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MAGNANI: “CAVALCARE L’ONDA DEL CAMBIAMENTO È L’UNICO MODO PER NON ESSERNE TRAVOLTI”

MAGNANI: “CAVALCARE L’ONDA DEL CAMBIAMENTO È L’UNICO MODO PER NON ESSERNE TRAVOLTI”

Di Francesco Subiaco

Dai conflitti internazionali all’avvento del digitale, dall’obsolescenza professionale portata dall’AI alla costruzione di estese catene globali del valore. In ogni sua manifestazione il cambiamento ha ridefinito le regole, le convinzioni e le sovrastrutture della contemporaneità in maniera radicale e ravvicinata. Un cambiamento che si è caratterizzato come dirompente e continuo che ha ridefinito in maniera radicale e permanente il tessuto economico e il contesto sociale, come mai è stato possibile nel passato. Di fronte al cambiamento continuo, tsunami minaccioso e pronto a travolgerci, subirne senza reazione gli effetti equivale ad esserne travolti. È necessario quindi conoscerne le caratteristiche ed imparare ad affrontarne le possibilità ed opportunità al fine di cavalcare “l’onda perfetta”, seguendo come bussola due concetti: “learn” and “adapt”, imparare ed adattarsi. Una tesi che è alla base dell’ultimo libro del Professor Marco Magnani, “L’Onda Perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti” (IlSole24Ore Editore, 2022) con cui l’autore indaga le metamorfosi del presente con uno sguardo attento su come trasformare le sfide del presente di opportunità per l’avvenire.

Un libro che come il precedente “Fatti non foste a viver come robot. Crescita, lavoro, sostenibilità: sopravvivere alla rivoluzione tecnologica (e alla pandemia)”(Utet, 2020) indaga le contraddizioni, i cambiamenti, le mutazioni che caratterizzano l’innominabile attuale sia sul piano economico sia sul piano etico e culturale. Dalla robotica all’emergenza, dalle sfide della transizione digitale alle necessità di un ripensamento delle regole del welfare capaci di tenere il passo con i cambiamenti dell’infosfera. Opere che non vogliono solo descrivere le sfide del futuro, ma rivelarne i meccanismi profondi che ne causeranno il destino. Per approfondire queste tematiche abbiamo intervistato il Professor Magnani, economista e docente di International Economics presso Luiss Guido Carli a Roma e presso Università Cattolica a Milano, oltre che Senior Research Fellow presso Harvard Kennedy School.

L’Onda Perfetta
Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti
IlSole24Ore Editore, 2022



Come nasce “L’ onda perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti”?
Il mio libro nasce dalla constatazione che oggi viviamo in un’epoca che ha un livello ed una rapidità di cambiamenti che non ha precedenti nel corso della storia. Un cambiamento continuo che si compone di mutamenti di diversa tipologia, ma che si presentano soprattutto come “cambiamenti dirompenti“, nell’accezione che a questo termine diede il grande economista Joseph Schumpeter. Una tipologia di stravolgimenti che dal punto di vista economico, sociale ed individuale con la loro manifestazione obbligano a ripensare completamente il modo di produrre, consumare, lavorare. Se pensiamo, infatti, agli ultimi anni, e guardiamo lo scenario economico e geopolitico, si sono susseguiti rapidamente, in un lasso di tempo molto breve, una sequenza di “disruptive changes”. Dall’11 settembre alla crisi finanziaria negli USA del 2008, passando per quella del debito sovrano in Europa del 2015, a cui si sono aggiunti poi la pandemia e la guerra in Ucraina, il cambiamento ha ridefinito il mondo degli ultimi anni in una maniera che mai era stata pensata prima. Nell’epoca caratterizzata da una delle maggiori intensità di cambiamento nel corso della storia, imparare a gestirlo è una questione di sopravvivenza. Cavalcare l’onda è l’unico modo per non esserne travolti.

Quanto la necessità di adattamento ai cambiamenti tecnici ha modificato il modo di concepire le imprese e il loro ruolo nel contesto sociale?
Naturalmente l’innovazione tecnologica da sempre cambia e ridefinisce il business model, il rapporto con i dipendenti, con i clienti e con il mercato conformandosi come una delle principali variabili del cambiamento. Di fronte all’innovazione tecnologica i business model subiscono radicali cambiamenti, come abbiamo visto per esempio con l’economia digitale. L’innovazione tecnologica produce sia delle criticità, sia delle nuove opportunità. Generalmente aumentano la produttività, trasformano i luoghi di lavoro, modificano la sensibilità dei consumatori così come il ruolo dell’impresa nel contesto sociale. Una mutazione che investe tutta la supply chain, dalla produzione al marketing, causando cambiamenti profondi in tutto il sistema economico.


