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James Galbraith e l’attualità del “Nuovo stato industriale”

James Galbraith e l’attualità del “Nuovo stato industriale”

Di Francesco Subiaco


“Il nuovo stato industriale” di John Kenneth Galbraith è uno dei testi cardine del novecento americano. Esso infatti non svolse solo una lunga analisi e disamina delle forze e delle mutazioni prodotte dall’affermazione del sistema industriale, ma anche una lente chiara e limpida per comprendere l’evoluzione delle istituzioni sociali che hanno caratterizzato la società americana. Per riflettere sull’attualità di questo testo visionario del 1967 abbiamo intervistato il Professor James Galbraith, studioso, economista ed accademico, la cui visione progressista e istituzionalizza ha ripreso e interpretato le istanze della visione economica del New industrial state, partendo dal ruolo predatorio delle grandi corporate nell’economia americane, e la loro applicazione nel settore militare racchiusa nel saggio “The predator state”.
James K. Galbraith detiene la Lloyd M. Bentsen Jr. Chair in Government/Business Relations presso la Lyndon B. Johnson School of Public Affairs e una cattedra di Government presso l’Università del Texas ad Austin. È stato direttore esecutivo del Joint Economic Committee del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni ’80 e, prima ancora, economista per il House Banking Committee. Ha presieduto il consiglio degli economisti per la pace e la sicurezza dal 1996 al 2016 e dirige il progetto di disuguaglianza dell’Università del Texas . È caporedattore di Structural Change and Economic Dynamics .
Dal 1993 al 1997 Galbraith è stato consulente tecnico capo per la riforma macroeconomica della Commissione per la pianificazione statale della Repubblica popolare cinese. Nel 2010 è stato eletto all’Accademia Nazionale dei Lincei . Nel 2014 è stato co-vincitore del Leontief Prize for Advancing the Frontiers of Economics . Nel 2020 ha ricevuto il Veblen-Commons Award dell’Association for Evolutionary Economics. Ha conseguito lauree presso l’Università di Harvard (AB, magna cum laude), in economia presso l’Università di Yale (MA, M.Phil, Ph.D.) e onori accademici presso università in Ecuador, Francia e Federazione Russa . È un Marshall Scholar; membro a vita del Council on Foreign Relationse la Texas Philosophical Society.


Che ruolo ha avuto Il Nuovo Stato Industriale nel lavoro e nel pensiero di tuo padre?
Poiché la domanda si riferisce al titolo del libro di mio padre del 1967, l’ho interpretata come riferita specificamente a quel libro, e non come una domanda generale sul concetto di un nuovo stato industriale.
Il libro di mio padre del 1967 “The New Industrial State” è stato per molti versi il culmine del suo lavoro di economista teorico e dei suoi sforzi per portare l’intera disciplina dell’economia in contatto con il mondo così com’è – un mondo di grandi organizzazioni, di tecnologie complesse e di progettazione. Il suo lavoro immediatamente precedente, The Affluent Society, era in parte una rassegna ed una critica del pensiero economico classico, e in parte un ritratto del panorama sociale della ricchezza del dopoguerra e di un’economia non basata sulla scarsità fondamentale. Il “New Industrial State”, quindi, riguardava le corporazioni industriali, l’istituzione economica americana allora dominante, e i loro sforzi per modellare l’intero universo economico – dalla progettazione alla produzione, dalla finanza al marketing – secondo le loro specifiche.
Mio padre considerava il “Nuovo stato industriale” come la seconda parte di una trilogia, la terza era Economics and the Public Purpose, di cui dei tre libri, era lo sforzo dominante e il libro principale. All’epoca ebbe un formidabile impatto sul pubblico – nella lista dei bestseller del New York Times per oltre un anno – e generò la reazione più feroce tra gli economisti accademici. In seguito, il tempo di mio padre fu occupato dal movimento contro la guerra del Vietnam, dalle campagne politiche nel 1968 (McCarthy) e nel 1972 (McGovern), dai traumi del dipartimento di economia di Harvard, e successivamente negli anni ’70 dal progetto della BBC “L’Età dell’incertezza”. Quindi il “TNIS” ha rappresentato anche un punto di svolta nella sua traiettoria professionale; i suoi scritti sull’economia in seguito furono per lo più più brevi, e in seguito dedicò anche tempo alla narrativa, alle memorie e ad altre forme letterarie.
A differenza di “The Affluent Society” o (soprattutto) “The Great Crash”, 1929, “The New Industrial State” sparì dalla scena a partire dalla fine degli anni ’80, ed era fuori stampa da diversi decenni quando mio padre morì nel 2006. Era contento di lasciarlo andare; Io non lo ero. Mi sono quindi impegnato a riportarlo in stampa, e ci sono riuscito con le edizioni della Princeton University Press e della Library of America.

Pensa che oggi, come il blocco comunista e quello liberaldemocratico, avevano come tendenza di fondo la pianificazione, oggi le big tech occidentali e il big state cinese hanno una tendenza di fondo del loro sistema economico che li accomuna?

Sì e no. I parallelismi tra il capitalismo manageriale e l’industrializzazione statale dell’URSS nelle sue fasi di maggior successo erano governati dal loro scopo comune, che era quello di padroneggiare le complesse tecnologie della produzione industriale avanzata e di pianificare il funzionamento del sistema economico più ampio in modo da garantire una serie di obiettivi sociali: stabilità, piena occupazione, controllo dell’inflazione, stato sociale.
Nella misura in cui “Big Tech” e lo stato cinese hanno uno scopo comune, è l’applicazione delle tecnologie digitali alle comunicazioni, all’informazione, alla sorveglianza e al controllo sociale. Inoltre, “Big Tech” è nel business privato della riduzione dei costi, eliminando gran parte del lavoro umano e irreggimentando il resto, e concentrando la ricchezza di capitale associata alle tecnologie dell’informazione avanzate in poche mani oligarchiche. Gran parte di questo funziona per minare le istituzioni del “nuovo stato industriale”, creando precarietà dove in precedenza la sicurezza era un obiettivo sociale primario. Mentre l’economia cinese ha le sue versioni di “Big Tech”, con alcune delle stesse caratteristiche generali, lo stato cinese ha una serie di obiettivi molto più ampia e conserva in misura maggiore un impegno per la stabilità sociale come parte dei suoi obiettivi fondamentali. Al giorno d’oggi è lo stato più affine allo studio galbraithiano è quello cinese rispetto a quello americano.

