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Onore a Lino Capolicchio, artista libero in un cinema di burattini

– Tommaso De Brabant

La prima scelta di Dario Argento per il ruolo del pianista e, suo malgrado, investigatore protagonista di “Profondo Rosso”, girato nell’autunno del 1974 e diffuso nei cinema l’anno seguente, era Lino Capolicchio; l’attore alto-atesino però, uno dei più richiesti del momento, si era infortunato a causa di un incidente in auto. Cavallerescamente, il regista romano propose di rinviare le riprese in attesa della guarigione di Capolicchio; il quale però, generosamente, insistette perché il film cominciasse senza di lui. “Profondo rosso”, pur maltrattato dalla critica, si impose come “cult”; Capolicchio però non ebbe però troppo tempo per rimpiangerlo, dato che nella primavera del 1976 girò un’altra pietra miliare dell’orrore: “La casa dalle finestre che ridono”, la cui uscita agostana salvò Pupi Avati (il quale, mentre Argento girava “Profondo Rosso”, sceneggiava per Pier Paolo Pasolini “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, e per Lucio Fulci “Il cav. Costante Nicosia demoniaco, ovvero Dracula in Brianza”) dai guai che si era recentissimamente procurato con “Bordella”, un musical grottesco che gli attirò le ire della censura (e di Al Lettieri, noto al grande pubblico come il vile Virgil Sollozzo di “Il padrino”, che provò a uccidere il regista bolognese perché infastidito dallo spazio lasciato alle improvvisazioni di Gigi Proietti). Con un sofismo si potrebbe notare che, come “Profondo rosso”, il film di Avati non è propriamente un horror, ma un thriller: non vi è alcun intervento sovrannaturale (eccezion fatta forse per la seduta medianica fatale alla sensitiva Ulmann), le efferatezze sono interamente affidate a dei “serial killer”; eppure, l’opus magnum di Argento e “La casa dalle finestre che ridono” restano dei superclassici del cinema dell’orrore, grazie alle loro trovate spaventose e a un finale ad effetto. Se “Profondo rosso” scade facilmente nella macelleria compiaciuta e nel raccapriccio fine a se stesso (come tutta la filmografia di Argento), “La casa dalle finestre che ridono” (scritto dal regista assieme al fratello Antonio e a Maurizio Costanzo) che pure è tutt’altro che un film raffinato, non offre soltanto sequenze da Grand Guignol, ma è anche l’esplorazione d’un mondo a sé: quel Gotico Padano che di Pupi Avati è creazione esclusiva. Il regista-sceneggiatore-produttore emiliano sceglierà, nel 1983, uno degli attori di “Profondo rosso” (Gabriele Lavia, nel ruolo di Carlo, amico fragile del protagonista Marc) quale protagonista d’un altro dei suoi film migliori, “Zeder” (storia di zombie con spettacolare finale a Milano Marittima, di gran successo negli USA): tuttora il film di maggior successo di cui l’attore milanese (assai più attivo a teatro) sia stato protagonista, nonché la sua sola collaborazione con Avati. Lavia è stato uno dei pochi attori a recitare più volte per Argento (che, a parte la figlia Asia, non ha sviluppato sodalizi con “attori feticcio”): dopo “Profondo rosso”, si sono ritrovati per “Inferno” (1980, fascinoso ma pasticciato secondo episodio della trilogia delle Madri inaugurata da “Suspiria”) e “Non ho sonno” (2001, scialbo remake di “Profondo rosso”). Diversamente dal collega romano, Pupi Avati ha cresciuto, fin dai suoi primi film, una sua compagnia di attori: Lavia non si è trattenuto, Capolicchio sì. Tra