Come la retorica del cambiamento è diventata uno strumento ideologico propagandistico e che conseguenze ha avuto nella politica moderna?
I politici sono maestri nell’utilizzare la retorica e il mito del cambiamento come strumento di propaganda politico, a volte per fare paura e per poi rassicurare guadagnando consenso elettorale, oppure per dare speranza e guidare lo sviluppo, riuscendo ad aggregare le forze sociali ottenendo legittimazione da parte della società. “Cambiamento” è una parola che il mondo politico padroneggia con grande abilità, ma non sempre ne sa controllare le potenzialità, infatti gli stessi politici non sempre sono bravi a gestire il cambiamento ed a volte ne sono travolti.

Le due crisi della pandemia e della guerra in Ucraina hanno ridefinito i confini della “catena globale del valore”?
Abbiamo capito che le catene globali del valore sono profondamente fragili e che quindi la stessa globalizzazione è vulnerabile. Dopo 30 anni di continua espansione, con tantissimi benefici, la globalizzazione ha mostrato limiti profondi e pericolose distorsioni. Le catene globali del valore si sono rivelate spesso troppo lunghe, vulnerabili e lontane dai mercati di sbocco. A fronte di shock esterni quali la pandemie e la guerra, hanno mostrato la loro intrinseca fragilità. Ora la tendenza è quella di accorciarle. La Apple, ad esempio, per produrre un iPad realizza componenti in più di 40 paesi diversi, al fine di massimizzare l’efficienza. Nel mondo globalizzato in cui non ci sono barriere tariffarie, problemi internazionali, guerre e pandemie, si può attingere a fornitori di paesi diversi e lontani e massimizzare l’efficienza, minimizzando i costi e ampliando i margini di profitto delle imprese coinvolte in tali cicli produttivi. Ma nel momento in cui sorgono delle emergenze (una pandemia, una guerra o una catastrofe naturale), questa catena così lunga ed efficiente va in frantumi. Ci siamo concentrati in questi anni a massimizzare l’efficienza rinunciando alla resilienza, ovvero alla capacità di reagire con successo agli shock esterni. Adesso il trend è esattamente l’opposto, si accorciano le catene del valore minimizzando l’efficienza al fine di valorizzare la resilienza.

Come possono le piccole e medie imprese affrontare i cambiamenti dirompenti senza esserne travolte?
Lo potranno fare se seguiranno queste due indicazioni di fondo, (che sono descritte anche nella quarta di copertina del mio libro): learn e adapt, imparare ed adattarsi.
Se le piccole e medie imprese punteranno su questo binomio non solo potranno sopravvivere ai cambiamenti prodotti dallo sviluppo tecnico, ma riusciranno, anche, ad avere un vantaggio competitivo rispetto alle grandi imprese dominanti nel mercato.
Infatti, la maggiore flessibilità, combinata con la minore complessità organizzativa e burocratica, permetterà alle piccole imprese di adattarsi meglio e più velocemente rispetto alle grandi strutture complesse e rigide delle grandi corporates. Le piccole e medie imprese se seguiranno il learn e adapt, riusciranno a governare il cambiamento e a non esserne travolte.

Lo sviluppo ipertrofico di “infomi”, come smartphone ad esempio, in che modo ha cambiato l’ossatura della nostra società?
Se analizziamo gli sviluppi del metaverso nei campi dell’intrattenimento e dei giochi possiamo dire che ci troviamo già in un mondo immersivo, cioè capace di fondere mondo virtuale e fisico. La cui applicazione produrrà un mutamento totale nei diversi ambiti economici. Ciò mi fa ripensare ad un libro di Vittorino Andreoli: “Il cervello in tasca”. Un testo dove si affronta il grande rischio che all’aumentare dei mezzi tecnici ci sia una tendenza a delegare le nostre capacità di approfondimento, calcolo e analisi ai mezzi tecnici impoverendoci drasticamente. Producendo il rischio di vivere in un mondo sdoppiato, tra reale e virtuale, che non ci metterebbe più nella condizione di riuscire a cogliere le differenze tra i due.

