, pensa sia ancora attuale?
Galbraith diceva che per le grandi aziende del sistema industriale il vero obiettivo non erano più i profitti bensì la sopravvivenza e l’espansione. Una riflessione che è più che mai valida rispetto alle big tech, in cui la logica priorità è quella dell’espansione e della maggiore diffusione.

-Siamo passati da una tecnostruttura industriale ad una tecnostruttura high tech?
Si perché da una parte c’è la necessità di avere sia grandi capacità organizzative e tecniche, caratterizzate da un maggiore primato tecnico dovuto ad una tecnostruttura di esperti, sia a grandi disponibilità di capitali e mezzi capaci di investire nell’innovazione.

Rispetto al testo di Galbraith in cui c’era un maggior peso della componente della forza lavoro, dai quadri agli operai, ora c’è invece un primato del capitale?
C’è uno sbilanciamento rispetto al capitale che è dovuto dall’orientamento all’innovazione di mezzi tecnici. L’automazione delle produzioni porta a premiare gli investimenti del capitale e a ridurre la parte di ricchezza prodotta che viene destinata al lavoro. Ma il lavoro è stato negli ultimi due secoli il maggiore strumento di redistribuzione della ricchezza prodotta.

Come si può sopperire a questa seconda emergenza?
Una proposta potrebbe essere il reddito universale, ma la storia ci insegna quanto sia dannoso ed inefficiente un tale provvedimento. Ciò non toglie che lo sviluppo di nuove tecnologie e di frontiere come l’e-commerce portano ad una “disintermediazione” del mercato, la cui conseguenza è la distruzione di categorie come commercianti, prestatori di servizi e impiegati a favore dei mercati digitali dove la componente lavorativa si concentra o sull’oligarchia tecnica o sui servitori personali. Un problema politico che non va sottovalutato. Facciamo un esempio. Un tempo una banca aveva molte figure, il cassiere, l’impiegato, il direttore di filiale che componevano la classe media. Oggi negli Usa, ad esempio, non esistono più grandi filiali in tutte le città, ma punti di distribuzione Atm, quindi mezzi tecnici, in cui ci sono degli operatori che non svolgono un ruolo da quadro o da intermediario, ma servono solo come punto di collegamento col servizio clienti e con i tecnici. Soggetti che in sostanza svolgono un lavoro non qualificato e con pagamenti molto bassi, da servitori personali appunto, il cui ruolo è relegato alla mera assistenza. Non esistono più i corpi intermedi come erano nel testo di Galbraith, ma solo la polarizzazione tra queste due classi sociali tra loro molto sbilanciate.

Nel suo libro “Fatti non foste a viver come robot” (Utet) propone in alternativa a modelli come il reddito di cittadinanza un sistema di “pre-distribuzione” in alternativa alla redistribuzione. Cosa intende?
La transizione digitale genera una ricchezza che investe e riguarda la collettività intera. Tale ricchezza, a mio avviso, non va però erogata come assegno o sussidio ma va pensata in un’ottica di “pre-distribuzione“. La proposta che esprimevo nel mio libro era, in estrema sintesi, l’istituzione di un fondo del 1% di tutte le società nel digitale, che dava delle quote ad ogni bambino nato un investimento di base dovuto ad una condivisione dell’allargamento “della torta” tramite dei fondi di investimento sull’istruzione in vista di una formazione maggiore. L’ipotesi formulata nel mio libro è che per rispondere alle sfide della transizione digitale sia necessaria la combinazione di tre misure che mirano non a distribuire, bensì a pre-distribuire i mezzi necessari per generare ricchezza. Ognuna di queste tre misure è pensata per sostenere il cittadino in una diversa fase della sua vita: istruzione di base e gratuita (per la scuola), prestito universale (per formazione universitaria o professionale) e capitale di dotazione (per il periodo lavorativo e della pensione). Un’idea che propone un’evoluzione del welfare, da una definizione dei bisogni in cui diritti sociali standardizzati sono sostituiti da diritti ritagliati sui bisogni effettivi delle persone, capace di tenere il passo con la transizione tecnologica.

FLORIDI:”BISOGNA COSTRUIRE UNA NUOVA SOVRANITÀ DIGITALE”

FLORIDI: “BISOGNA COSTRUIRE UNA NUOVA SOVRANITÀ DIGITALE”

Di Francesco Subiaco

Reale e virtuale, materiale e immateriale, analogico e digitale non sono due opposti inconciliabili, bensì due poli che convergono tra loro. Per tale motivazione nella civiltà del codice l’uomo non è più l’abitante di un ordine terrestre, ma l’utente che vive in una realtà immersiva, in cui le informazioni e le logiche della realtà virtuale compenetrano e invadono quelle della vita analogica. Per tale motivazione non esiste più, nell’epoca dell’infosfera una distinzione tra vita online e vita offline, ma solo una sintesi, una sovrapposizione ed indicazione tra questi due apparenti opposti, che il Professor Luciano Floridi ha saputo magistralmente sintetizzare nel concetto di “onlife”. L’uomo utente delle “repubbliche digitali”, non è solo il cittadino, l’uomo, l’individuo, ma è soprattutto un organismo informativo che interagisce, si informa e si invera nella ragnatela artificiale degli scambi di dati dell’infosfera. In questo contesto il cittadino viene sostituito dal follower, il cliente dall’utente e in questo contesto l’uomo è assoggettato alle responsabilità e influenze di una infosfera non più governata dagli stati, ma da grandi aziende-stato. Come reagire di fronte alla necessità di un nuovo umanesimo digitale? Per parlare di questi temi abbiamo intervistato il Professor Luciano Floridi tra le voci più autorevoli della filosofia contemporanea, dal 2013 professore ordinario di Filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute della Oxford University, dove dal 2017 dirige il Digital Ethics Lab, e chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute, che nei suo ultimi “Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide” e “Pensare l’infosfera” scrive parole definitive sul tema del rapporto tra filosofia e digitale.


Professor Floridi come l’infosfera ha cambiato il mondo post industriale dal punto di vista economico, sociale e filosofico?
Le trasformazioni sono state tantissime ed hanno portato a cambiamenti in tutti gli ambiti sociali, dall’economia alla politica, dall’istruzione alla cultura. Soprattutto dal punto di vista economico-politico è avvenuta in questi anni una profonda trasformazione della gestione del potere rispetto al passato. Oggi siamo, infatti, abituati a pensare, a grandi corporate, come Google, Microsoft, Apple e Meta non più solo come a delle semplici aziende, ma come a degli stati il cui peso e la cui influenza scavalcano i confini delle imprese convenzionali. Hanno poteri decisionali e di influenza enormi, coinvolgono nei loro processi miliardi di cittadini ogni giorno e le loro decisioni hanno un impatto sulla geopolitica, sulla società e sull’economia che non ha precedenti rispetto al passato. L’infosfera, quindi, non è dominata da grandi stati, ma da grandi aziende che hanno delle responsabilità cruciali per il destino di tutti noi e che ci espongono (aldilà di una valutazione sulla loro gestione di tale responsabilità) a grandi rischi sociali, politici ed economici. Per tale motivazione si dovrebbero riappropriare di queste responsabilità i contesti sociopolitici al fine di orientare le sorti del cambiamento verso l’interesse comune. In questo scenario, infatti, le grandi corporate hanno un peso politico ed un potere decisionale che va oltre le competenze dei singoli stati e per tale motivazione dobbiamo recuperare un approccio sociopolitico per ripensare l’infosfera. Purtroppo veniamo da una “strada sbagliata”, in cui si è creduto nel primato dell’economia rispetto alla politica, e dell’economia aziendale rispetto alla politica economica. Il mercato dovrebbe creare la ricchezza, ma la politica dovrebbe vigilare su come essa viene creata. Invece siamo in un sistema economico in cui il peso del mondo aziendale è preponderante rispetto a quello sociopolitico. Dovremmo, quindi, costruire (non riappropriarci, perché non la abbiamo mai avuta) una nuova sovranità digitale che sia fondata su una visione sociopolitica e non economico-commerciale.

-Cosa intende con la definizione del concetto di “onlife” e come la comunicazione perpetua ha cambiato la vita sociale del cittadino globale?
Semplificando al massimo le trasformazioni ben più complesse che hanno riguardato l’infosfera, posso affermare che siamo passati da una cognizione del cittadino, principalmente novecentesca, che vede in esso chi vota e chi sceglie, un customer (cliente) in sostanza, ad una visione contemporanea che lo concepisce, invece, come un follower (un seguace) che non sceglie e non decide, ma segue ed utilizza quello che gli viene offerto, diventando non più un cliente, bensì un utente. In questa realtà immersiva che mischia analogico e digitale, online e offline, noi siamo sempre di più utenti che vivono in maniera ininterrotta la confusione con questi due mondi diventandone parte integrante della sfera virtuale e di quella reale. Per riassumere tale concetto utilizzo il termine “onlife”, che in esso esprime non solo questa condizione, ma anche il passaggio netto avvenuto nella nostra società da cittadino come cliente a cittadino come utente e follower, che non decide o sceglie più, ma segue la realtà in cui è immerso come un tifoso calcistico, in maniera passiva ed indipendentemente da ciò che accade tra le forze politiche e dalle forze economiche. Gli utenti, inoltre, hanno diritti diversi e molto più ristretti di quelli dei clienti che cedendo i loro dati personali e la loro capacità di scelta subiscono passivamente i servizi offerti senza avere su di essi voce in capitolo. Si tratta di una metamorfosi molto pericolosa poiché deresponsabilizza sia di chi sceglie, il consumatore, si di chi offre, il produttore. Tale logica andrebbe completamente riformata e rivista, e la consapevolezza di tale condizione sarebbe già un buon punto di partenza in questa direzione.

-Oggi gli stati sono subordinati o compenetrati dal potere delle corporate?
In alcuni contesti è difficile parlare di sovranità nazionale, di fronte allo strapotere delle grandi corporate. Però non dobbiamo cadere nell’errore inverso. L’alternativa allo stato vittima della predazione aziendale non è lo stato imprenditore o lo stato ipertrofico, bensì un ruolo dell’amministrazione statale che fa da arbitro, da controllore, da gestore attraverso una maggiore coscienza ed efficienza dei propri poteri. Lo stato dovrebbe investire sulle sue competenze per riuscire a separare quello che è il terreno pubblico da quello che è il terreno privato. Se questa ripartizione avvenisse avremmo una gestione efficiente e funzionale dei problemi del 21° secolo. Non bisogna ricadere in errori novecenteschi. Lo stato-azienda crea grandi disastri, le aziende-stato creano grandi disordini e grandi ingiustizie. Lo stato deve distribuire la ricchezza, il mercato deve costruirla, quando questa divisione non viene rispettata le conseguenze sono sempre spiacevoli.