il ’75 e il ’76, travolto dallo scandalo di “Bordella” (il film fu sequestrato per nove mesi, precludendo al regista – già sposato e padre di tre figli – qualsiasi guadagno dal suo lavoro), Pupi Avati decise di trarre un film da una delle storie dell’orrore che la madre raccontava a lui e al fratello Antonio ancora da bambini tra il ’75 e il ’76. Oltre al film dello scandalo e alle sceneggiature per Pasolini e Fulci, Avati aveva all’attivo i primi due film del Gotico Padano (“Balsamus l’uomo di Satana”, presentato a Bologna come un kolossal, e “Thomas e gli indemoniati”) e un film grottesco con Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio e Lucio Dalla, “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”: film nei quali i cultori possono cercare i primi volti ricorrenti del cinema avatiano (Pina Borione, Ines Ciaschetti, Bob Tonelli, Giulio Pizzirani, Pietro Brambilla). Per quanto fosse ambizioso, pur avendo da poco potuto dirigere due attori già celeberrimi (Tognazzi – che tornerà con Avati in “Ultimo minuto” – e Villaggio) e credendo fortemente nel nuovo film, Avati sapeva di non potersi permettere guai anche più lievi di “Bordella”: quasi quarantenne, con una famiglia da crescere, aveva già accantonato la carriera da clarinettista jazz e un impiego (soffertissimo) alla Findus. Ingaggiato il grande amico d’una vita, il concittadino Gianni Cavina, presente in tutti i film avatiani precedenti e in gran parte di quelli che seguiranno (e che negli anni ’90 ritroverà popolarità con gli spot televisivi, con dispetto di Avati, della Findus), oltre a Eugene Walter (uno scrittore trasferitosi dall’Alabama a Parigi e poi a Roma, dove Fellini lo farà recitare in “8 e ½”, il film la cui visione farà decidere ad Avati di diventare regista), i fratelli Avati provarono il colpaccio: contattare uno degli attori più famosi del momento, Lino Capolicchio. Il divo di Merano, attirato dalla speranza di compensare la rinuncia a “Profondo rosso”, lasciò alla moglie la sceneggiatura: stava partendo per una trasferta di lavoro, al ritorno le avrebbe chiesto un parere. La sventurata gli telefonò in albergo, rimproverandolo: come poteva lasciarla sola la notte, dopo averle fatto leggere una storia così terrificante? Di fronte a tale prova del grande potenziale di “La casa dalle finestre che ridono”, l’attore accettò, facendo intravedere ai fratelli Avati il concretizzarsi della loro riscossa: Capolicchio era un nome parecchio pesante da scrivere sulla locandina d’un film. Tuttora ricordato come il classico horror di Avati, “La casa dalle finestre che ridono” fu presentato come il primo film dell’orrore interpretato da Capolicchio, accolto sul set con timore reverenziale: la sua esperienza surclassava quella di chiunque altro fosse impegnato con le riprese, sia per quantità che per qualità. Allievo di Strehler e D’Amico, aveva recitato Goldoni e Shakespeare al Piccolo di Milano e al cinema, dove aveva debuttato con Zeffirelli. Già al suo secondo film (“Escalation” di Roberto Faenza, 1968, dove è un hippy che si innamora della sua psicoterapeuta – Claudine Auger, la magnifica Bond-girl di “Thunderball” – per poi rivelarsi più spregiudicato del padre industriale) fu promosso a protagonista; si imporrà quindi come figura di spicco del cinema della contestazione, da “Vergogna, schifosi” di Mauro Severino all’ultimo film di Giuseppe De Santis (già regista di “Riso amaro”), “Un apprezzato professionista di