Che ruolo ha oggi la finanza rispetto al sistema industriale e se secondo lei figure come quelle dei manager della Silicon Valley dimostrano la fine della gestione collegiale delle imprese?

Una caratteristica fondamentale del sistema industriale nei primi tre decenni del secondo dopoguerra fu il ruolo subordinato della Grande Finanza alla corporazione industriale. La maggior parte delle grandi società americane erano redditizie e finanziavano i loro nuovi progetti in gran parte con gli utili non distribuiti. Questo comportamento è stato fortemente favorito dal codice tributario, che tassava pesantemente gli utili distribuiti ma consentiva ampie detrazioni per gli investimenti. L’attività scientifica aziendale è stata svolta da professionisti stipendiati. Anche le elevate aliquote marginali dell’imposta sul reddito delle persone fisiche hanno tenuto sotto controllo la remunerazione dei dirigenti aziendali. Non è un caso che questa fosse un’epoca di costruzione iconica delle sedi aziendali (lo skyline di Manhattan, in particolare, prima che fosse rovinato dai condomini a molti piani).
Le grandi banche americane erano generalmente limitate nelle loro operazioni, i tassi di interesse erano regolamentati, il finanziamento ipotecario era in gran parte separato dalle banche commerciali e c’era una netta separazione tra banche commerciali e di investimento. Quindi le dimensioni e il potere del settore bancario all’interno degli Stati Uniti erano di gran lunga inferiori a quelli che sono diventati da allora.
La grande finanza iniziò a sfuggire alla regolamentazione con il crollo di Bretton Woods nel 1971, il riciclaggio globale dei petrodollari dopo il 1973, l’uso di alti tassi di interesse per “combattere l’inflazione” a metà e alla fine degli anni ’70 e una spinta concertata per abrogare il New Deal. Questi provvedimenti sono culminati in una sostanziale deregolamentazione del settore finanziario negli anni ’80, ’90 e negli anni 2000, con anche una riduzione dei fondi e del personale delle agenzie di applicazione della regolamentazione.
Il settore tecnologico si separò dalla società industriale negli anni ’80, quando quest’ultima iniziò a fallire a causa degli alti tassi di interesse, del dollaro sopravvalutato e della concorrenza estera. La grande finanza lo ha reso possibile e ha reso possibile alla tecnostruttura delle aziende di tecnologia dell’informazione di catturare le valutazioni del capitale delle loro tecnologie. Ha trasformato i laboratori aziendali in iniziative speculative, estremamente ben pagate ma estremamente instabili. Ne ho scritto in due libri: “Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future” (1989) e “Created Unequal” (1998).
L’ampio contrasto che vorrei tracciare con l’era della società industriale è che, in quell’epoca, c’erano criteri ragionevoli su ciò che avrebbe costituito un buon investimento. Non perfetto, ma ragionevole. Il design, l’invenzione, l’ingegneria e il marketing giocavano un ruolo, c’erano incertezze in ogni funzione, ma la qualità dei team che svolgevano ogni attività poteva, in modo ragionevole, essere valutata da coloro che prendevano le decisioni per fornire finanziamenti. Nell’era post-industriale, le decisioni vengono prese dagli analisti finanziari – dagli operatori di Wall Street – che mancano di capacità indipendenti, sono vulnerabili all’hype e alle frodi e spesso possono essere loro stessi complici delle frodi. Gli ingegneri finanziari non sono veri ingegneri, ovviamente.
Il risultato non sorprendente furono ondate di speculazioni finanziarie: risparmi e prestiti, Internet, il boom dei mutui subprime. Ognuno ha portato a un incidente nel giro di un decennio. Senza regolatori aggressivi, indipendenti e competenti, sostenuti dalle forze dell’ordine, i problemi continuano a ripresentarsi. I risparmi e i prestiti erano massicciamente fraudolenti. Molte società del digitale negli anni ’90 erano basate su modelli di business ridicoli. L’intero settore dei mutui subprime, insieme ai rating e alle cartolarizzazioni, avevano una impostazione fallace.
Siamo ormai entrati nella prossima ondata di questo tipo di attività. Nel caso più recente, abbiamo ad esempio broker di criptovalute, che hanno esasperato le pericolosità del sistema finanziario rispetto ai già disastrosi precedenti che avevamo potuto osservare. Diventa abbastanza chiaro che il sistema, così com’è, manca di controlli sia interni che esterni. È improbabile che tali controlli possano essere ripristinati, anche se la classe politica si muove in questo orizzonte.

Circa sessant’anni dopo, quanto è attuale la visione dell’economia e del sistema economico americano proposta da John K. Galbraith nel suo “Il nuovo stato industriale”?

Come visione dell’economia americana, il ritratto di mio padre del ruolo dominante delle grandi corporazioni industriali è stato superato dagli eventi. La General Motors è fallita alcuni anni fa. General Electric si sta scomponendo in tre società specializzate, nessuna delle quali legata al core business degli elettrodomestici. Molte altre grandi aziende di quell’epoca non esistono più. Invece la finanza ha recuperato il suo ruolo centrale nell’economia americana, insieme ai settori tecnologico e sanitario e militare-industriale. Questa è una situazione squilibrata e instabile.
Tuttavia, esistono ancora aziende del tipo descritto da mio padre: grandi aziende avanzate, ingegneristiche e manifatturiere. Rimangono dominanti in Germania, Giappone, Corea, Cina e probabilmente anche nella Federazione Russa. In tutti questi paesi, mio padre ha goduto di un’influenza diretta o indiretta e la sua eredità intellettuale è ancora riconosciuta. Naturalmente si possono vedere le conseguenze nei modelli del commercio mondiale e nell’equilibrio della forza manifatturiera.

Pensa che oggi siamo passati da una tecnostruttura industriale a una tecnostruttura digitale e high tech? Il ruolo, un tempo del circuito industriale, è stato assunto oggi da big tech e corporate legate ai social network?