Oggi nella civiltà del codice è necessario trovare una sintesi tra sviluppo tecnico e valori umanistici?
Penso di sì però solo se intendiamo tali valori in una ottica nuova, aggiornati ed adattati rispetto alle sfide del presente. Non bisogna guardare al passato o recuperare soluzioni e concetti già provati e affrontati. Bisogna costruire, adottare e pensare per la prima volta nuovi valori ed idee. Non abbiamo mai perso, ad esempio, la nostra sovranità digitale perché in realtà non la abbiamo mai avuta. I valori umanistici andrebbero rivisti, adattati e aggiornati nel XXI secolo e non trasposti dal loro contesto di origine nel nostro tempo. L’umanesimo ad esempio è privo della componente ambientalista, giustamente anche perché appartiene ad un altro periodo, incentrandosi su una visione esclusivamente antropocentrica. Una visione che è slegata da due temi fondamentali che, invece, di fronte alle sfide del presente dovrebbero essere integrati ad essa: l’ambiente e la comunità. Recuperare l’umanesimo non deve essere un passo indietro, ma un passo avanti. Bisogna aggiornare l’umanesimo rispetto alla tematica ambientale e quella sociale perché sennò si rischia di cadere negli stessi errori del passato.

-Quali sono i riferimenti culturali di Luciano Floridi?
Per la filosofia direi Platone, Cartesio, Kant. In economia John M. Keynes, perché riuscì a rivedere il mondo in una ottica controintuitiva portando l’economia dalla sua fase newtoniana a quella einsteniana. In ambito politico forse direi Tony Blair, con cui non sono d’accordo su alcuni temi, ma penso che prima di alcuni grandi errori ha avuto delle intuizioni geniali che in politica hanno fatto la differenza. Come scrittori invece Tomasi di Lampedusa e Manzoni perché leggere i loro libri vuol dire capire l’Italia per sempre.

KEEN: “GALBRAITH HA PORTATO LA REALTÀ NELL’ECONOMIA E PER QUESTO È STATO DIMENTICATO”

KEEN: “GALBRAITH HA PORTATO LA REALTÀ NELL’ECONOMIA E PER QUESTO È STATO DIMENTICATO

Di Francesco Subiaco

Steven Keen è il Lutero dell’economia contemporanea. Un intellettuale ed uno studioso libero che di fronte alle frodi e alle mistificazioni di una visione economica irreale e dogmatica ha il coraggio di essere eretico, rivoluzionario, ribelle non seguendo la Chiesa neoclassica né le sette della “saggezza convenzionale”. Keen seguendo l’esempio di Schumpeter, Keynes e Minsky invece all’idea vuole contrapporre la realtà, alla finzione l’analisi, utilizzando il suo spirito critico per smascherare le finzioni del panorama economico. Lo ha fatto con “Debunking economics” del 2001 e lo ha fatto recentemente col suo ultimo visionario libro “The New economics: a Manifesto”. Un manifesto unico, integrale di una alternativa alla dogmatica visione neoclassica che vuole decodificare le complessità del reale e riformare la scienza economica per permettergli di andare oltre gli schematismi del passato. Per comprendere meglio le idee di Keen lo abbiamo intervistato per confrontare le sue idee con quelle del pensatore John Kenneth Galbraith e per cercare di comprendere i cambiamenti del mondo del Nuovo stato digitale.


Quanto è attuale la visione dell’economia e del sistema economico americano proposta da John K. Galbraith nel suo “The new industrial state”?
Rileggere “The New Industrial State” (Galbraith e Galbraith 1967), sei decenni dopo la sua prima pubblicazione, ha evidenziato per me quanto la teoria economica si sia allontanata dalla realtà a partire dagli anni ’60.
Il Nuovo Stato Industriale (di seguito denominato TNIS) descriveva la struttura attuale di una moderna economia industriale. Non ha nulla a che fare con la visione di Alfred Marshall di un’economia di mercato, in cui una moltitudine di piccole imprese imprenditoriali vendevano beni omogenei direttamente ai consumatori in mercati anonimi e in cui i prezzi erano fissati dall’intersezione di domanda e offerta. Al contrario, l’economia è dominata da grandi società, a loro volta gestite da una “tecnostruttura” burocratica – il termine inventato da Galbraith – che tenta di gestire tutta la filiera produttiva, dai costi di input alla domanda finale dei consumatori (che manipolano tramite il marketing e i media). I prezzi sono addomesticati da contratti a lungo termine e l’unica fonte di instabilità dei prezzi proviene da un lato dalle richieste salariali e dall’altro dai capricci della produzione agricola ed energetica.
Questa era la realtà della metà degli anni ’60 commentata da Galbraith. All’epoca in cui scriveva, Galbraith era fiducioso che questa realtà avrebbe soppiantato la fantasia marshalliana delle curve di domanda e offerta, che dominava la teoria economica.
L’ottimismo di Galbraith riguardo alla sua professione di economista era mal riposto: di fronte a un conflitto tra realtà e teoria, la teoria economica tradizionale venne elevata rispetto ai fatti scomodi del mondo reale. I principali cambiamenti del mondo reale dai tempi di Galbraith sono stati lo schiacciamento dei sindacati, che ha in gran parte eliminato la capacità dei lavoratori di contrattare per gli aumenti salariali, lo sviluppo della globalizzazione, che ha creato catene di approvvigionamento lunghe ed estremamente fragili, con gran parte della produzione in corso offshore piuttosto che nelle fabbriche americane e la finanziarizzazione del sistema industriale e produttivo. Ma una “tecnostruttura” è ancora al comando e le realtà della produzione, della gestione e del marketing sono gli stessi che osservava Galbraith a metà degli anni ’60.
Niente di tutto questo realismo è penetrato nella teoria economica.
Galbraith ha acquisito la sua conoscenza dell’effettiva natura della gestione del capitalismo industriale dalla semplice osservazione e, soprattutto, essendo coinvolto negli sforzi di approvvigionamento e controllo dei prezzi della seconda guerra mondiale. Negli anni ’90, l’economista mainstream Alan Blinder ha acquisito una conoscenza simile attraverso un’indagine casuale molto attenta di aziende americane con vendite superiori a $ 10 milioni all’anno.
Le risposte che queste aziende hanno dato a Blinder sulle loro operazioni hanno capovolto tutti gli assiomi presenti nell’economia tradizionale, proprio come aveva fatto il libro di Galbraith 30 anni prima. Le imprese affrontano costi marginali in calo, non i costi marginali in aumento ipotizzati dalla teoria economica. Oltre il 70% della loro produzione viene venduta ad altre società, non ai consumatori finali. I prezzi dei beni industriali sono soggetti a contratti a lungo termine e cambiano raramente. Parola per parola, il sondaggio riproduceva la visione del settore aziendale che Galbraith aveva tracciato. Lo stesso Blinder ha osservato che “la notizia assolutamente negativa qui (per la teoria economica) è che, a quanto pare, solo l’11% del PIL è prodotto in condizioni di aumento del costo marginale”, e che “le loro risposte dipingono un’immagine della struttura dei costi del tipico impresa molto diversa da quella immortalata nei libri di testo” (Blinder 1998, pp. 102, 105).
Il mondo reale è “una notizia estremamente negativa” per la teoria economica perché, con la diminuzione del costo marginale, la curva di offerta da manuale non esiste: la produzione delle imprese non è vincolata dall’aumento dei costi, ma, invece, qualsiasi impresa che si assicuri una quota di mercato maggiore anche assicura un profitto maggiore. Il netto equilibrio del libro di testo è sostituito da una lotta evolutiva per la sopravvivenza e il dominio.
Non una parola di quella realtà è entrata nei libri di testo economici. Perfino il libro di testo universitario di Blinder (Baumol e Blinder 2015) finge che il modello di Marshall sia accurato, nonostante lui sappia che i risultati del suo sondaggio erano “una notizia schiacciante in modo schiacciante qui (per la teoria economica)”.
Il libro di Galbraith rimane quindi rilevante come descrizione della realtà economica, ma l’ottimismo che aveva sul fatto che la sua visione realistica avrebbe sostituito le fantasie dei libri di testo era mal riposto.

Pensa che oggi siamo passati da una tecnostruttura industriale a una tecnostruttura digitale e high tech?
Gran parte del circuito industriale statunitense è stato trasferito in Cina e in altre economie in via di sviluppo, ma semmai ciò ha rafforzato l’importanza della tecnostruttura: il coordinamento che Galbraith ha visto svolgersi negli Stati Uniti continentali è ora molto più complesso.
La crescita del software ha inoltre reso l’analisi di Galbraith ancora più appropriata. Sebbene i costi marginali delle aziende industriali siano bassi e in calo – l’opposto del modello dei libri di testo – i costi marginali delle aziende di software sono più vicini allo zero. I margini di profitto derivanti dalla posizione dominante sul mercato sono quindi ancora maggiori. Non esiste un secondo posto nel mercato dei word processor (Microsoft Word) o nel mercato dei browser (Google Chrome), e il secondo posto nel mercato dei sistemi operativi (Apple MacOs) è molto distante dal primo posto (Windows).
La necessità di controllare i prezzi e gestire la domanda è ancora maggiore nel mondo digitale/high-tech di quanto non fosse ai tempi industriali di Galbraith, mentre la capacità di dominare il mercato da parte del leader di mercato è ancora più forte dove i prodotti hanno un sostanziale effetto di rete. Questo vale per i prodotti dei social media come Twitter e Facebook, banalmente. Il predominio di Word nel mercato dei word processor è in gran parte dovuto al fatto che era il programma utilizzato dalla maggior parte degli utenti. Gli utenti di prodotti di minoranza, come una volta ero io, che utilizzavano Lotus Word Pro invece di Word a causa delle sue funzionalità di desktop publishing superiori, furono costretti ad adottare Word per compatibilità con le persone con cui dovevamo comunicare. Rivali come Word Pro appassirono e morirono sul mercato, semplicemente perché non erano il prodotto numero uno.
I libri di testo trattano questa come un’eccezione interessante, e facilmente ignorabile, alla presunta regola dell’aumento del costo marginale. Ma in realtà si tratta di un’amplificazione dei processi individuati da Galbraith nello stato industriale, che rendono il modello da manuale ancora più irrilevante per il mondo reale.