Perché mai oggi gestire il cambiamento è ancora più complesso?
Il cambiamento dirompente, c’è sempre stato nella storia dell’uomo. Oggi però ha tre caratteristiche differenti che ne causano la maggiore complessità rispetto al passato: è più frequente e ravvicinato a causa della moltiplicazione e combinazione delle sue conseguenze in tutti gli ambiti in cui esso si manifesta; il mondo di oggi è molto più interdipendente rispetto al passato, avendo come conseguenza che il cambiamento influenza tutte le parti in gioco; anche se non si è influenzati direttamente dal cambiamento, ne siamo comunque a conoscenza (pensiamo al disastro di Fukushima), e questo genera un senso di ansia diffuso. Per questo sia a livello politico che a livello manageriale oggi è molto più difficile governare e confrontarsi con il cambiamento.

Oggi il digitale e la specializzazione tecnica prefigurano l’alba di una nuova ridefinizione del concetto elaborato da John K. Galbraith di tecnostruttura?
Così come negli anni ‘50-‘60 i grandi gruppi industriali e commerciali avevano un grande potere, attraverso le lobby, i media di massa e il mercato con capacità di influenza e condizionamento pari a quelle degli stati, oggi il peso delle big tech è ancora più rilevante nella società globale rispetto al passato. Dalla AI alla robotica fino alle tecnologie di ultima generazione, (caratterizzate dal forte impiego di capitali), c’è un forte squilibrio nei processi produttivi tra il peso della forza lavoro e quello del capitale.

Lei per esempio in alcuni suoi saggi parla di una ristrutturazione della piramide del lavoro. Cosa intende?
Oggi la piramide del lavoro è caratterizzata da un forte divario tra l’oligarchia tecnologica, composta da pochi operatori altamente specializzati e remunerati all’apice della piramide, contro una base composta da “in-person servers” (servitori personali), cioè coloro che svolgono mestieri al servizio dell’oligarchia tecnologica (per esempio rider, giardinieri, camerieri, etc.). Tra questi due estremi esiste un gap molto profondo, causato dalle conseguenze sia della sostituzione tecnologica sia dalla crisi della classe media di fronte al cambiamento.

Fatti non foste a viver come robot
Crescita, lavoro, sostenibilità: sopravvivere alla rivoluzione tecnologica (e alla pandemia)
Utet, 2020


E invece riguardo al tema della tecnostruttura, ovvero di una classe burocratico organizzativa che rappresenta il vero centro della corporate, pensa sia ancora attuale?
Galbraith diceva che per le grandi aziende del sistema industriale il vero obiettivo non erano più i profitti bensì la sopravvivenza e l’espansione. Una riflessione che è più che mai valida rispetto alle big tech, in cui la logica priorità è quella dell’espansione e della maggiore diffusione.

-Siamo passati da una tecnostruttura industriale ad una tecnostruttura high tech?
Si perché da una parte c’è la necessità di avere sia grandi capacità organizzative e tecniche, caratterizzate da un maggiore primato tecnico dovuto ad una tecnostruttura di esperti, sia a grandi disponibilità di capitali e mezzi capaci di investire nell’innovazione.

Rispetto al testo di Galbraith in cui c’era un maggior peso della componente della forza lavoro, dai quadri agli operai, ora c’è invece un primato del capitale?
C’è uno sbilanciamento rispetto al capitale che è dovuto dall’orientamento all’innovazione di mezzi tecnici. L’automazione delle produzioni porta a premiare gli investimenti del capitale e a ridurre la parte di ricchezza prodotta che viene destinata al lavoro. Ma il lavoro è stato negli ultimi due secoli il maggiore strumento di redistribuzione della ricchezza prodotta.

Come si può sopperire a questa seconda emergenza?
Una proposta potrebbe essere il reddito universale, ma la storia ci insegna quanto sia dannoso ed inefficiente un tale provvedimento. Ciò non toglie che lo sviluppo di nuove tecnologie e di frontiere come l’e-commerce portano ad una “disintermediazione” del mercato, la cui conseguenza è la distruzione di categorie come commercianti, prestatori di servizi e impiegati a favore dei mercati digitali dove la componente lavorativa si concentra o sull’oligarchia tecnica o sui servitori personali. Un problema politico che non va sottovalutato. Facciamo un esempio. Un tempo una banca aveva molte figure, il cassiere, l’impiegato, il direttore di filiale che componevano la classe media. Oggi negli Usa, ad esempio, non esistono più grandi filiali in tutte le città, ma punti di distribuzione Atm, quindi mezzi tecnici, in cui ci sono degli operatori che non svolgono un ruolo da quadro o da intermediario, ma servono solo come punto di collegamento col servizio clienti e con i tecnici. Soggetti che in sostanza svolgono un lavoro non qualificato e con pagamenti molto bassi, da servitori personali appunto, il cui ruolo è relegato alla mera assistenza. Non esistono più i corpi intermedi come erano nel testo di Galbraith, ma solo la polarizzazione tra queste due classi sociali tra loro molto sbilanciate.