sicuro avvenire”, passando per alcuni dei film più importanti dell’epoca: “Metti, una sera a cena” (1969, adattamento cinematografico di Giuseppe Patroni Griffi dal suo stesso dramma per il teatro), dove è uno studente gigolò coinvolto negli scambi erotici fra la Bolkan, Trintignant e Musante; “Mussolini, ultimo atto” (Carlo Lizzani, 1974: con Rod Steiger nel ruolo del Duce, Lisa Gastoni nella parte della Petacci, Franco Nero in quella di Walter Audisio ed Henry Fonda in quella del cardinale Schuster: una delle scelte più assurde della storia del cinema), dove è Pier Luigi Bellini delle Stelle, il partigiano aristocratico e comunista che avrebbe preferito consegnare vivo Mussolini agli angloamericani; ma fu “Il giardino dei Finzi Contini” (Vittorio De Sica, 1970, dal romanzo di Giorgio Bassani – che ebbe col regista disaccordi riguardo la sceneggiatura, tanto gravi che lo scrittore chiese di non essere menzionato nei titoli – di otto anni prima) a rendere Capolicchio (che interpreta Giorgio, il laureando ebreo che a Ferrara, tra le leggi razziali e la guerra incombente, è innamorato non corrisposto di Micol – Dominique Sanda, che gli preferisce Giampiero – Fabio Testi) una star internazionale: il fotogramma di Giorgio-Capolicchio in bicicletta accanto a Micol-Sanda è tuttora l’immagine più celebre della gloriosissima tradizione del cinema ferrarese. Scaraventato di fronte all’attenzione del cinema mondiale, Capolicchio divenne ritroso: rifiutò la proposta, danarosissima, di diventare il volto delle pubblicità per la Coca-Cola (dopo aver scoperto quanti soldi aveva rifiutato, la madre rimase in stato catatonico per diverse ore) e si rifugiò nell’insegnamento dell’arte recitativa, oltre che in una fitta attività da attore e regista a teatro. L’incontro con Avati fu la salvezza per entrambi: avere per protagonista uno dei divi più adorati dell’epoca garantì a “La casa dalle finestre che ridono” un degno successo, rilanciando la carriera del regista; e l’incontro con Pupi (pur di soli cinque anni più anziano) offrì a Capolicchio una nuova figura paterna (negli ultimi anni di vita l’attore ha più volte esternato il dolore provocatogli dall’inimicizia col padre) e un regista di riferimento. Pur non onnipresente come Gianni Cavina, Capolicchio parteciperà a buona parte dei film di Avati: il sottovalutatissimo “Le strelle nel fosso” (1979), “Noi tre” (1984) dove è Leopold Mozart, padre di Wolfgang Amadeus in un loro passaggio italiano, “Ultimo minuto” (1987) dove è il neo-presidente che prova a esautorare Walter-Ugo Tognazzi, maniacale direttore sportivo d’una squadra di calcio ispirata al Lanerossi Vicenza; poi “Fratelli e sorelle” (1992), “Una sconfinata giovinezza” (2010), sino a “Il signor Diavolo” (2019), il grande ritorno del Gotico Padano, dove è don Dario, il parroco tisico connivente col culto satanico di cui è gran sacerdote Gino, il suo sagrestano fanatico, interpretato da Cavina. Un ritorno alle atmosfere, alle inquietudini, ai misteri di “La casa dalle finestre che ridono”: e quanto fosse stato armonioso e felice l’incontro tra Avati e Capolicchio è testimoniato dagli sceneggiati televisivi che i due girarono tra “La casa dalle finestre che ridono” e “Le strelle nel fosso”: “Cinema!!!” e soprattutto l’adorabile “Jazz Band”, dove Capolicchio impersona l’alter ego dello stesso Pupi Avati, ritraendone sogni, passioni, progetti e ambizioni. Ho incontrato il cinema di Avati nell’agosto del 