-Il ruolo del proletariato e della forza lavoro in questo nuovo stato digitale è oggi svolto dal capitale e dai mezzi tecnici che sostituiscono il peso sociale della forza lavoro?
Il declino del potere politico della classe operaia dalla pubblicazione di TNIS è stato drammatico. Galbraith prevedeva questa possibilità, notando fino a che punto la tecnostruttura tentava di far identificare i lavoratori con l’azienda piuttosto che con la loro classe sociale. Qui Galbraith merita un elogio per la sua grande preveggenza:
“Il sistema di pianificazione, sembra chiaro, è sfavorevole al sindacato. Il potere passa alla tecnostruttura, e questo attenua il conflitto di interessi tra datore di lavoro e dipendente che ha dato al sindacato gran parte della sua ragion d’essere. Capitale e tecnologia permettono all’impresa di sostituire colletti bianchi e macchine che non si possono organizzare a colletti blu che possono. La regolazione della domanda aggregata, l’alto livello di occupazione che ne deriva insieme all’aumento generale del benessere, tutto sommato rende il sindacato meno necessario o meno potente o entrambe le cose. La conclusione sembra inevitabile.
Il sindacato appartiene a una fase particolare nello sviluppo del sistema di pianificazione. Quando quella fase passa, anche l’unione passa in qualcosa di simile alla sua originaria posizione di potere. E, come ulteriore tocco di paradosso, le cose per le quali i sindacati si sono battuti energicamente – la regolamentazione della domanda aggregata per garantire la piena occupazione e un reddito reale più elevato per gli iscritti – hanno contribuito al loro declino. (Galbraith e Galbraith 1967, p. 337)

Partendo dal testo “L’economia della frode innocente” come il ruolo della finanza ha cambiato il legame tra tecnostruttura e mercati?
Un fattore che Galbraith non aveva previsto nel 1967 era l’aumento dell’importanza del settore finanziario, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Quando è stato pubblicato il TNIS, il debito privato era inferiore al 90% del PIL e il settore industriale era il settore dominante dell’economia statunitense. Oggi, il debito privato è più del doppio rispetto al PIL e la coda finanziaria ora agita il cane industriale (vedi Figura 1).



Di conseguenza, l’America non è più dominata dal complesso militare-industriale – per usare l’espressione inventata non da Galbraith, ma dal suo contemporaneo presidente Dwight D. Eisenhower – ma da quello che io chiamo il complesso politico-finanziario. Dobbiamo guardare, non a Galbraith nel 1967, ma a Marx un secolo prima, per un’accurata caratterizzazione di ciò che questo ha significato per la sopravvivenza del sistema capitalista:
“Parliamo di centralizzazione! Il sistema creditizio, che ha il suo fulcro nelle cosiddette banche nazionali e nei grandi prestatori di denaro e usurai che le circondano, costituisce un enorme accentramento, e dà a questa classe di parassiti il potere favoloso, non solo di depredare periodicamente i capitalisti industriali, ma anche per interferire nella produzione effettiva in un modo molto pericoloso – e questa banda non sa nulla della produzione e non ha nulla a che fare con essa.” (Marx 1894, capitolo 33)

Qual è la principale eredità di Galbraith?
Rileggere TNIS mi ha fatto venire nostalgia degli anni ’60, non perché la musica fosse migliore – anche se, ovviamente, lo era – ma perché la visione del futuro che aveva Galbraith era migliore del futuro stesso. La prosa erudita di Galbraith era sostenuta dalla presunzione che la conoscenza che aveva acquisito – di come funzionava effettivamente il settore industriale americano – avrebbe soppiantato le rassicuranti finzioni dei mercati marshalliani che gli economisti accademici continuavano a spacciare nei loro libri di testo del primo anno.
Non è successo. I libri di testo economici oggi sono ancora più arcani dei prodotti accademici degli anni ’60, che Galbraith sentiva di poter tranquillamente denigrare mentre delineava quella che chiamava la “sequenza rivisitata” di come le merci vengono prodotte e commercializzate in un’economia capitalista avanzata:
Nella forma appena presentata, la sequenza riveduta non sarà, credo, messa in discussione da molti economisti. C’è una certa difficoltà a sfuggire all’ineluttabile. C’è più pericolo che il punto venga ammesso e il suo significato quindi ignorato…
La sequenza rivista invia al museo delle idee obsolete l’idea di un equilibrio nelle spese dei consumatori che riflette il massimo della soddisfazione del consumatore. (Galbraith e Galbraith 1967, p. 265)

Invece, i contributi di Galbraith hanno in gran parte fatto la fine del Dodo (manuale di economia neoclassica caduto in disuso, ndr). I moderni studenti di economia non sono a conoscenza dei suoi contributi, dal lavoro pratico che ha intrapreso per consentire agli Stati Uniti di espandere notevolmente la produzione in tempo di guerra senza causare inflazione nei prezzi dei beni militari o di consumo, alla sua eloquente erudizione di un’economia alternativa in opere come TNIS, The Affluent Society (Galbraith 2010) e The Great Crash 1929 (Galbraith 1955).
Galbraith contribuì in parte alla sua successiva irrilevanza, non fornendo un mezzo con cui la sua eloquenza potesse essere trasformata in equazioni. Il suo contemporaneo Hyman Minsky (Minsky 1975, 1982), che all’epoca era molto meno noto di Galbraith — anche in circoli economici non ortodossi — è quello la cui visione non ortodossa sopravvive dopo di lui, soprattutto perché la sua visione poteva essere messa in una gamma di forme analitiche (Keen 1995; Delli Gatti e Gallegati 1996; Dymski 1997; Wray 2010; Keen 2020). Persino i neoclassici, che rimangono ignoranti delle vere intuizioni di Minsky quanto lo sono di Galbraith, devono riconoscere l’esistenza di “Minsky Moments” (Bressler 2021). Non esiste un equivalente Galbraithiano.


Quali sarebbero le caratteristiche di un “Nuovo Stato Digitale”?
La principale differenza tra lo stato industriale descritto da Galbraith e lo stato digitale (e finanziario) in cui risiediamo oggi è l’importanza degli effetti di rete per l’economia digitale.
I beni prodotti dalle società di Galbraith considerati dal trattato non dipendevano dalla diffusa conformità del consumatore. Il New Industrial State ha portato al dominio delle mega-corporazioni (come Ford, General Electric e IBM), ma il loro dominio non significava che le società rivali (come General Motors, Westinghouse e Burroughs) non fossero in grado di raggiungere quote di mercato. Tuttavia, nello stato digitale di oggi, è quasi impossibile per un rivale di Facebook raggiungere la massa critica, perché Facebook ha già quella massa critica. Ciò rende il Digital State un regime di mercato molto più aut-aut rispetto al New Industrial State della metà degli anni ’60.
L’effetto è profondo. Se il mercato aveva motivo di lamentarsi del prodotto di un gigante industriale, ad esempio la Ford Edsel, era facile passare a un prodotto concorrente di un produttore rivale. Ma lamentarsi come fanno oggi i consumatori su Google, Facebook e Twitter, la capacità di trasformare tali reclami in un prodotto rivale è praticamente inesistente.
In questo modo, il predominio della tecnostruttura sul mercato che Galbraith identificò negli anni ’60 è ancora maggiore oggi. Ma gli hipster della Silicon Valley che potrebbero benissimo usare la parola mentre discutono dell’Internet delle cose davanti a un latte di soia non saprebbero mai che la parola che li descrive così bene è stata inventata da John Kenneth Galbraith.

De Masi: “La questione sociale sarà il vero tema della transizione digitale”

De Masi: “La questione sociale sarà il vero tema della transizione digitale”

Di Francesco Subiaco

La transizione digitale e l’innovazione tecnica pongono il cittadino del mondo post industriale di fronte ad una sfida critica: la gestione del cambiamento e la pianificazione del futuro del lavoro. Nel mondo post-industriale, infatti, all’interno dei processi produttivi prendono sempre più spazio la sostituzione del capitale rispetto alla forza lavoro, la disintermediazione e la conseguente crisi della classe media e l’accentramento della ricchezza, del potere, del sapere nelle mani di ristrette oligarchie finanziarie. Eventi la cui conseguenza sono l’obsolescenza professionale della classe media, l’emergenza della ricollocazione delle forze produttive e l’aumento delle disuguaglianze che pongono un tema prioritario: la necessità di una nuova questione sociale e il ruolo dello stato nella transizione digitale. Per approfondire questi temi abbiamo intervistato il sociologo Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro all’Università «La Sapienza» di Roma dove è stato preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione. Svolge attività di consulenza per organizzazioni pubbliche e private. Conferenziere internazionale e saggista, è autore di numerose pubblicazioni riguardanti soprattutto la società postindustriale, la sociologia del lavoro e la creatività. Che recentemente ha pubblicato “Il lavoro nel XXI secolo” (2018) e “La felicità negata” (2022), entrambi per Einaudi.


Professor De Masi, come la transizione digitale sta ristrutturando e mutando la conformazione del mercato del lavoro?

Negli ultimi secoli abbiamo assistito a quattro ondate tecnologiche: il telaio meccanico ad inizio Ottocento; le macchine elettromeccaniche, nel Novecento; la nascita dei computer e l’avvento del digitale, nella seconda metà del Novecento; lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, negli ultimi anni. L’affermazione di queste ondate tecnologiche ha modificato il mercato del lavoro, prima sostituendo gli operai comuni con i mezzi meccanici, poi gli operai specializzati con le macchine elettromeccaniche, successivamente i quadri ed i dirigenti con lo sviluppo del digitale e infine una parte dei lavori creativi con l’arrivo dell’Intelligenza Artificiale. Ognuna di queste ondate tecnologiche ha modificato il mercato del lavoro in due sensi: ha ridotto il fabbisogno di fattore umano e di forza lavoro; ha spostato percentuali crescenti di lavoratori nel settore del lavoro creativo (laboratori scientifici, atelier artistici, ecc.) o in quello dei lavori di tipo affettivo (badanti, ecc.). Una mutazione che ha ridefinito la piramide del lavoro al cui apice ora sono presenti i lavori creativi e alla base quelli affettivi. 