Nel suo libro “Fatti non foste a viver come robot” (Utet) propone in alternativa a modelli come il reddito di cittadinanza un sistema di “pre-distribuzione” in alternativa alla redistribuzione. Cosa intende?
La transizione digitale genera una ricchezza che investe e riguarda la collettività intera. Tale ricchezza, a mio avviso, non va però erogata come assegno o sussidio ma va pensata in un’ottica di “pre-distribuzione“. La proposta che esprimevo nel mio libro era, in estrema sintesi, l’istituzione di un fondo del 1% di tutte le società nel digitale, che dava delle quote ad ogni bambino nato un investimento di base dovuto ad una condivisione dell’allargamento “della torta” tramite dei fondi di investimento sull’istruzione in vista di una formazione maggiore. L’ipotesi formulata nel mio libro è che per rispondere alle sfide della transizione digitale sia necessaria la combinazione di tre misure che mirano non a distribuire, bensì a pre-distribuire i mezzi necessari per generare ricchezza. Ognuna di queste tre misure è pensata per sostenere il cittadino in una diversa fase della sua vita: istruzione di base e gratuita (per la scuola), prestito universale (per formazione universitaria o professionale) e capitale di dotazione (per il periodo lavorativo e della pensione). Un’idea che propone un’evoluzione del welfare, da una definizione dei bisogni in cui diritti sociali standardizzati sono sostituiti da diritti ritagliati sui bisogni effettivi delle persone, capace di tenere il passo con la transizione tecnologica.

De Masi: “La questione sociale sarà il vero tema della transizione digitale”

De Masi: “La questione sociale sarà il vero tema della transizione digitale”

Di Francesco Subiaco

La transizione digitale e l’innovazione tecnica pongono il cittadino del mondo post industriale di fronte ad una sfida critica: la gestione del cambiamento e la pianificazione del futuro del lavoro. Nel mondo post-industriale, infatti, all’interno dei processi produttivi prendono sempre più spazio la sostituzione del capitale rispetto alla forza lavoro, la disintermediazione e la conseguente crisi della classe media e l’accentramento della ricchezza, del potere, del sapere nelle mani di ristrette oligarchie finanziarie. Eventi la cui conseguenza sono l’obsolescenza professionale della classe media, l’emergenza della ricollocazione delle forze produttive e l’aumento delle disuguaglianze che pongono un tema prioritario: la necessità di una nuova questione sociale e il ruolo dello stato nella transizione digitale. Per approfondire questi temi abbiamo intervistato il sociologo Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro all’Università «La Sapienza» di Roma dove è stato preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione. Svolge attività di consulenza per organizzazioni pubbliche e private. Conferenziere internazionale e saggista, è autore di numerose pubblicazioni riguardanti soprattutto la società postindustriale, la sociologia del lavoro e la creatività. Che recentemente ha pubblicato “Il lavoro nel XXI secolo” (2018) e “La felicità negata” (2022), entrambi per Einaudi.


Professor De Masi, come la transizione digitale sta ristrutturando e mutando la conformazione del mercato del lavoro?

Negli ultimi secoli abbiamo assistito a quattro ondate tecnologiche: il telaio meccanico ad inizio Ottocento; le macchine elettromeccaniche, nel Novecento; la nascita dei computer e l’avvento del digitale, nella seconda metà del Novecento; lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, negli ultimi anni. L’affermazione di queste ondate tecnologiche ha modificato il mercato del lavoro, prima sostituendo gli operai comuni con i mezzi meccanici, poi gli operai specializzati con le macchine elettromeccaniche, successivamente i quadri ed i dirigenti con lo sviluppo del digitale e infine una parte dei lavori creativi con l’arrivo dell’Intelligenza Artificiale. Ognuna di queste ondate tecnologiche ha modificato il mercato del lavoro in due sensi: ha ridotto il fabbisogno di fattore umano e di forza lavoro; ha spostato percentuali crescenti di lavoratori nel settore del lavoro creativo (laboratori scientifici, atelier artistici, ecc.) o in quello dei lavori di tipo affettivo (badanti, ecc.). Una mutazione che ha ridefinito la piramide del lavoro al cui apice ora sono presenti i lavori creativi e alla base quelli affettivi. 