Come prevedevo già nel 1989 in un libro intitolato “Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future” – che all’epoca fece poco successo – il settore tecnologico e quello finanziario sono oggi i poli dominanti del sistema economico americano. È lì che si concentrano ricchezza e potere, a parte (di nuovo) le imprese aerospaziali e militare-industriali. Tuttavia, la concentrazione è così estrema che solo una piccolissima parte della popolazione e della superficie del Paese si trova nell’orbita diretta di questi settori. Alcuni anni fa abbiamo calcolato che nel boom tecnologico della fine degli anni ’90, la metà dell’aumento della disparità di reddito misurata tra le 3150 contee degli Stati Uniti era dovuta all’aumento del reddito in sole cinque contee: New York, New York (Manhattan); tre contee nel nord della California (Silicon Valley); e King County Washington, che è Seattle, che è Microsoft. Da allora c’è stata una certa diffusione della ricchezza, ma non così tanto estesa da essere rilevante. La maggior parte del paese vive con l’occupazione nel settore dei servizi. E nel settore immobiliare e dell’edilizia residenziale, che sono sempre stati una parte importante dell’economia americana, i costi delle abitazioni sono ora stimati in oltre il 30% dell’indice dei prezzi al consumo.

Il ruolo del proletariato e della forza lavoro in questo “Nuovo stato digitale” è oggi svolto dal capitale e dai mezzi tecnici che sostituiscono il peso sociale della forza lavoro?
Penso di no. I mezzi tecnici sono cresciuti per esercitare un ampio grado di controllo sulla forza lavoro, in particolare (ad esempio) nella distribuzione di merci (Amazon, Wal-Mart) e nei trasporti (Uber, Lyft) e così via. Ma la forza lavoro in sé è ancora vasta e praticamente tutti i nuovi posti di lavoro negli ultimi decenni sono stati nel settore dei servizi. Quello che sta accadendo ora – dal 2000, più dal 2008 e ancora di più dalla pandemia – è stato un ritiro di un certo numero di persone dalla forza lavoro attiva. Un discreto numero è andato in pensione, spesso alla prima età della previdenza sociale, che è di 62 anni; altri erano lavoratori supplementari nelle loro famiglie che decisero che il lavoro (e le spese associate) non valevano la pena. Questo è il motivo per cui il tasso di disoccupazione è così basso: cattura solo coloro che sono in cerca di lavoro. In termini di “peso sociale” – questa è una grande difficoltà della forza lavoro oggi. I lavoratori dei servizi hanno scarso potere contrattuale ed è molto difficile per loro trovare ed esercitare una voce politica comune.

Quanto sono attuali le critiche che fa nel suo “The predator state” delle amministrazioni GOP e cosa è cambiato in meglio o in peggio negli ultimi anni?

“The Predator State” è stato scritto durante un’amministrazione (Bush-Cheney) particolarmente aggressiva nell’erodere le assicurazioni sociali al fine di arricchire gli interessi commerciali e industriali, e in un momento in cui la bandiera rossa dei deficit di bilancio (ha creato in parte da ampi tagli fiscali) è stata agitata per promuovere la privatizzazione dei programmi pubblici. È stato anche il momento della deregolamentazione e depenalizzazione della finanza che ha portato a massicce frodi finanziarie; la crisi del 2007-2009 ne è stata la conseguenza. Queste tendenze non sono scomparse, anche se penso che le minacce alla Social Security, Medicare e Medicaid potrebbero non essere così gravi come prima, e i deficit della pandemia hanno mostrato chiaramente quanto si potrebbe fare per sostenere le entrate pubbliche senza danneggiare il credito del governo. Forse l’elemento più aggressivo dello stato predatore al momento è il complesso militare-industriale.

Cosa ne pensa del ruolo delle grandi aziende durante la pandemia e la crisi internazionale?

Durante la pandemia, ingenti prestiti e sovvenzioni sono andati a sostenere la struttura allora esistente del business americano, comprese le compagnie aeree, il settore dell’ospitalità e molto altro che non verrà riportato ai precedenti livelli di attività. È difficile immaginare cosa si sarebbe potuto fare altrimenti nell’emergenza, ma ora che l’emergenza immediata è passata, i cambiamenti strutturali operati dalla pandemia si svilupperanno nel tempo. La transizione più ampia, che potrebbe essere verso un settore degli investimenti focalizzato su risorse (sempre più scarse e costose), in particolare l’energia e comprese le rinnovabili, e lontano dai settori legacy (sempre più non redditizi), sarà dolorosa, indipendentemente da come verrà gestita.
La guerra in Ucraina è una miniera d’oro per le grandi aziende militari-industriali, che continueranno a trarre profitto dagli ordini di sostituzione per le scorte di munizioni esaurite per molti anni dopo la fine della guerra. Penso che la maggior parte dei contratti concessi dal febbraio 2022 non avrà alcun effetto sulla situazione sul campo, perché i tassi di produzione sono troppo bassi e i tassi di utilizzo sono troppo alti per essere compensati da una nuova produzione finché durano i combattimenti. Forse la lezione chiave dell’attuale guerra sarà l’inutilità delle attuali strutture del potere militare statunitense, ma ci sono ancora pochi segnali che questa lezione sia stata appresa.

Quali sono i suoi riferimenti culturali?

Una grande domanda! Tra gli economisti, Thorstein Veblen e John Maynard Keynes sono stati fondamentali nella mia formazione, sebbene io sia diventato più istituzionalista ed evoluzionista nel corso degli anni, e meno keynesiano nel senso comune del termine. Veblen è sempre un piacere rileggerlo. Il mio apprezzamento per Keynes si basa soprattutto sulla sua comprensione del ruolo della psicologia sociale nel più ampio schema della vita economica, e sono orgoglioso di un saggio che ho scritto molti anni fa sull’ispirazione che ha tratto da Einstein. Non sono un gran lettore di testi filosofici, ma allo stesso tempo sono molto attratto dalla comprensione della tradizione pragmatista; suppongo che questo abbia un collegamento con la mia prima carriera nello staff del Congresso. In letteratura, i miei gusti vanno maggiormente verso gli autori dell’età dell’argento sovietica, come Bulgakov per molti anni, Krzhizhanovsky e Tynyanov più recentemente; ciò è dovuto, credo, alla loro combinazione di sensibilità allegorica con un apprezzamento dell’assurdità della vita moderna. Il mio autore italiano preferito, veneziano nello specifico, è ovviamente Casanova. Finora ho letto circa 2.500 pagine dell’edizione in tre volumi LeBorgne/Igalens di “Histoire de ma Vie”, e non c’è una frase che non sia indimenticabile o che sia semplicemente superflua in nessuna di esse.