Che impatto sociale avrà a suo dire il passaggio della centralità nei processi produttivi dalla forza lavoro e dai quadri dirigenti al capitale, come fonte di finanziamento della AI e della robotica?

Renderà sempre meno necessaria la componente umana a vantaggio della componente meccanica e informatica. Producendo un accentramento del potere (concentrato nelle mani di chi detiene la proprietà dei mezzi tecnici) e della ricchezza (concentrato nelle mani di chi detiene i capitali). In questo contesto assume un peso fondamentale, rispetto al fattore e al tempo di lavoro, la dimensione del tempo libero e di come si impiega la propria esistenza al di fuori del mercato del lavoro.


Lo sviluppo della globalizzazione e delle nuove tecnologie sta ridefinendo la piramide sociale cannibalizzando la classe media, ampliando il divario tra “servitori personali” e oligarchia creativa-tecnica?

La classe media sarà sempre più prosciugata dal processo di disintermediazione. Il crescente divario tra una élite creativa in cima alla piramide sociale e, alla base, i lavoratori non professionalizzati e con bassi stipendi, utilizzati nel settore affettivo, porterà a una evaporazione della classe media. Di fronte poi alla destrutturazione del luogo di lavoro prodotto da fenomeni come lo smart working, anche figure come capi dipartimento, capi ufficio e sovrintendenti organizzativi vedranno scomparire via via il loro impiego e il loro peso. Scompaiono quindi tutte quelle figure che hanno rappresentato l’essenza della classe media e che fondavano la loro azione sull’intermediazione e sull’organizzazione del lavoro. In sintesi, la disintermediazione ha prosciugato la classe media, creando un problema di ricollocamento di numerosi lavoratori che non trovano più impiego nel loro tradizionale settore di appartenenza e la cui condizione provoca un problema sociale difficilmente risolubile.


Oggi le motivazioni sociali e quelle del sistema industriale e digitale sono tra loro in idiosincrasia, è necessario secondo lei rilanciare il tema della questione sociale?

È un tema fondamentale. La questione sociale e il tema del welfare diventeranno delle cruciali di fronte ai cambiamenti della transizione digitale. Perché la vera sfida della questione sociale è quella redistributiva. Bisogna ridistribuire la ricchezza, il sapere, il potere, le opportunità e le tutele, mentre la tendenza è accentratrice e renderà necessario un enorme lavoro politico. La nostra società capitalistica ha la capacità straordinaria di produrre valore e ricchezza (concentrata nelle mani di poche persone), ma non ha la capacità di redistribuirli. Su tale questione è necessario concentrare le sfide del futuro.

 
L’avanzamento della disintermediazione e della precarizzazione rende necessarie misure come il reddito universale? 

Sono strumenti innovativi e fondamentali per affrontare la transizione digitale. Nel contesto che ho delineato, passeremo da un reddito di cittadinanza a un reddito universale. Saremo costretti (finalmente costretti) a un impiego intensivo e invasivo del welfare, attraverso tassazioni sempre più progressive ed un ruolo più attivo dello Stato al fine di destinare gli investimenti verso la soddisfazione dei bisogni collettivi. Una necessità che diventerà urgente di fronte a un numero decrescente di persone che disporrà di un reddito lavorativo, poiché – come ho detto – la produzione richiederà un impiego decrescente di energia umana. Una condizione che farà venire meno la leva distributiva del lavoro come è stato finora (“tanto più lavori, tanto più guadagni”) facendo corrispondere il guadagno e il reddito non più a questo criterio ma ai criteri redistributivi del welfare, legati non all’impiego ma alla cittadinanza. Soprattutto perché è venuta meno la centralità del lavoro nella vita dell’uomo, facendo diventare il tempo libero un problema centrale e fondamentale. L’identità dell’individuo non è più definita solo in base al lavoro ma anche in base alla quantità e alla qualità del tempo libero a disposizione.


Quale è la sfida più sottovalutata della transizione tecnologica?

Quella di cui abbiamo parlato finora: la redistribuzione e la questione sociale. Perché oggi la maggior parte del valore prodotto è creato da macchine la cui proprietà e le cui risorse sono nelle mani di un numero esiguo di persone: oggi gli otto personaggi più ricchi del mondo detengono una ricchezza pari a quella detenuta dai 4 miliardi di persone più povere. Da qui la necessità della redistribuzione in tutti i suoi ambiti per affrontare il presente e le sfide del futuro. Purtroppo, però, il capitalismo è capace di produrre ma non è capace di distribuire.

COTTARELLI:”ECCO QUALI SONO I PECCATI CAPITALI DELL’ECONOMIA ITALIANA”

COTTARELLI:”ECCO QUALI SONO I PECCATI CAPITALI DELL’ECONOMIA ITALIANA”

Di Francesco Subiaco


Come mai l’Italia non riesce a crescere? È questa la domanda che avvia l’indagine del professor Carlo Cottarelli e trova risposta nelle pagine del suo libro “I sette peccati capitali dell’economia italiana”(Feltrinelli). Un testo con cui l’autore indaga i sette mali cronici che impediscono la crescita dell’economia italiana: l’evasione fiscale, la corruzione, la troppa burocrazia, la lentezza della giustizia, il crollo demografico, il divario tra Nord e Sud, la difficoltà a convivere con l’euro. Criticità il cui confronto sarà ancora più necessario a seguito delle conseguenze economiche della guerra e della pandemia e dalle innovazioni portate dalla transizione digitale e dall’intelligenza artificiale. Per approfondire questi temi abbiamo intervistato l’autore, che da poco ha pubblicato il suo ultimo “All’inferno e ritorno. Per la nostra rinascita economica e sociale” in cui si mostra l’indirizzo ideale necessario per una rinascita italiana: “la possibilità per tutti di avere un futuro nella vita, indipendentemente dalle condizioni in cui si è nati”

-Secondo lei il sistema industriale sta transitando verso una forma ibrida che unisce componente industriale e il mondo dell’alta tecnologia e del digitale?
Penso che non dovremmo sopravvalutare troppo questo fenomeno. La questione principale che ci dobbiamo porre è: quanto è ampio e rilevante l’effetto della rivoluzione ICT nel sistema produttivo? Credo si possa sostenere che l’effetto dell’innovazione tecnologica a cui abbiamo assistito negli ultimi 30 anni sia abbastanza modesto rispetto a quella che abbiamo osservato nei primi anni del novecento o nel dopoguerra, ad esempio. Una tesi che è confermata dal cambiamento della produttività tra il 1890 e il 1950, drasticamente diverso rispetto al passato, e quello dagli anni 90 a oggi, molto meno rilevante. Negli ultimi trent’anni non abbiamo cambiato profondamente le nostre abitudini, il nostro modo di vivere o di pensare, cosa accaduta invece nel periodo precedentemente analizzato, ma abbiamo migliorato e affinato gli strumenti che già avevamo. Alle sveglie convenzionali si sono sostituite quelle dei telefoni, ai telefoni a cabina o fissi i cellulari. Si sono quindi perfezionate le strutture del passato, ma non si sono realizzate le previsioni ottimiste che si pensavano per questo periodo, pensiamo agli auspici di Clarke e Kubrick per il 2001… Un fatto che è confermato dalle limitate variazioni della produttività. La crescita della produttività è stata infatti molto più lenta negli ultimi decenni rispetto al boom che ha subito nel dopoguerra. La rivoluzione che abbiamo avuto in questi anni è stata minore rispetto al passato, non a caso tutti i principali brevetti e papers di ricerca sono non di innovazione, ma di consolidamento. L’ICT non è ancora maturo, almeno per ora.


-Di fronte alle emergenze che minano la catena globale del valore pensa che l’orientamento dei paesi occidentali faciliterà il reshoring o il friendshoring?
Ci sarà una parziale deglobalizzazione caratterizzata da fenomeni come reshoring e friendshoring, ma ciò non riporterà ai sistemi e alle categorie novecentesche. In termini di flussi di importazioni ed esportazioni c’è stata una riduzione delle esportazioni su PIL, ma si tratta di una piccola modificazione di tale rapporto, ma non così rilevante, come nel 2008 ad esempio, e nemmeno in grado di mettere completamente in discussione la globalizzazione. C’è stato un effetto, anche molto a livello comunicativo, sulle esigenze strategiche da parte degli Stati Uniti, attraverso l’Inflation Reduction Act (di cui aspettiamo la risposta europea), ma non ci sarà un ritorno alle logiche primo novecentesche. Le catene globali del valore si stanno accorciando e ridefinendo, ma non ci saranno né un ritorno massiccio e generale nei territori nazionali delle aziende che hanno delocalizzato (perché sarebbe molto costoso ed infattibile per esse), né un ritorno, improbabile, all’autarchia.


-Stiamo assistendo ad una fase in cui le grandi aziende stanno cannibalizzando le piccole imprese locali?
Si però non si tratta di un fenomeno nuovo, ma di un consolidamento di un processo già avviato in precedenza. Pensiamo alla nascita e allo sviluppo dei supermercati e dei grandi ipermercati. Anche in quel caso il ruolo delle piccole imprese è stato certamente ridimensionato, ma non completamente ridefinito o sostituito, una valutazione che vale anche per i fenomeni a cui stiamo assistendo.
-Secondo lei l’Italia negli ultimi anni ha subito una regressione o una stagnazione del proprio patrimonio produttivo fatto di imprese, corporate e complessi industriali?
Non parlerei di regressione, ma di una fase in cui dalla fine degli anni 90 ad oggi la crescita è stata prossima allo zero. Non siamo tornati indietro, ma non siamo nemmeno cresciuti.


Quali sono stati i peccati capitali dell’economia italiana che hanno favorito questa “paralisi”?
Si tratta di una sequenza di eventi critici che non possiamo trascurare, un insieme di fattori transitori, ma le cui conseguenze permanenti sono la causa di questa condizione. Noi siamo entrati nell’euro impreparati a gestire la concorrenza senza ricorrere all’arma della svalutazione. Abbiamo per alcuni anni provato a mantenere un aumento dei costi della produzione, con un livello di inflazione più alto, rispetto agli altri paesi dell’eurozona, che ci ha fatto perdere la nostra competività, mandando in rosso i conti con l’estero. Tali errori hanno permesso che nel 2008, in piena crisi, l’Italia sia diventata l’obiettivo delle ondate speculative che si sono acuite nel 2011, creando un senso di insicurezza negli investitori che ha ancora di più minato la produttività nazionale. Il primo peccato capitale è stato, quindi, l’esposizione dell’Italia al rischio di attacchi speculativi dopo l’entrata nell’euro. Un peccato acuito a sua volta dalla incapacità di risolvere gli altri problemi storici del nostro paese che io chiamerei peccati capitali del nostro paese: la lentezza della giustizia; l’evasione fiscale; un maggiore livello di corruzione rispetto agli altri paesi europei; eccesso di burocrazia; il crollo demografico; il divario tra Nord e Sud.