2019, proprio con l’ultimo suo film interpretato da Capolicchio, “Il signor Diavolo”, rimanendone conquistato. Fu grazie a un mio articolo su quel film meraviglioso, che incontrai Avati stesso a settembre, per un’intervista (portai, per farlo firmare, il libro scritto da Andrea Maioli sul cinema di Pupi, con in copertina proprio Capolicchio che, nel ruolo dell’esperto d’arte Stefano, studia il terrificante affresco del martirio di San Sebastiano dipinto dal “pittore d’agonie”, Buono Legnani). Ho poi partecipato da comparsa e cronista, tra l’agosto e il settembre del 2020, a un altro recentissimo film di Pupi, “Lei mi parla ancora”, ambientato in quella Ferrara nella quale, tra negozi di libri e dischi usati, è frequente vedere l’immagine di Capolicchio in bici con la Sanda in “Il giardino dei Finzi Contini”: eppure, “Lei mi parla ancora” è uno dei pochissimi film di Pupi nel quale non compaiano né Capolicchio né Cavina. Durante le riprese mi recai in pellegrinaggio da Comacchio a Minerbio: dalla “villa delle sorelle Legnani” alla chiesa di San Giovanni in Triario, due dei luoghi di sventura di Stefano-Capolicchio, capostipite dei personaggi avatiani che pur sapendo che si stanno cacciando nei guai sono tanti curiosi da dannarsi. Ho comunque incontrato dal vivo Capolicchio nel febbraio 2020, pochi giorni prima delle chiusure dovute al Covid (ma se ne parlava già: un tale si presentò all’evento con una mascherina elaboratissima): era ospite della cineteca di Milano, per presentare “La casa dalle finestre che ridono” e il suo libro autobiografico, “D’amore non si muore”. Era un uomo bellissimo: tanto esile da sembrare fragilissimo, gentilissimo, con un sorriso meraviglioso. Comprai il libro per farglielo firmare, quando si trattò di scriverci la dedica restò sorpreso, come Pupi pochi mesi prima, dal constatare che sono omonimo dei loro figli. Il capriccio delle circostanze fece sì che in sala finissi in prima fila, per non separare una coppia dove invece sarei dovuto stare: potei così assistere da vicino a una bella intervista, durante la quale Capolicchio raccontò cosa fosse fare cinema negli anni Settanta, un periodo tanto controverso, tragico eppure entusiasmante. Sapeva che “La casa dalle finestre che ridono” è un importante tassello di storia (del cinema, italiana, locale, del folklore…), e trasmetteva la felicità di averne partecipato. “La casa dalle finestre che ridono” era già uno dei miei film preferiti, aver assistito a quella proiezione me lo rese tanto più caro, e questo spiega il mio viaggio sui luoghi delle sue riprese. Lino Capolicchio non era soltanto un volto sullo schermo: era un attore completo, un grande uomo di cultura (prima che di spettacolo). Era coltissimo (il suo incontro con Pupi Avati è stato propiziato anche dai loro interessi librari), sceglieva i film da interpretare anteponendo ciò che potevano trasmettergli al ritorno che ne avrebbe avuto in termini di notorietà; fu, colpevolmente, emarginato da un cinema italiano che, terminate le follie degli anni ’70, si sarebbe poi rinchiuso nella mediocrità dei film da salotto pariolino. Bel volto del Sessantotto, quando scoprì che gli era stata apposta questa etichetta la rifiutò, assieme alla convenienza di mettersi una divisa e, come il suo regista preferito, rimase libero: messo all’angolo, ma libero. Lode a te, Lino Capolicchio, artista intelligente e libero in un cinema di burattini. Mancavi già, mancherai sempre più.