Che impatto sociale avrà a suo dire il passaggio della centralità nei processi produttivi dalla forza lavoro e dai quadri dirigenti al capitale, come fonte di finanziamento della AI e della robotica?

Renderà sempre meno necessaria la componente umana a vantaggio della componente meccanica e informatica. Producendo un accentramento del potere (concentrato nelle mani di chi detiene la proprietà dei mezzi tecnici) e della ricchezza (concentrato nelle mani di chi detiene i capitali). In questo contesto assume un peso fondamentale, rispetto al fattore e al tempo di lavoro, la dimensione del tempo libero e di come si impiega la propria esistenza al di fuori del mercato del lavoro.


Lo sviluppo della globalizzazione e delle nuove tecnologie sta ridefinendo la piramide sociale cannibalizzando la classe media, ampliando il divario tra “servitori personali” e oligarchia creativa-tecnica?

La classe media sarà sempre più prosciugata dal processo di disintermediazione. Il crescente divario tra una élite creativa in cima alla piramide sociale e, alla base, i lavoratori non professionalizzati e con bassi stipendi, utilizzati nel settore affettivo, porterà a una evaporazione della classe media. Di fronte poi alla destrutturazione del luogo di lavoro prodotto da fenomeni come lo smart working, anche figure come capi dipartimento, capi ufficio e sovrintendenti organizzativi vedranno scomparire via via il loro impiego e il loro peso. Scompaiono quindi tutte quelle figure che hanno rappresentato l’essenza della classe media e che fondavano la loro azione sull’intermediazione e sull’organizzazione del lavoro. In sintesi, la disintermediazione ha prosciugato la classe media, creando un problema di ricollocamento di numerosi lavoratori che non trovano più impiego nel loro tradizionale settore di appartenenza e la cui condizione provoca un problema sociale difficilmente risolubile.


Oggi le motivazioni sociali e quelle del sistema industriale e digitale sono tra loro in idiosincrasia, è necessario secondo lei rilanciare il tema della questione sociale?

È un tema fondamentale. La questione sociale e il tema del welfare diventeranno delle cruciali di fronte ai cambiamenti della transizione digitale. Perché la vera sfida della questione sociale è quella redistributiva. Bisogna ridistribuire la ricchezza, il sapere, il potere, le opportunità e le tutele, mentre la tendenza è accentratrice e renderà necessario un enorme lavoro politico. La nostra società capitalistica ha la capacità straordinaria di produrre valore e ricchezza (concentrata nelle mani di poche persone), ma non ha la capacità di redistribuirli. Su tale questione è necessario concentrare le sfide del futuro.

 
L’avanzamento della disintermediazione e della precarizzazione rende necessarie misure come il reddito universale? 

Sono strumenti innovativi e fondamentali per affrontare la transizione digitale. Nel contesto che ho delineato, passeremo da un reddito di cittadinanza a un reddito universale. Saremo costretti (finalmente costretti) a un impiego intensivo e invasivo del welfare, attraverso tassazioni sempre più progressive ed un ruolo più attivo dello Stato al fine di destinare gli investimenti verso la soddisfazione dei bisogni collettivi. Una necessità che diventerà urgente di fronte a un numero decrescente di persone che disporrà di un reddito lavorativo, poiché – come ho detto – la produzione richiederà un impiego decrescente di energia umana. Una condizione che farà venire meno la leva distributiva del lavoro come è stato finora (“tanto più lavori, tanto più guadagni”) facendo corrispondere il guadagno e il reddito non più a questo criterio ma ai criteri redistributivi del welfare, legati non all’impiego ma alla cittadinanza. Soprattutto perché è venuta meno la centralità del lavoro nella vita dell’uomo, facendo diventare il tempo libero un problema centrale e fondamentale. L’identità dell’individuo non è più definita solo in base al lavoro ma anche in base alla quantità e alla qualità del tempo libero a disposizione.


Quale è la sfida più sottovalutata della transizione tecnologica?

Quella di cui abbiamo parlato finora: la redistribuzione e la questione sociale. Perché oggi la maggior parte del valore prodotto è creato da macchine la cui proprietà e le cui risorse sono nelle mani di un numero esiguo di persone: oggi gli otto personaggi più ricchi del mondo detengono una ricchezza pari a quella detenuta dai 4 miliardi di persone più povere. Da qui la necessità della redistribuzione in tutti i suoi ambiti per affrontare il presente e le sfide del futuro. Purtroppo, però, il capitalismo è capace di produrre ma non è capace di distribuire.