Oggi secondo lei sarebbe auspicabile una maggiore pianificazione pubblica? Occorrerebbe una terza via tra privatizzazioni selvagge e statalismo?
Prima di pianificare o intervenire è necessario che lo stato risolva le proprie criticità. Lo Stato dovrebbe avere come obiettivo la risoluzione dei peccati capitali della giustizia, della burocrazia, della pubblica amministrazione cercando di avere una macchina amministrativa funzionante. Non vedo l’esigenza di uno stato pianificatore, anche se forse si potrebbe pensare ad una minima pianificazione in alcuni ambiti strategici. Mentre c’è certamente necessità di una maggiore attenzione riguardo i temi della concorrenza. Però tali operazioni hanno come prerequisito la risoluzione delle criticità della macchina amministrativa di cui abbiamo parlato in precedenza.


Quali sono i suoi riferimenti culturali?
Senza dubbio autori come Joseph A. Schumpeter, John Maynard Keynes e Ugo La Malfa, che leggevo negli anni della mia gioventù mentre i miei coetanei leggevano Marcuse, Marx e Berlinguer. Se dovessi dire un romanzo direi “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, perché è un grande monumento della incompletezza dell’uomo.

TREMONTI: “LA GLOBALIZZAZIONE È STATA UNA UTOPIA”

TREMONTI: “LA GLOBALIZZAZIONE È STATA UNA UTOPIA”

Di Francesco Subiaco


Il sistema portato dalla globalizzazione è la quinta essenza dell’utopia. Senza luogo, senza confini, senza identità. Un paradiso artificiale, razionale e mercatista in cui il primato del mercato prevale su quello della politica, lo strapotere della finanza e delle corporates sui corpi intermedi instaurando un nuovo ordine “immateriale”, fatto di commerci, di scambi, di connessioni. Un ordine nato nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e che vede la sua dissoluzione a partire dal 2016 con le elezioni americane. Ad esso è seguito un nuovo ordine terrestre, non globale, ma internazionale; fatto di commerci, ma anche di conflitti, di catene commerciali, ma anche di nazioni, stati e popoli. La fine di un mondo, ma non la fine del mondo, parafrasando Obama, che viene straordinariamente descritta e analizzata dall’ex ministro e presidente della Commissione Esteri del Senato Giulio Tremonti nel suo ultimo libro: “Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile”(Solferino). Un testo che analizza le piaghe della globalizzazione, quelle della deglobalizzazione e le possibili soluzioni a queste problematiche, conformandosi come la sintesi completa di una analisi politica dalla caduta del Muro di Berlino agli sconvolgimenti attuali. Una analisi fondamentale per comprendere le sfide e le possibilità di un nuovo mondo fatto di frontiere digitali e guerre globali, emergenze planetarie e mutamenti sociali che Tremonti non mostra solamente, ma rivela, scrivendo sul tema parole definitive.

Quali sono le piaghe della globalizzazione?
Le piaghe della globalizzazione sono sette: il disastro ambientale; lo svuotamento della democrazia sversata nella repubblica internazionale del denaro; le società in decomposizione nel vuoto della vita; la spinta verso il transumano; l’apparizione dei giganti della rete; la pandemia; le guerre.
Ma è un numero destinato a salire: inflazione e recessione, crisi finanziarie, carestie, migrazioni, altre guerre. Tutti sconnessi anelli di una stessa catena, perché non è la fine dell’inizio e non è neppure l’inizio della fine: è proprio la fine della globalizzazione. Dopo il 2016 con le nuove elezioni americane abbiamo assistito alla ritirata della globalizzazione che ha portato al ritorno ad un nuovo ordine “internazionale”.

Quali sono state le cause che hanno portato alla ritirata della Globalizzazione?
Appena trent’anni fa gli «illuminati» ci hanno graziosamente comunicato il passaggio dalla vec chia triade Liberté, Égalité, Fraternité alla loro nuova triade: Globalité, Marché, Monnaie.
Ci hanno detto che, finita la storia e via via destinati a finire gli Stati, in un mondo nuovo lubrificato dal magico fluido del denaro saremmo entrati nell’«età dell’oro». E questo grazie alla verificata utopia della globalizzazione. E, guarda caso, utopia vuol dire assenza di luogo -ou-topos, in greco “non luogo” – e dunque è proprio questa l’essenza della globalizzazione.
E in effetti è stata la globalizzazione che, per trent’anni, ha plasmato il mondo e le nostre vite, non solo nel bene, per cui ci si illudeva, ma anche nel male, che oggi viviamo e vediamo.
All’origine c’è un «incidente della storia»: la caduta del muro di Berlino. Ma un incidente subito seguito dalla combinazione tra il mercato e la rete, i due pilastri su cui veniva basandosi un’architettura po- litica mai prima vista nella storia: il mercato sopra e gli Stati sotto, l’economia sopra e i popoli sotto, nazioni senza ricchezza e ricchezza senza nazioni. Ma oggi è proprio la storia, la storia che si diceva essere finita, è proprio la storia che è tornata, con il carico degli interessi arretrati e accompagnata dalla geografia, ridando così vita a quello che per secoli e secoli è stato un «mundus furiosus».

Quale è la principale differenza rispetto al passato?
Certo, in passato ci sono state forti mutazioni. Per esempio quando, scoperta l’America, lo spirare dei venti atlantici squassò il chiuso, secolare ordine dell’Europa. Ma questa volta è diverso, non fosse perché, a differenza dell’altra, questa mutazione non ha occupato lo spazio lungo di due secoli, ma quello breve di un trentennio. Un trentennio in cui la storia, come mai prima, è stata compressa e poi esplosa.

Il transumsnesimo e le “repubbliche digitali” ed che ruolo hanno in questo scenario?
Oggi il transumanesimo è realizzabile come prodotto delle novità epocali intervenute via globalizzazione con i giganti della rete, i gruppi di capitale e potere verticale generati dalla globalizzazione, questi detti anche “Repubbliche digitali”, gruppi ormai divenuti i nuovi soggetti egemoni perché: tendono a sostituire gli Stati e a modificare le vecchie strutture sociali e politiche, con la rete che sostituisce il popolo determinando una gigantesca traslazione dei poteri costituzionali. Un tempo era funzione degli Stati fare le strade, battere moneta, permettere la democrazia. Oggi è lo stesso, ma in altro modo, con le Repubbliche digitali che offrono le autostrade informatiche, battono moneta digitale, permettono infine forme di nuove agorà democratiche; modificano le nostre strutture mentali, spin- gendoci dal vecchio «cogito ergo sum» verso un nuovo e faustiano «digito ergo sum», ver- so un mondo ibrido risultante dalla fusione di internet of humans e internet of things;
pianificano la fabbricazione chimica del nuovo cibo sintetico, che al principio dovrebbe essere “eticamente prodotto” per sfamare i poveri e le vittime delle carestie, ma in prospettiva è destinato a diventare il cibo universale.

Nonostante le divisioni e le mancanze che caratterizzano l’Europa, possiamo dire che con la guerra in Ucraina l’Europa è tornato ad essere quel Mundus Furiosus del suo precedente libro?
“Mundus Furiosus” è stato scritto, infatti, nel 2016, quando si avvertiva la fine della globalizzazione come sistema universale e progressivo che considerava il primato del mercato sugli stati e sui popoli. La cui conseguenza è stato il passaggio ad un mondo internazionale fatto di commerci, ma anche di conflitti. In questo senso è significativa la frase del presidente Obama a seguito della vittoria di Donald Trump che affermava: “non è la fine del mondo, ma la fine del nostro mondo”.


Secondo lei oggi il nuovo scontro tra terra e mare non passa più tra Russia e Usa, ma tra Cina e Usa?
Sui documenti dell’elite anglosassone prima ancora del novecentesco Terra e Mare si evoca la contrapposizione fatta da Tucidide ne “La guerra del Peloponneso”: Atene contro Sparta. Atene, inteso come il fronte delle democrazie e Sparta, invece come quello delle autocrazie. Stati Uniti ed Europa, da una parte contro Cina e Russia dall’altra, che tra loro si contrappongono ricordando il novecentesco potenze terrestri contro potenze marittime. Uno scontro per il dominio marittimo e commerciale, democratico, contro quello terrestre delle autocrazie.

-La guerra in Ucraina ha segnato la fine della globalizzazione?
Non è la guerra che pone fine alla globalizzazione, ma è la fine della globalizzazione che porta alle guerre. È anche così che la guerra in Ucraina ci si presenta come una guerra di tipo nuovo: è la prima guerra di tipo globale. Globale perché non è fatta solo con armi convenzionali, ma anche con armi che sono appunto «globali».

Quale è il vero vantaggio dell’Occidente?
La libertà. Poiché solo la libertà permette lo sviluppo della scienza, dell’innovazione e dell’individuo.

A fine opera lei prefigura gli elementi e le proposte di una proposta alternativa, con elementi innovativi, quali il global legale standard. Quali sono le conclusioni che propone nel testo e le soluzioni possibili?
In un mondo post globale caratterizzato da scambi e commerci internazionali servono delle regole comuni. Il Global legal standard, fu proposto dopo la crisi del 2009, per reagire alla prima crisi della globalizzazione prodotta dai subprime (inventati per creare un contrappeso e una compensazione alle perdite portata dalla delocalizzazione). Tale crisi non era una crisi finanziaria bensì il cortocircuito di un modello politico che era quello della globalizzazione. L’idea alla base del Global Legal Standard era passare dal Free trade al Fair trade. Non è sufficiente che il prezzo sia giusto, perché incrocia domanda ed offerta, ma è necessario che sia giusta anche la produzione di quel bene servizio. Era la bozza scritta dal governo italiano all’ OCSE nel 2009. Sottolineo che all’articolo 4 di tale documento c’era come requisito il rispetto di regole igieniche e ambienta, che mi sembra oggi più che mai attuale e centrale alla luce degli scenari degli ultimi anni.