IL 2 GIUGNO, LA NOSTRA DATA STORICA

– Francesco Subiaco

Il 2 giugno è una data storica per la tradizione mazziniana, poiché non segna solo il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, come sancito a seguito del referendum del 1946, ma rappresenta, soprattutto, l’inizio di una educazione nazionale, di una pedagogia morale basata sulla democrazia e sui valori della Costituzione, l’inizio di un cammino democratico e popolare che è il cuore pulsante del repubblicanesimo. Una ricorrenza che i repubblicani romani hanno voluto celebrare sulla terrazza del Gianicolo di fronte al muro della Costituzione della Repubblica Romana. All’evento, organizzato dall’unione Romana del Partito Repubblicano Italiano e dal segretario Michele Polini, erano presenti, Andrea d’Angelo (Responsabile relazioni Esterne PRI Roma),  Marco Cappa (Coordinatore Romano Italia Viva), Francesca Leoncini (Consigliere Comunale Italia Viva), l’Ambasciatore Bulgaro in Italia Todor Stoyanov ed una delegazione dei repubblicani romani e dell’ambasciata bulgara. Durante la celebrazione della festa della Repubblica il segretario Polini ha ribadito l’importanza dei valori costituzionali e la centralità del ruolo dei principi repubblicani per lo sviluppo democratico del paese. Il segretario ha poi aggiunto che: “L’iniziativa di oggi sancisce ancora una volta la volontà e l’impegno del popolo italiano nel perseguire e mantenere vivi i valori della Costituzione e della Repubblica, che affondano i loro principi nelle idee della Repubblica Romana. Celebrando il 2 giugno gli italiani mostrano di voler onorare quei principi sui cui si fonda la nostra Costituzione e che sono il cardine della Repubblica”. Dopo la celebrazione dei valori patriottici costituzionali la delegazione repubblicana in collaborazione con l’ambasciatore bulgaro Todor Stoyanov, hanno ricordato, di fronte alla statua del rivoluzionario laico bulgaro Petko Kirjakov Vojvoda, i combattenti garibaldini per l’indipendenza dei popoli, unendosi nella comune vicinanza negli ideali fondati su democrazia e libertà, che hanno una comune radice nelle visioni del risorgimento. Ideali universali che a distanza di anni da quel fatidico 1849, fanno ancora sventolare la bandiera dell’edera u un’Italia unitamente repubblicana