Antonio Mocciola e la sindrome di “Stoccolma” come analisi dell’uomo


Antonio Mocciola è un autore teatrale-cinematografico in continua ricerca verso una libertà espressiva che possa far emergere punti di domanda agli spettatori delle sue opere. In veste di scrittore ha  pubblicato sette libri e ha scritto ben venticinque commedie. Inoltre lavora per il cinema e per la televisione. Ha curato le edizioni di alcuni lavori dedicati alla cantante Giuni Russo e ha collaborato con Franco Battiato.  Nel 2016 va in scena “La Cella Zero” scritto con Pietro Ioia, tratto dal libro di quest’ultimo sull’esperienza della violenza del sistema carcerario. Nel 2020 ecco andare in scena “Santo Stefano” sulla vita dell’anarchico Gaetano Bresci. Il suo ultimo spettacolo “Stoccolma”, finalista al Premio Annoni 2021, è un forte che prende come pretesto la Sindrome di Stoccolma per affrontare gli abissi legati alle relazioni familiari e all’identità.  Il suo debutto, in anteprima per la stampa, si è tenuto domenica 10 ottobre al Teatro Avamposto di Napoli.

Adesso è in scena il tuo spettacolo dal titolo “Stoccolma”. Di cosa si tratta?

La sindrome di Stoccolma, a cui si riferisce il titolo, è l’innamoramento che può scattare da parte della vittima nei confronti del proprio carnefice. Mi intrigava ambientare lo spettacolo in una cantina, dove uno studente (Michele Capone) rapisce il proprio professore-aguzzino (Antonio De Rosa), con esiti inimmaginabili. La regia di Maria Verde e le musiche di Antonio Gillo hanno completato il quadro, e speriamo di portare in giro questo testo, finalista peraltro al Premio Annoni 2021 per la drammaturgia. A novembre tengo molto al debutto di Adolf prima di Hitler, con Vincenzo Coppola, Francesco Barra e la partecipazione di Gabriella Cerino, per la regia di Diego Sommaripa, in un teatro da noi napoletani assai amato, l’Elicantropo.

La tua è una visione artistica che cerca di scuotere gli animi, raccontando storie anche controverse e di forte impatto. Quanto hanno inciso gli enfant terrible su di te?

Amo tutti gli autori controversi, scomodi, spesso non capiti. Diffido della “popolarità”, o comunque mi sento meno partecipe quando c’è un prodotto amato da tanti. Da Gide a Sade, da Lautréamont a Gadda, mi affeziono a tutti coloro che osano, che rischiano. Mai essere innocui, mi diceva Battiato, la cui presenza manca tanto a tutti noi, nell’anno in cui, peraltro, abbiamo perso anche Piera Degli Esposti, per la quale scrissi il mio primo testo, nel 2007. Un anno davvero infausto.

Il teatro italiano è ancora vivo?

Il teatro si, gli autori anche, gli attori più che mai. Il pubblico non lo so. Il covid ha spaventato molti, e già il piatto “piangeva” prima. Spero che si capisca che le sale teatrali, e cinematografiche, sono i posti più sicuri del mondo, sia perché sono sanificati, sia perché non sono mai frequentatissimi. Manca però il coraggio delle produzioni, affezionate al guadagno immediato. Cosa davvero ironica, per il teatro…

Il tuo libro “Le belle addormentate” è legato ai sacri luoghi ormai in totale abbandono, quelli dell’Italia profonda. Quanto credi siano importanti le radici in un momento in cui la rimembranza verso gli avi pare essersi persa?Torneremo fatalmente alla terra, alle radici. Le città hanno raggiunto la saturazione, stravolte da un’urbanizzazione selvaggia e da un peggioramento deciso della vita nelle periferie. E’ anche vero che città come Milano, ad esempio, stanno vivendo una vera e propria golden age, a differenza di Napoli, Roma, e ahimè anche Torino. Abbiamo abbandonato l’Appennino a sé stesso, ad esempio. Eppure veniamo tutti da lì. Mi sembra un suicidio tattico: la montagna è una risorsa. Le belle addormentate, che pubblicai sei anni fa, è più che mai attuale. E infatti tuttora me lo chiedono.

Oltre la letteratura e il teatro, hai scritto anche per il cinema. Quali sono le principali differenze, in termini di scrittura, tra i due mondi?La sintesi che ti chiede il cinema, il peso dei silenzi, il valore delle immagini, la possibilità di lavorare sui volti, le sfumature, è eccitante per uno sceneggiatore. Devo ammettere di essere più nei miei panni quando vedo il respiro dell’attore in sala, ma se penso al successo di alcuni film che ho scritto, tipo Papà uccidi il mostro per Fabio Vasco, Ubbidire per Giuseppe Bucci o a La controra di Paolo Sideri, con i miei amati Lucianna De Falco e Giovanni Allocca, in rampa di lancio, non posso che amare anche la scrittura cinematografica. In fondo sono lo stesso ragazzo che scriveva bei temi al liceo classico. Cambia solo il vestito, e l’habitat. Nessuno può sfuggire alla propria natura.