Può elencarci un’altra proposta?
Un’altra proposta è la De-tax per l’Africa, ovvero se un esercizio commerciale è convenzionato con una rete di volontariato o di solidarietà attiva in Africa, l’Unione Europea rinuncia a una quota della sua IVA sugli acquisti, se questa è destinata a favore dell’Africa. Una proposta, che può essere parte di un piano di governo per sostenere gli stati africani, oppure può fare parte di un disegno europeo o del Piano Mattei, la cui urgenza è necessaria per aiutarli veramente a casa loro.

James Galbraith e l’attualità del “Nuovo stato industriale”

James Galbraith e l’attualità del “Nuovo stato industriale”

Di Francesco Subiaco


“Il nuovo stato industriale” di John Kenneth Galbraith è uno dei testi cardine del novecento americano. Esso infatti non svolse solo una lunga analisi e disamina delle forze e delle mutazioni prodotte dall’affermazione del sistema industriale, ma anche una lente chiara e limpida per comprendere l’evoluzione delle istituzioni sociali che hanno caratterizzato la società americana. Per riflettere sull’attualità di questo testo visionario del 1967 abbiamo intervistato il Professor James Galbraith, studioso, economista ed accademico, la cui visione progressista e istituzionalizza ha ripreso e interpretato le istanze della visione economica del New industrial state, partendo dal ruolo predatorio delle grandi corporate nell’economia americane, e la loro applicazione nel settore militare racchiusa nel saggio “The predator state”.
James K. Galbraith detiene la Lloyd M. Bentsen Jr. Chair in Government/Business Relations presso la Lyndon B. Johnson School of Public Affairs e una cattedra di Government presso l’Università del Texas ad Austin. È stato direttore esecutivo del Joint Economic Committee del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni ’80 e, prima ancora, economista per il House Banking Committee. Ha presieduto il consiglio degli economisti per la pace e la sicurezza dal 1996 al 2016 e dirige il progetto di disuguaglianza dell’Università del Texas . È caporedattore di Structural Change and Economic Dynamics .
Dal 1993 al 1997 Galbraith è stato consulente tecnico capo per la riforma macroeconomica della Commissione per la pianificazione statale della Repubblica popolare cinese. Nel 2010 è stato eletto all’Accademia Nazionale dei Lincei . Nel 2014 è stato co-vincitore del Leontief Prize for Advancing the Frontiers of Economics . Nel 2020 ha ricevuto il Veblen-Commons Award dell’Association for Evolutionary Economics. Ha conseguito lauree presso l’Università di Harvard (AB, magna cum laude), in economia presso l’Università di Yale (MA, M.Phil, Ph.D.) e onori accademici presso università in Ecuador, Francia e Federazione Russa . È un Marshall Scholar; membro a vita del Council on Foreign Relationse la Texas Philosophical Society.


Che ruolo ha avuto Il Nuovo Stato Industriale nel lavoro e nel pensiero di tuo padre?
Poiché la domanda si riferisce al titolo del libro di mio padre del 1967, l’ho interpretata come riferita specificamente a quel libro, e non come una domanda generale sul concetto di un nuovo stato industriale.
Il libro di mio padre del 1967 “The New Industrial State” è stato per molti versi il culmine del suo lavoro di economista teorico e dei suoi sforzi per portare l’intera disciplina dell’economia in contatto con il mondo così com’è – un mondo di grandi organizzazioni, di tecnologie complesse e di progettazione. Il suo lavoro immediatamente precedente, The Affluent Society, era in parte una rassegna ed una critica del pensiero economico classico, e in parte un ritratto del panorama sociale della ricchezza del dopoguerra e di un’economia non basata sulla scarsità fondamentale. Il “New Industrial State”, quindi, riguardava le corporazioni industriali, l’istituzione economica americana allora dominante, e i loro sforzi per modellare l’intero universo economico – dalla progettazione alla produzione, dalla finanza al marketing – secondo le loro specifiche.
Mio padre considerava il “Nuovo stato industriale” come la seconda parte di una trilogia, la terza era Economics and the Public Purpose, di cui dei tre libri, era lo sforzo dominante e il libro principale. All’epoca ebbe un formidabile impatto sul pubblico – nella lista dei bestseller del New York Times per oltre un anno – e generò la reazione più feroce tra gli economisti accademici. In seguito, il tempo di mio padre fu occupato dal movimento contro la guerra del Vietnam, dalle campagne politiche nel 1968 (McCarthy) e nel 1972 (McGovern), dai traumi del dipartimento di economia di Harvard, e successivamente negli anni ’70 dal progetto della BBC “L’Età dell’incertezza”. Quindi il “TNIS” ha rappresentato anche un punto di svolta nella sua traiettoria professionale; i suoi scritti sull’economia in seguito furono per lo più più brevi, e in seguito dedicò anche tempo alla narrativa, alle memorie e ad altre forme letterarie.
A differenza di “The Affluent Society” o (soprattutto) “The Great Crash”, 1929, “The New Industrial State” sparì dalla scena a partire dalla fine degli anni ’80, ed era fuori stampa da diversi decenni quando mio padre morì nel 2006. Era contento di lasciarlo andare; Io non lo ero. Mi sono quindi impegnato a riportarlo in stampa, e ci sono riuscito con le edizioni della Princeton University Press e della Library of America.

Pensa che oggi, come il blocco comunista e quello liberaldemocratico, avevano come tendenza di fondo la pianificazione, oggi le big tech occidentali e il big state cinese hanno una tendenza di fondo del loro sistema economico che li accomuna?

Sì e no. I parallelismi tra il capitalismo manageriale e l’industrializzazione statale dell’URSS nelle sue fasi di maggior successo erano governati dal loro scopo comune, che era quello di padroneggiare le complesse tecnologie della produzione industriale avanzata e di pianificare il funzionamento del sistema economico più ampio in modo da garantire una serie di obiettivi sociali: stabilità, piena occupazione, controllo dell’inflazione, stato sociale.
Nella misura in cui “Big Tech” e lo stato cinese hanno uno scopo comune, è l’applicazione delle tecnologie digitali alle comunicazioni, all’informazione, alla sorveglianza e al controllo sociale. Inoltre, “Big Tech” è nel business privato della riduzione dei costi, eliminando gran parte del lavoro umano e irreggimentando il resto, e concentrando la ricchezza di capitale associata alle tecnologie dell’informazione avanzate in poche mani oligarchiche. Gran parte di questo funziona per minare le istituzioni del “nuovo stato industriale”, creando precarietà dove in precedenza la sicurezza era un obiettivo sociale primario. Mentre l’economia cinese ha le sue versioni di “Big Tech”, con alcune delle stesse caratteristiche generali, lo stato cinese ha una serie di obiettivi molto più ampia e conserva in misura maggiore un impegno per la stabilità sociale come parte dei suoi obiettivi fondamentali. Al giorno d’oggi è lo stato più affine allo studio galbraithiano è quello cinese rispetto a quello americano.

Che ruolo ha oggi la finanza rispetto al sistema industriale e se secondo lei figure come quelle dei manager della Silicon Valley dimostrano la fine della gestione collegiale delle imprese?

Una caratteristica fondamentale del sistema industriale nei primi tre decenni del secondo dopoguerra fu il ruolo subordinato della Grande Finanza alla corporazione industriale. La maggior parte delle grandi società americane erano redditizie e finanziavano i loro nuovi progetti in gran parte con gli utili non distribuiti. Questo comportamento è stato fortemente favorito dal codice tributario, che tassava pesantemente gli utili distribuiti ma consentiva ampie detrazioni per gli investimenti. L’attività scientifica aziendale è stata svolta da professionisti stipendiati. Anche le elevate aliquote marginali dell’imposta sul reddito delle persone fisiche hanno tenuto sotto controllo la remunerazione dei dirigenti aziendali. Non è un caso che questa fosse un’epoca di costruzione iconica delle sedi aziendali (lo skyline di Manhattan, in particolare, prima che fosse rovinato dai condomini a molti piani).
Le grandi banche americane erano generalmente limitate nelle loro operazioni, i tassi di interesse erano regolamentati, il finanziamento ipotecario era in gran parte separato dalle banche commerciali e c’era una netta separazione tra banche commerciali e di investimento. Quindi le dimensioni e il potere del settore bancario all’interno degli Stati Uniti erano di gran lunga inferiori a quelli che sono diventati da allora.
La grande finanza iniziò a sfuggire alla regolamentazione con il crollo di Bretton Woods nel 1971, il riciclaggio globale dei petrodollari dopo il 1973, l’uso di alti tassi di interesse per “combattere l’inflazione” a metà e alla fine degli anni ’70 e una spinta concertata per abrogare il New Deal. Questi provvedimenti sono culminati in una sostanziale deregolamentazione del settore finanziario negli anni ’80, ’90 e negli anni 2000, con anche una riduzione dei fondi e del personale delle agenzie di applicazione della regolamentazione.
Il settore tecnologico si separò dalla società industriale negli anni ’80, quando quest’ultima iniziò a fallire a causa degli alti tassi di interesse, del dollaro sopravvalutato e della concorrenza estera. La grande finanza lo ha reso possibile e ha reso possibile alla tecnostruttura delle aziende di tecnologia dell’informazione di catturare le valutazioni del capitale delle loro tecnologie. Ha trasformato i laboratori aziendali in iniziative speculative, estremamente ben pagate ma estremamente instabili. Ne ho scritto in due libri: “Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future” (1989) e “Created Unequal” (1998).
L’ampio contrasto che vorrei tracciare con l’era della società industriale è che, in quell’epoca, c’erano criteri ragionevoli su ciò che avrebbe costituito un buon investimento. Non perfetto, ma ragionevole. Il design, l’invenzione, l’ingegneria e il marketing giocavano un ruolo, c’erano incertezze in ogni funzione, ma la qualità dei team che svolgevano ogni attività poteva, in modo ragionevole, essere valutata da coloro che prendevano le decisioni per fornire finanziamenti. Nell’era post-industriale, le decisioni vengono prese dagli analisti finanziari – dagli operatori di Wall Street – che mancano di capacità indipendenti, sono vulnerabili all’hype e alle frodi e spesso possono essere loro stessi complici delle frodi. Gli ingegneri finanziari non sono veri ingegneri, ovviamente.
Il risultato non sorprendente furono ondate di speculazioni finanziarie: risparmi e prestiti, Internet, il boom dei mutui subprime. Ognuno ha portato a un incidente nel giro di un decennio. Senza regolatori aggressivi, indipendenti e competenti, sostenuti dalle forze dell’ordine, i problemi continuano a ripresentarsi. I risparmi e i prestiti erano massicciamente fraudolenti. Molte società del digitale negli anni ’90 erano basate su modelli di business ridicoli. L’intero settore dei mutui subprime, insieme ai rating e alle cartolarizzazioni, avevano una impostazione fallace.
Siamo ormai entrati nella prossima ondata di questo tipo di attività. Nel caso più recente, abbiamo ad esempio broker di criptovalute, che hanno esasperato le pericolosità del sistema finanziario rispetto ai già disastrosi precedenti che avevamo potuto osservare. Diventa abbastanza chiaro che il sistema, così com’è, manca di controlli sia interni che esterni. È improbabile che tali controlli possano essere ripristinati, anche se la classe politica si muove in questo orizzonte.