Onore a Lino Capolicchio, artista libero in un cinema di burattini

– Tommaso De Brabant

La prima scelta di Dario Argento per il ruolo del pianista e, suo malgrado, investigatore protagonista di “Profondo Rosso”, girato nell’autunno del 1974 e diffuso nei cinema l’anno seguente, era Lino Capolicchio; l’attore alto-atesino però, uno dei più richiesti del momento, si era infortunato a causa di un incidente in auto. Cavallerescamente, il regista romano propose di rinviare le riprese in attesa della guarigione di Capolicchio; il quale però, generosamente, insistette perché il film cominciasse senza di lui. “Profondo rosso”, pur maltrattato dalla critica, si impose come “cult”; Capolicchio però non ebbe però troppo tempo per rimpiangerlo, dato che nella primavera del 1976 girò un’altra pietra miliare dell’orrore: “La casa dalle finestre che ridono”, la cui uscita agostana salvò Pupi Avati (il quale, mentre Argento girava “Profondo Rosso”, sceneggiava per Pier Paolo Pasolini “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, e per Lucio Fulci “Il cav. Costante Nicosia demoniaco, ovvero Dracula in Brianza”) dai guai che si era recentissimamente procurato con “Bordella”, un musical grottesco che gli attirò le ire della censura (e di Al Lettieri, noto al grande pubblico come il vile Virgil Sollozzo di “Il padrino”, che provò a uccidere il regista bolognese perché infastidito dallo spazio lasciato alle improvvisazioni di Gigi Proietti). Con un sofismo si potrebbe notare che, come “Profondo rosso”, il film di Avati non è propriamente un horror, ma un thriller: non vi è alcun intervento sovrannaturale (eccezion fatta forse per la seduta medianica fatale alla sensitiva Ulmann), le efferatezze sono interamente affidate a dei “serial killer”; eppure, l’opus magnum di Argento e “La casa dalle finestre che ridono” restano dei superclassici del cinema dell’orrore, grazie alle loro trovate spaventose e a un finale ad effetto. Se “Profondo rosso” scade facilmente nella macelleria compiaciuta e nel raccapriccio fine a se stesso (come tutta la filmografia di Argento), “La casa dalle finestre che ridono” (scritto dal regista assieme al fratello Antonio e a Maurizio Costanzo) che pure è tutt’altro che un film raffinato, non offre soltanto sequenze da Grand Guignol, ma è anche l’esplorazione d’un mondo a sé: quel Gotico Padano che di Pupi Avati è creazione esclusiva. Il regista-sceneggiatore-produttore emiliano sceglierà, nel 1983, uno degli attori di “Profondo rosso” (Gabriele Lavia, nel ruolo di Carlo, amico fragile del protagonista Marc) quale protagonista d’un altro dei suoi film migliori, “Zeder” (storia di zombie con spettacolare finale a Milano Marittima, di gran successo negli USA): tuttora il film di maggior successo di cui l’attore milanese (assai più attivo a teatro) sia stato protagonista, nonché la sua sola collaborazione con Avati. Lavia è stato uno dei pochi attori a recitare più volte per Argento (che, a parte la figlia Asia, non ha sviluppato sodalizi con “attori feticcio”): dopo “Profondo rosso”, si sono ritrovati per “Inferno” (1980, fascinoso ma pasticciato secondo episodio della trilogia delle Madri inaugurata da “Suspiria”) e “Non ho sonno” (2001, scialbo remake di “Profondo rosso”). Diversamente dal collega romano, Pupi Avati ha cresciuto, fin dai suoi primi film, una sua compagnia di attori: Lavia non si è trattenuto, Capolicchio sì. Tra il ’75 e il ’76, travolto dallo scandalo di “Bordella” (il film fu sequestrato per nove mesi, precludendo al regista – già sposato e padre di tre figli – qualsiasi guadagno dal suo lavoro), Pupi Avati decise di trarre un film da una delle storie dell’orrore che la madre raccontava a lui e al fratello Antonio ancora da bambini tra il ’75 e il ’76. Oltre al film dello scandalo e alle sceneggiature per Pasolini e Fulci, Avati aveva all’attivo i primi due film del Gotico Padano (“Balsamus l’uomo di Satana”, presentato a Bologna come un kolossal, e “Thomas e gli indemoniati”) e un film grottesco con Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio e Lucio Dalla, “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”: film nei quali i cultori possono cercare i primi volti ricorrenti del cinema avatiano (Pina Borione, Ines Ciaschetti, Bob Tonelli, Giulio Pizzirani, Pietro Brambilla). Per quanto fosse ambizioso, pur avendo da poco potuto dirigere due attori già celeberrimi (Tognazzi – che tornerà con Avati in “Ultimo minuto” – e Villaggio) e credendo fortemente nel nuovo film, Avati sapeva di non potersi permettere guai anche più lievi di “Bordella”: quasi quarantenne, con una famiglia da crescere, aveva già accantonato la carriera da clarinettista jazz e un impiego (soffertissimo) alla Findus. Ingaggiato il grande amico d’una vita, il concittadino Gianni Cavina, presente in tutti i film avatiani precedenti e in gran parte di quelli che seguiranno (e che negli anni ’90 ritroverà popolarità con gli spot televisivi, con dispetto di Avati, della Findus), oltre a Eugene Walter (uno scrittore trasferitosi dall’Alabama a Parigi e poi a Roma, dove Fellini lo farà recitare in “8 e ½”, il film la cui visione farà decidere ad Avati di diventare regista), i fratelli Avati provarono il colpaccio: contattare uno degli attori più famosi del momento, Lino Capolicchio. Il divo di Merano, attirato dalla speranza di compensare la rinuncia a “Profondo rosso”, lasciò alla moglie la sceneggiatura: stava partendo per una trasferta di lavoro, al ritorno le avrebbe chiesto un parere. La sventurata gli telefonò in albergo, rimproverandolo: come poteva lasciarla sola la notte, dopo averle fatto leggere una storia così terrificante? Di fronte a tale prova del grande potenziale di “La casa dalle finestre che ridono”, l’attore accettò, facendo intravedere ai fratelli Avati il concretizzarsi della loro riscossa: Capolicchio era un nome parecchio pesante da scrivere sulla locandina d’un film. Tuttora ricordato come il classico horror di Avati, “La casa dalle finestre che ridono” fu presentato come il primo film dell’orrore interpretato da Capolicchio, accolto sul set con timore reverenziale: la sua esperienza surclassava quella di chiunque altro fosse impegnato con le riprese, sia per quantità che per qualità. Allievo di Strehler e D’Amico, aveva recitato Goldoni e Shakespeare al Piccolo di Milano e al cinema, dove aveva debuttato con Zeffirelli. Già al suo secondo film (“Escalation” di Roberto Faenza, 1968, dove è un hippy che si innamora della sua psicoterapeuta – Claudine Auger, la magnifica Bond-girl di “Thunderball” – per poi rivelarsi più spregiudicato del padre industriale) fu promosso a protagonista; si imporrà quindi come figura di spicco del cinema della contestazione, da “Vergogna, schifosi” di Mauro Severino all’ultimo film di Giuseppe De Santis (già regista di “Riso amaro”), “Un apprezzato professionista di sicuro avvenire”, passando