Circa sessant’anni dopo, quanto è attuale la visione dell’economia e del sistema economico americano proposta da John K. Galbraith nel suo “Il nuovo stato industriale”?

Come visione dell’economia americana, il ritratto di mio padre del ruolo dominante delle grandi corporazioni industriali è stato superato dagli eventi. La General Motors è fallita alcuni anni fa. General Electric si sta scomponendo in tre società specializzate, nessuna delle quali legata al core business degli elettrodomestici. Molte altre grandi aziende di quell’epoca non esistono più. Invece la finanza ha recuperato il suo ruolo centrale nell’economia americana, insieme ai settori tecnologico e sanitario e militare-industriale. Questa è una situazione squilibrata e instabile.
Tuttavia, esistono ancora aziende del tipo descritto da mio padre: grandi aziende avanzate, ingegneristiche e manifatturiere. Rimangono dominanti in Germania, Giappone, Corea, Cina e probabilmente anche nella Federazione Russa. In tutti questi paesi, mio padre ha goduto di un’influenza diretta o indiretta e la sua eredità intellettuale è ancora riconosciuta. Naturalmente si possono vedere le conseguenze nei modelli del commercio mondiale e nell’equilibrio della forza manifatturiera.

Pensa che oggi siamo passati da una tecnostruttura industriale a una tecnostruttura digitale e high tech? Il ruolo, un tempo del circuito industriale, è stato assunto oggi da big tech e corporate legate ai social network?

Come prevedevo già nel 1989 in un libro intitolato “Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future” – che all’epoca fece poco successo – il settore tecnologico e quello finanziario sono oggi i poli dominanti del sistema economico americano. È lì che si concentrano ricchezza e potere, a parte (di nuovo) le imprese aerospaziali e militare-industriali. Tuttavia, la concentrazione è così estrema che solo una piccolissima parte della popolazione e della superficie del Paese si trova nell’orbita diretta di questi settori. Alcuni anni fa abbiamo calcolato che nel boom tecnologico della fine degli anni ’90, la metà dell’aumento della disparità di reddito misurata tra le 3150 contee degli Stati Uniti era dovuta all’aumento del reddito in sole cinque contee: New York, New York (Manhattan); tre contee nel nord della California (Silicon Valley); e King County Washington, che è Seattle, che è Microsoft. Da allora c’è stata una certa diffusione della ricchezza, ma non così tanto estesa da essere rilevante. La maggior parte del paese vive con l’occupazione nel settore dei servizi. E nel settore immobiliare e dell’edilizia residenziale, che sono sempre stati una parte importante dell’economia americana, i costi delle abitazioni sono ora stimati in oltre il 30% dell’indice dei prezzi al consumo.

Il ruolo del proletariato e della forza lavoro in questo “Nuovo stato digitale” è oggi svolto dal capitale e dai mezzi tecnici che sostituiscono il peso sociale della forza lavoro?
Penso di no. I mezzi tecnici sono cresciuti per esercitare un ampio grado di controllo sulla forza lavoro, in particolare (ad esempio) nella distribuzione di merci (Amazon, Wal-Mart) e nei trasporti (Uber, Lyft) e così via. Ma la forza lavoro in sé è ancora vasta e praticamente tutti i nuovi posti di lavoro negli ultimi decenni sono stati nel settore dei servizi. Quello che sta accadendo ora – dal 2000, più dal 2008 e ancora di più dalla pandemia – è stato un ritiro di un certo numero di persone dalla forza lavoro attiva. Un discreto numero è andato in pensione, spesso alla prima età della previdenza sociale, che è di 62 anni; altri erano lavoratori supplementari nelle loro famiglie che decisero che il lavoro (e le spese associate) non valevano la pena. Questo è il motivo per cui il tasso di disoccupazione è così basso: cattura solo coloro che sono in cerca di lavoro. In termini di “peso sociale” – questa è una grande difficoltà della forza lavoro oggi. I lavoratori dei servizi hanno scarso potere contrattuale ed è molto difficile per loro trovare ed esercitare una voce politica comune.

Quanto sono attuali le critiche che fa nel suo “The predator state” delle amministrazioni GOP e cosa è cambiato in meglio o in peggio negli ultimi anni?

“The Predator State” è stato scritto durante un’amministrazione (Bush-Cheney) particolarmente aggressiva nell’erodere le assicurazioni sociali al fine di arricchire gli interessi commerciali e industriali, e in un momento in cui la bandiera rossa dei deficit di bilancio (ha creato in parte da ampi tagli fiscali) è stata agitata per promuovere la privatizzazione dei programmi pubblici. È stato anche il momento della deregolamentazione e depenalizzazione della finanza che ha portato a massicce frodi finanziarie; la crisi del 2007-2009 ne è stata la conseguenza. Queste tendenze non sono scomparse, anche se penso che le minacce alla Social Security, Medicare e Medicaid potrebbero non essere così gravi come prima, e i deficit della pandemia hanno mostrato chiaramente quanto si potrebbe fare per sostenere le entrate pubbliche senza danneggiare il credito del governo. Forse l’elemento più aggressivo dello stato predatore al momento è il complesso militare-industriale.

Cosa ne pensa del ruolo delle grandi aziende durante la pandemia e la crisi internazionale?

Durante la pandemia, ingenti prestiti e sovvenzioni sono andati a sostenere la struttura allora esistente del business americano, comprese le compagnie aeree, il settore dell’ospitalità e molto altro che non verrà riportato ai precedenti livelli di attività. È difficile immaginare cosa si sarebbe potuto fare altrimenti nell’emergenza, ma ora che l’emergenza immediata è passata, i cambiamenti strutturali operati dalla pandemia si svilupperanno nel tempo. La transizione più ampia, che potrebbe essere verso un settore degli investimenti focalizzato su risorse (sempre più scarse e costose), in particolare l’energia e comprese le rinnovabili, e lontano dai settori legacy (sempre più non redditizi), sarà dolorosa, indipendentemente da come verrà gestita.
La guerra in Ucraina è una miniera d’oro per le grandi aziende militari-industriali, che continueranno a trarre profitto dagli ordini di sostituzione per le scorte di munizioni esaurite per molti anni dopo la fine della guerra. Penso che la maggior parte dei contratti concessi dal febbraio 2022 non avrà alcun effetto sulla situazione sul campo, perché i tassi di produzione sono troppo bassi e i tassi di utilizzo sono troppo alti per essere compensati da una nuova produzione finché durano i combattimenti. Forse la lezione chiave dell’attuale guerra sarà l’inutilità delle attuali strutture del potere militare statunitense, ma ci sono ancora pochi segnali che questa lezione sia stata appresa.

Quali sono i suoi riferimenti culturali?

Una grande domanda! Tra gli economisti, Thorstein Veblen e John Maynard Keynes sono stati fondamentali nella mia formazione, sebbene io sia diventato più istituzionalista ed evoluzionista nel corso degli anni, e meno keynesiano nel senso comune del termine. Veblen è sempre un piacere rileggerlo. Il mio apprezzamento per Keynes si basa soprattutto sulla sua comprensione del ruolo della psicologia sociale nel più ampio schema della vita economica, e sono orgoglioso di un saggio che ho scritto molti anni fa sull’ispirazione che ha tratto da Einstein. Non sono un gran lettore di testi filosofici, ma allo stesso tempo sono molto attratto dalla comprensione della tradizione pragmatista; suppongo che questo abbia un collegamento con la mia prima carriera nello staff del Congresso. In letteratura, i miei gusti vanno maggiormente verso gli autori dell’età dell’argento sovietica, come Bulgakov per molti anni, Krzhizhanovsky e Tynyanov più recentemente; ciò è dovuto, credo, alla loro combinazione di sensibilità allegorica con un apprezzamento dell’assurdità della vita moderna. Il mio autore italiano preferito, veneziano nello specifico, è ovviamente Casanova. Finora ho letto circa 2.500 pagine dell’edizione in tre volumi LeBorgne/Igalens di “Histoire de ma Vie”, e non c’è una frase che non sia indimenticabile o che sia semplicemente superflua in nessuna di esse.

Sossio Giametta, intervista ad un Mago del Sud

Sossio Giametta, intervista ad un Mago del Sud

Di Francesco Subiaco


Per Sossio Giametta la filosofia è la terapia dell’essere umano, un farmaco capace di portare ordine e dare un senso ai grandi dubbi che tormentano l’umanità senza scadere né nelle religioni delle illusioni né nelle illusioni delle religioni, attraverso domande che decostruiscono i miti dell’antropocentrismo, delle utopie dei totalitarismi, delle finzioni sulle sorti magnifiche e progressive dell’umanità, e che sono il vero bagaglio del filosofo. Per tali motivazioni Sossio Giametta è un vero filosofo e non uno storico o un pedante divulgatore del pensiero, poiché con il suo percorso intellettuale ha prodotto un corpus filosofico capace di sfidare i pregiudizi del tempo, di affrontare i temi del presente con il metro dell’eterno, di non essere solo l’ombra dei pregiudizi del tempo, ma una voce dei grandi turbamenti dell’individuo, che non solo risolve, ma vive, affronta e rilegge in modo unico nei suoi testi. Un’opera che lo pone come l’ultimo vero maestro del sospetto della nostra epoca. Un maestro capace di delineare il nucleo di una idea filosofica in grado di rispondere al più urgente tema della filosofia contemporanea: “come si può pensare il mondo dopo il cristianesimo?”. Questa domanda trova risposta nella filosofia dell’ “essenzialismo-organicismo”, una visione argomentata già nella Trilogia dell’essenzialismo” (composta dal Bue squartato, L’oro prezioso dell’essere e Cortocircuiti) e nello splendido Codicillo, in cui declina i massimi problemi del pensiero in minimi spazi ed in cui si ritrovano le idee e le scoperte che poi verranno riprese e sviluppate nel Caleidoscopio, nei commentari filosofici dell’opera di Nietzsche e nei suoi ultimi scritti. Scritti che affrontano la filosofia dei grandi maestri del sospetto della storia, come Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche nel piccolo, ma densissimo, “La filosofia di Spinoza e il duello con Schopenhauer e Nietzsche” (Bollati Boringhieri) dove Giametta confronta la filosofia del massimo filosofo con gli affondi del dinamitardo Nietzsche e del pessimista Schopenhauer, la cui filosofia non solo ha decostruito il mito antropocentrico e cristiano ma ha formulato l’idea di una filosofia capace di andare oltre il fanatismo e gli antidoti delle illusioni cristianesimo. Una filosofia che si fa racconto e narrazione nel romanzo più riuscito di Giametta, “La gita di Ognissanti”(Olio officina), in cui l’autore, critico del 68 e le illusioni della modernità, demolisce i tabù e le chiusure di un establishment intellettuale di stampo marxistico e dell’inquinamento ideologico con cui il comunismo ha contaminato la cultura e in cui è presente, inoltre, una interessante stroncatura di Pasolini. Opere in cui Sossio Giametta si mostra come un vero Mago del sud, (come suggerisce il titolo dell’omonima antologia critica sul filosofo frattese curata da Marco Lanterna), che ha ripagato bene i suoi maestri, Spinoza, Croce, Bruno e Colli, non rimanendone solo un allievo, bensì diventando a sua volta un maestro. Il maestro di una grande filosofia capace di ripensare la modernità in modo unico come un vero filosofo, forse l’ultimo, ovvero “come persone che compiono sforzi estremi per sperimentare fino a che altezza l’uomo possa elevarsi”. E con il pensiero di Giametta ci si innalza oltre le vette.


In Caleidoscopio filosofico hai detto che la storia umana è divisa in tre fasi di cui la prima aristocratica-elitaria-pagana e la seconda cristiana-democratica. Quale sarà la terza fase della storia e perché il panteismo sarà la filosofia fondante di questo terzo evo?
Dopo paganesimo e cristianesimo, il secondo in contrapposizione al primo come tesi e antitesi, segue levo moderno come sintesi, letà della secolarizzazione e per conseguenza del panteismo, soprattutto ad opera di Spinoza. Segue necessariamente, perché la religione, cioè il vincolo dellindividuo con la natura (la specie e il mondo), permane.

Oggi in preda ad una nuova “rivoluzione culturale” si giudicano i filosofi e gli scrittori in base alle lenti del politically correct. Che ne pensi di questo nuovo tribunale ideologico?
Giudicare i filosofi e gli scrittori con giudizi che non siano filosofici e letterari, come sono quelli politici, è sbagliato. La filosofia è la ricerca della verità e quindi il giudizio filosofico è quello che stabilisce che valore ha un certo filosofo, cioè la sua filosofia, in relazione alla ricerca della verità: se lha fatta progredire o se ha imboccato vie sbagliate.

Come può secondo te la filosofia confrontarsi con la complessità della tecnica e del mondo digitale. L’intelligenza artificiale e la “virtualizzazione” del mondo come cambieranno a tuo avviso il rapporto del filosofo con il mondo e il pensiero?
la filosofia si è sempre confrontata con la vita e il mondo, le cose più complesse in assoluto. si confronterà anche con la tecnica e il mondo digitale, come di ogni altra cosa che ne fa parte. quanto a come lintelligenza artificiale e la virtualizzazione del mondo cambieranno il rapporto del filosofo con il mondo e il pensiero, wait and see.

Perché definisci Spinoza il filosofo, Schopenhauer un mezzo filosofo e mezzo moralista e Nietzsche soltanto un moralista?
Spinoza è certamente il filosofo, ma il filosofo che ha fatto la rivoluzione più importante dopo quella di Gesù Cristo, in senso inverso, sostituendo il cristianesimo con il panteismo. Non ho definito Schopenhauer un mezzo filosofo e mezzo moralista e Nietzsche soltanto un moralista. Schopenhauer è un (grande) filosofo e in più un grande moralista e un grande artista (stilista). Nietzsche è un grande moralista, ma anche filosofo, poeta, psicologo, critico della civiltà (kulturkritiker) e genio religioso, come tale co-fondatore della religione laica.

Che cos’è per te la filosofia e quale dovrebbe essere la missione del filosofo?
La filosofia potrebbe non esistere come disciplina particolare, perché è una riflessione sulla vita e sulla natura aperta a tutti.

Una volta hai detto che ci sono tanti professori di filosofia e pochi filosofi. Come mai siamo diventati nell’ambito filosofico dei “guardiani” del pensiero e non abbiamo più coraggio di essere filosofi?
Per Pitagora, inventore del termine filosofo, il filosofo è chi osserva e studia la natura, le cose, non in primo luogo i concetti. Solo che il filosofo è anche chi si dedica a quuesto studio e non ignora i risultati dei filosofi precedenti.

Nel novecento Kojeve e Strauss si confrontarono a lungo sul rapporto tra filosofia e potere, nel lungo epistolario “Sulla tirannide”. Secondo te che rapporto ci deve essere tra il filosofo e il potere e verso quale posizione propendi?
Sono per lassoluta libertà della ricerca filosofica, per lassoluta libertà di pensiero, indipendente da qualsiasi autorità, da ogni potere, soprattutto quello religioso e politico.

Longanesi diceva che cultura è tutto quello che non ti dà l’università. Credi che la filosofia sia incompatibile con l’accademismo?
Sì. La vera filosofia è vocazione e non professione. Può però anche diventarlo, fermo restando che la vocazione deve sempre precedere la professione. Non si sceglie la fillosofia, ma se ne è scelti, in genere con grande sorpresa. Philosophus nascitur. Schopenhauer ha scritto un saggio significativo contro la filosofia delle università.

Che legame c’è tra il Giametta filosofo e quello romanziere? E come nasce la Gita di Ognissanti?
Giuseppe (Peppo) Pontiggia diceva che i miei saggi sono scritti con tensione narrativa. Io aggiungo che la mia narrativa è scritta con tensione moralfilosofica. In essa, narrazione e pensiero non sono sovrapposti o giustapposti, nascono intimamente intrecciati, anzi fusi, cioè i racconti sono veri racconti, non contes philosophiques che vogliono dimostrare una tesi filosofica. La Capria diceva che ero un centauro. E in effetti ho scritto Tre centauri. La gita dOgnissanti nasce come le altre narrazioni: da ispirazione, esperienza e pensiero. Vi stronco Pasolini, non il 68 e il movimento della contestazione, che giudico in parte positivamente, in parte negativamente. Pasolini, non negoche fosse anche artista, nel cinema e nella letteratura, forse anche nella poesia dialettale, che però non conosco. Il primo dei due romanzi è valido, come i due film romaneschi. Sono ispirati dalla gioventù perduta delle periferie romane. Il secondo romanzo ha un inizio bello e originale, travolgente, ma ilresto è maniera. Pasolini era più un effettista che un artista e aveva la presunzione di esprimere con singoli film intere civiltà: araba, greca, cristiana, inglese, eccetera. Quanto alla critica sociale, ha detto in forma popolare ciò che era stato detto seriamente quasi un secolo prima. Ha approfittato del successo per esprimere in più modi e con vari pretesti la sua depravazione, che non consiste nella sua omosessualità, ma nel modo di viverla e di obbrobriosamente sbandierarla.

Nel tuo romanzo “La gita di Ognissanti” compi una netta stroncatura di Pasolini e del 68. Quali critiche muovi verso questo autore e il movimento della contestazione?
Ho cominciato con Croce, ho continuato con Goethe, poi con Nietzsche e Schopenhauer, su cui ho lavorato di più; poi ancora ho aggiunto Giordano Bruno.


-Hai ancora dei sogni?
Veder pubblicati i libri già sotto contratto e ripubblicato qualcun altro.

Quali sono stati i grandi incontri della tua vita e perché?
Umanamente, soprattutto Marco Lanterna e Giuseppe Girgenti, due persone più miracolose che straordinarie, oltre che due eccellenti scrittori.

Roger Scruton superata la soglia dei settant’anni ha detto di aver compreso che il vero senso della vita è la gratitudine. A pochi anni dalla soglia dei 90 anni che cosa hai imparato e quale è il senso della vita umana per te?
Il senso della vita delluomo è la lotta per affermarsi e sopravvivere e per ricambiare il bene ricevuto dalla vita e dagli uomini del passato. La nostra origine è divina, ma siamo immersi nella vicissitudine delle condizioni di esistenza, fin troppo spesso infernali.

Quale è l’opera che hai scritto in cui ti rispecchi e perché?
Ritengo i Grandi problemi risolti in piccoli spazi (Bompiani 2017) il mio miglior libro di filosofia, perché vi ho risolto problemi millenari in tre, quattro o cinque pagine. Il mio pezzo migliore è lultimo, quello su Gesù Cristo. Dimostra come un uomo può diventare Gesù Cristocon un percorso laico.

In Senecione hai stroncato duramente il filosofo Blaise Pascal. Perché questa stroncatura?
Lo spiego in un libro che spero esca questanno. In unepoca in cui si lottava contro la religione e infierivano le guerre di religione, si è ributtato, per lincapacità di sopportare il mondo senza un Dio personale, cioè per viltà, nella religione invece di combatterla, come facevano, a rischio della vita e del carcere, migliaia di cosiddetti eretici.

La visibilità quanto può essere pericolosa per un filosofo?
Dipende dal filosofo,dalla sua filosofia, dall’epoca e dalle circostanze.

-Hai in programma nuove opere?
Due libri nuovi, uno su Schopenhauer e uno su Pascal, e delle ripubblicazioni.

Che opinione hai della scena politica attuale?
Più o meno disastrosa. Ma non voglio perdere la speranza.Ci sono forze positive in atto. Speriamo tutti.