per alcuni dei film più importanti dell’epoca: “Metti, una sera a cena” (1969, adattamento cinematografico di Giuseppe Patroni Griffi dal suo stesso dramma per il teatro), dove è uno studente gigolò coinvolto negli scambi erotici fra la Bolkan, Trintignant e Musante; “Mussolini, ultimo atto” (Carlo Lizzani, 1974: con Rod Steiger nel ruolo del Duce, Lisa Gastoni nella parte della Petacci, Franco Nero in quella di Walter Audisio ed Henry Fonda in quella del cardinale Schuster: una delle scelte più assurde della storia del cinema), dove è Pier Luigi Bellini delle Stelle, il partigiano aristocratico e comunista che avrebbe preferito consegnare vivo Mussolini agli angloamericani; ma fu “Il giardino dei Finzi Contini” (Vittorio De Sica, 1970, dal romanzo di Giorgio Bassani – che ebbe col regista disaccordi riguardo la sceneggiatura, tanto gravi che lo scrittore chiese di non essere menzionato nei titoli – di otto anni prima) a rendere Capolicchio (che interpreta Giorgio, il laureando ebreo che a Ferrara, tra le leggi razziali e la guerra incombente, è innamorato non corrisposto di Micol – Dominique Sanda, che gli preferisce Giampiero – Fabio Testi) una star internazionale: il fotogramma di Giorgio-Capolicchio in bicicletta accanto a Micol-Sanda è tuttora l’immagine più celebre della gloriosissima tradizione del cinema ferrarese. Scaraventato di fronte all’attenzione del cinema mondiale, Capolicchio divenne ritroso: rifiutò la proposta, danarosissima, di diventare il volto delle pubblicità per la Coca-Cola (dopo aver scoperto quanti soldi aveva rifiutato, la madre rimase in stato catatonico per diverse ore) e si rifugiò nell’insegnamento dell’arte recitativa, oltre che in una fitta attività da attore e regista a teatro. L’incontro con Avati fu la salvezza per entrambi: avere per protagonista uno dei divi più adorati dell’epoca garantì a “La casa dalle finestre che ridono” un degno successo, rilanciando la carriera del regista; e l’incontro con Pupi (pur di soli cinque anni più anziano) offrì a Capolicchio una nuova figura paterna (negli ultimi anni di vita l’attore ha più volte esternato il dolore provocatogli dall’inimicizia col padre) e un regista di riferimento. Pur non onnipresente come Gianni Cavina, Capolicchio parteciperà a buona parte dei film di Avati: il sottovalutatissimo “Le strelle nel fosso” (1979), “Noi tre” (1984) dove è Leopold Mozart, padre di Wolfgang Amadeus in un loro passaggio italiano, “Ultimo minuto” (1987) dove è il neo-presidente che prova a esautorare Walter-Ugo Tognazzi, maniacale direttore sportivo d’una squadra di calcio ispirata al Lanerossi Vicenza; poi “Fratelli e sorelle” (1992), “Una sconfinata giovinezza” (2010), sino a “Il signor Diavolo” (2019), il grande ritorno del Gotico Padano, dove è don Dario, il parroco tisico connivente col culto satanico di cui è gran sacerdote Gino, il suo sagrestano fanatico, interpretato da Cavina. Un ritorno alle atmosfere, alle inquietudini, ai misteri di “La casa dalle finestre che ridono”: e quanto fosse stato armonioso e felice l’incontro tra Avati e Capolicchio è testimoniato dagli sceneggiati televisivi che i due girarono tra “La casa dalle finestre che ridono” e “Le strelle nel fosso”: “Cinema!!!” e soprattutto l’adorabile “Jazz Band”, dove Capolicchio impersona l’alter ego dello stesso Pupi Avati, ritraendone sogni, passioni, progetti e ambizioni. Ho incontrato il cinema di Avati nell’agosto del 2019, proprio con l’ultimo suo film interpretato da Capolicchio, “Il signor Diavolo”, rimanendone conquistato. Fu grazie a un mio articolo su quel film meraviglioso, che incontrai Avati stesso a settembre, per un’intervista (portai, per farlo firmare, il libro scritto da Andrea Maioli sul cinema di Pupi, con in copertina proprio Capolicchio che, nel ruolo dell’esperto d’arte Stefano, studia il terrificante affresco del martirio di San Sebastiano dipinto dal “pittore d’agonie”, Buono Legnani). Ho poi partecipato da comparsa e cronista, tra l’agosto e il settembre del 2020, a un altro recentissimo film di Pupi, “Lei mi parla ancora”, ambientato in quella Ferrara nella quale, tra negozi di libri e dischi usati, è frequente vedere l’immagine di Capolicchio in bici con la Sanda in “Il giardino dei Finzi Contini”: eppure, “Lei mi parla ancora” è uno dei pochissimi film di Pupi nel quale non compaiano né Capolicchio né Cavina. Durante le riprese mi recai in pellegrinaggio da Comacchio a Minerbio: dalla “villa delle sorelle Legnani” alla chiesa di San Giovanni in Triario, due dei luoghi di sventura di Stefano-Capolicchio, capostipite dei personaggi avatiani che pur sapendo che si stanno cacciando nei guai sono tanti curiosi da dannarsi. Ho comunque incontrato dal vivo Capolicchio nel febbraio 2020, pochi giorni prima delle chiusure dovute al Covid (ma se ne parlava già: un tale si presentò all’evento con una mascherina elaboratissima): era ospite della cineteca di Milano, per presentare “La casa dalle finestre che ridono” e il suo libro autobiografico, “D’amore non si muore”. Era un uomo bellissimo: tanto esile da sembrare fragilissimo, gentilissimo, con un sorriso meraviglioso. Comprai il libro per farglielo firmare, quando si trattò di scriverci la dedica restò sorpreso, come Pupi pochi mesi prima, dal constatare che sono omonimo dei loro figli. Il capriccio delle circostanze fece sì che in sala finissi in prima fila, per non separare una coppia dove invece sarei dovuto stare: potei così assistere da vicino a una bella intervista, durante la quale Capolicchio raccontò cosa fosse fare cinema negli anni Settanta, un periodo tanto controverso, tragico eppure entusiasmante. Sapeva che “La casa dalle finestre che ridono” è un importante tassello di storia (del cinema, italiana, locale, del folklore…), e trasmetteva la felicità di averne partecipato. “La casa dalle finestre che ridono” era già uno dei miei film preferiti, aver assistito a quella proiezione me lo rese tanto più caro, e questo spiega il mio viaggio sui luoghi delle sue riprese. Lino Capolicchio non era soltanto un volto sullo schermo: era un attore completo, un grande uomo di cultura (prima che di spettacolo). Era coltissimo (il suo incontro con Pupi Avati è stato propiziato anche dai loro interessi librari), sceglieva i film da interpretare anteponendo ciò che potevano trasmettergli al ritorno che ne avrebbe avuto in termini di notorietà; fu, colpevolmente, emarginato da un cinema italiano che, terminate le follie degli anni ’70, si sarebbe poi rinchiuso nella mediocrità dei film da salotto pariolino. Bel volto del Sessantotto, quando scoprì che gli era stata apposta questa etichetta la rifiutò, assieme alla convenienza di mettersi una divisa e, come il suo regista preferito, rimase libero: messo all’angolo, ma libero. Lode a te, Lino Capolicchio, artista intelligente e libero in un cinema di burattini. Mancavi già, mancherai sempre più.

Il Risorgimento rivoluzionario di Valerio Evangelisti

– Francesco Subiaco

Il risorgimento non fu la parata trionfale della retorica nazionalistica, né la rapina feroce e crudele che descrivono alcuni. Esso fu una Rivoluzione ed una Riconquista, una guerra di liberazione ed una guerra civile, un evento duro, crudele e magnifico come sono tutte le grandi lotte che muovono i popoli. Perché la rivoluzione non è un pranzo di gala nemmeno se fatto per la più santa delle cause, e non va raccontato con la retorica falsa che ne fa una “glorious revolution” all’italiana. Essa fu principalmente una guerra popolare, una lotta diplomatica, uno scontro indimenticabile in cui i patrioti mazziniani cercarono di rovesciare i troni di un ordine antico e fatiscente che cercò con ogni mezzo di opporsi a quel vento di cambiamento. Non fu solo l’esperienza dei mille, fu il risultato di anni di guerriglia, di cacce, di rappresaglie in cui i poliziotti austriaci e papalini venivano definiti dei servi del tiranno, mentre i patrioti dei terroristi e dei demoni. Una storia che non può essere raccontata come il trionfo senza sangue delle truppe sabaude, ma va descritto come uno slancio rivoluzionario di una gioventù italiana votata al martirio, al sacrificio, all’inizio di una nuova rivoluzione italiana, stroncata sul nascere. Una riconquista fatta di guerriglie e rese dei conti, tra i Demoni di Dostoevskij e le battaglie dei film di Sergio Leone, con lo scenario della guerra civile americana, che sono lo scenario dell’ultimo romanzo di Valerio Evangelisti: “Gli anni del coltello” (Mondadori). Evangelisti, da poco scomparso, riesce nel suo romanzo a scrivere una epica del risorgimento, che ne fa una saga popolare del movimento mazziniano dopo la caduta della repubblica romana, che sbandato e perseguitato sui luoghi oscuri e rivoluzionari del nostro risorgimento, aldilà di un giudizio storico, trasformando la storia del popolano e rivoluzionario Gabariol in una grande avventura fatta di sangue e lotta, patria e libertà.

DIALOGO CON MARCO ROCCHI, TRA NAPOLEONE E LA MASSONERIA

– Francesco Subiaco

La vita di Napoleone ha il fascino di un duello con l’Europa e la storia intera. Un duello con l’Ancient Regime, con il vecchio mondo, con le ambizioni reazionarie, che ha come esito la vittoria postuma di quel giovane nobile corso che divenne l’eroe dell’Ottocento. Un personaggio letterario, tra le invocazioni foscoliane e le iconografie di David, che, come disse Victor Hugo, sfidò Dio. Una figura unica e straordinaria, ricca di mille sfaccettature. Tiranno, liberatore, patriota, anticristo, rivoltoso, imperatore, conciliatore. Napoleone uno, nessuno e centomila che viene ricostruito nello splendido saggio “Napoleone. Duecento anni dopo”(TIPHERET), a cura di Marco Rocchi e Daniele Paci Fumelli. C’è poi il Napoleone massone, segreto, ignoto, sconosciuto. Per rivelarlo, conoscerlo e capirlo abbiamo intervistato il Prof. Marco Rocchi, uno dei massimi studiosi della massoneria in Italia.

Che rapporto c’è tra Napoleone e la Massoneria?

Indubbiamente dobbiamo riconoscere a Napoleone l’intento di fare della massoneria un instrumentum regni; però dobbiamo precisare che cosa intendere con questo termine. Alcuni autori sostengono che la massoneria fosse semplicemente uno strumento di controllo dei nuovi Stati. Tuttavia, c’è forse un disegno più raffinato nel rapporto tra Napoleone e la massoneria: l’idea, cioè, di usare le logge come serbatoio cui attingere per i quadri, per la classe dirigente civile e militare, dei nuovi Stati nascenti. Insomma, si possono immaginare le logge come il luogo in cui i membri di questa nuova classe dirigente potessero fraternizzare fra loro, risolvendo i conflitti che inevitabilmente si sarebbero creati nel mondo profano. Dentro le logge napoleoniche entrano immancabilmente i quadri dell’amministrazione, i quadri dell’esercito, nonché il milieu culturale dei vari Paesi. Ed è inoltre tra le colonne dei templi massonici che viaggiavano le idee illuministe, di cui il bonapartismo – al netto di tutte le storture dispotiche – è stato indubbiamente portatore.

Perché molte logge sono dedicate a San Napoleone? E che rapporto ci fu tra Napoleone e la chiesa?

Partirei dalla seconda questione. Nel rapporto con la Chiesa cattolica, così come in tutti gli altri campi in cui ha operato, è facile intravedere il Napoleone debitore della massoneria e dell’illuminismo.

Dopo il colpo di stato del 18 brumaio 1799, Napoleone seda, definitivamente, la rivolta della Vandea e, nel luglio dell’anno seguente, firma con Pio VII il nuovo Concordato, che raccoglie l’eredità della tradizione gallicana. Con questo atto il cattolicesimo è definito religione della maggioranza dei Francesi: non della Francia, o di tutti i Francesi; quindi, il cattolicesimo non è in alcun modo riconosciuto come religione di Stato. Inoltre, il Concordato prevede che il clero venga stipendiato dallo Stato, ma che ad esso, e precisamente nelle mani del primo console, dovrà giurare fedeltà; stabilisce inoltre che i vescovi siano nominati dal primo console – nelle cui mani anch’essi presteranno giuramento – e solo confermati dal papa.

Molti studiosi, anche cattolici, hanno osservato che il Concordato ricalca molte delle condizioni imposte dalla Costituzione civile del clero che tanta opposizione aveva scatenato nelle gerarchie ecclesiastiche.

Di fatto la Chiesa, per tornare al potere (o comunque per tornare a contare qualcosa) si abbassa ad accettare una serie di condizioni che solo pochi anni prima avevano determinato la condanna pontificia.

Nel 1802, Napoleone promulga, come addendum al Concordato, gli Articoli Organici che prevedono, tra l’altro: che nessun atto papale abbia efficacia in Francia senza la approvazione del primo console; che le scuole religiose e i seminari passino sotto il controllo dello Stato; e che venga adottato un solo catechismo e una sola liturgia per tutta la Francia .A completare l’opera di asservimento della Chiesa allo Stato, due anni più tardi Napoleone, asceso al trono imperiale, promulga l’entrata in vigore del Catechismo ad uso di tutte le chiese dell’Impero Francese, come previsto dagli Articoli Organici. Redatto da monsignor Bernier, viene spesso citato come Catechismo napoleonico; invito a leggerlo, per scoprire quali perle di servilismo vi si trovano. E tuttavia, asservita ai suoi scopi la Chiesa cattolica, Napoleone – col formidabile strumento rappresentato dal suo Codice emanato nel 1804 – introduce anche negli Stati satellite la tolleranza religiosa e la soppressione dei beni ecclesiastici.

Infine, nel 1809, papa Pio VII (al secolo Barnaba Chiaramonti) viene imprigionato e privato del potere temporale. Lo scopo è di trasferire il papato a Parigi per meglio sottometterlo; solo l’imprevisto declino delle sorti di Napoleone fermerà questo progetto.

Quello sulla politica di Napoleone nelle relazioni con la Santa Sede è un giudizio in chiaroscuro: da un lato pare riammettere la Chiesa come interlocutrice privilegiata dello Stato, ma dall’altro ne contiene inesorabilmente il potere e ne condiziona le scelte, imponendole il controllo da parte di uno Stato divenuto laico: gli esiti positivi di questa politica sono visibili ancora oggi, due secoli dopo, in Francia e non solo.

Quanto alla figura di San Napoleone, essa si inquadra nella volontà della Chiesa di instaurare un rapporto il più possibile amichevole – ma meglio sarebbe dire servile – con Napoleone.

La premessa è che Napoleone era un nome adespoto, mancava cioè un santo protettore onomastico dell’imperatore. Ma, se manca un santo basta inventarlo: così, negli archivi viene scovato un riferimento a un certo Neopolo, la cui esistenza reale non era mai stata accertata e che la Chiesa si era quindi guardata bene dal beatificare. Ma qui la posta in gioco era più alta. Basta inventarsi un martirio, trasformare il nome di Neopolo in quello di Napoleone e collocarlo, nel Martirologio Romano, guarda caso, nel giorno del compleanno dell’imperatore, il 15 agosto.

Ma fare un santo è evidentemente più facile che disfarlo: così, caduto nella polvere Napoleone, il suo fasullo santo protettore è rimasto ben saldo all’onore degli altari (e nell’alto di una guglia del Duomo di Milano), dove saldamente resiste tuttora.

Molti mettono in dubbio l’iniziazione di Napoleone, nonostante dai parenti ai commilitoni, egli fosse circondato da liberimuratori. Secondo lei sono obiezioni legittime? E perché?

Circa l’appartenenza di Napoleone alla massoneria, occorre essere molto chiari: manca un elemento documentale diretto che attesti l’iniziazione massonica di Napoleone o la sua appartenenza al piedilista di una loggia. Tuttavia, come hanno evidenziato molti storici, questo è un elemento comune a molti personaggi, l’appartenenza massonica di alcuni dei quali non è mai stata messa in dubbio. Vi è tuttavia tutta una serie di prove indirette a favore della affiliazione massonica di Napoleone, la cui raccolta organica si deve soprattutto alla straordinaria opera di François Collaveri, e che sostanzialmente si fonda su tre ordini di argomenti.

Il primo si basa sul fatto che in numerosissimi documenti ufficiali dell’epoca nei quali Napoleone viene indicato come un “fratello”. Si potrebbe obiettare che si tratta di un indizio piuttosto labile, e tuttavia appare strano che documenti di questo genere venissero approvati, direttamente da Napoleone o indirettamente tramite i suoi più stretti collaboratori, senza un fondamento di verità; ricordiamo che l’imperatore era quasi maniacale nel controllo di tutto ciò che si scriveva su di lui. In questo tipo di prove indirette, rientra anche il copiosissimo numero di logge intitolate a Napoleone.

Il secondo ordine di argomenti a sostegno di una iniziazione massonica di Napoleone è quello relativo a ciò che potremmo definire una vox populi massonica. Chi si occupa dei problemi di presunte affiliazioni massoniche di vari personaggi sa bene che la vox populi massonica è spesso stata confermata anche quando una prevaricante cultura antimassonica la smentiva sprezzantemente. Ebbene, questa vox populi massonica ha sempre considerato Napoleone come un “fratello”, anche se – nello straordinario fiorire di leggende che lo riguardavano – furono prodotte molte differenti versioni dell’iniziazione: iniziato in Corsica dopo aver conosciuto Pasquale Paoli, o nella foresta di Fontainebleau, o durante la campagna d’Italia, iniziato a Marsiglia, o in una loggia castrense a Valence; o a Malta; o a Parigi dopo la cerimonia di incoronazione. Se da una parte questo fiorire di versioni non aiuta a fare chiarezza e, anzi, suscita notevoli dubbi, dall’altra potrebbe essere l’indizio che tutte queste leggende sono costruite attorno a un nucleo di verità storica. L’opinione del solito Collaveri è che Napoleone, già iniziato in una loggia francese, abbia fondato una loggia, intitolata a Iside, al Cairo nel 1798, assieme a ufficiali e a notabili egiziani.

Infine, un terzo ordine di argomenti è rappresentato dalla massiccia presenza di massoni tra i suoi familiari, tra cui suo padre Carlo, tutti i suoi fratelli, sua moglie Josephine, il figlio di primo letto di costei Eugenio Beauharnais, tutti i suoi cognati (Gioacchino Murat, Felice Baciocchi e Camillo Borghese): una presenza così massiccia che riesce difficile immaginare che solo Napoleone non sia stato iniziato, soprattutto se si pensa al ruolo che egli riconobbe alla massoneria non solo francese, ma anche di quella di tutti i Paesi che finirono sotto l’influenza francese, e a capo delle quali pose sempre i suoi parenti: il fratello Giuseppe fu Gran Maestro, nell’ordine, del Grande Oriente di Francia, di Napoli e di Spagna; il fratello Gerolamo fu Gran Maestro del Grande Oriente di Westfalia; il fratello Luigi fu Gran Maestro del Grande Oriente d’Olanda; il figlio di primo letto di sua moglie Giuseppina, Eugenio Beauharnais, fu il primo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, e il cognato Gioacchino Murat fu Gran Maestro del Grande Oriente di Napoli.

Ma allora perché Napoleone non assunse per sé ruoli nell’istituzione massonica? È, a mio avviso, piuttosto verosimile che, non volendo egli assumere il ruolo di Gran Maestro – quelli che rivestiva politicamente e militarmente erano già assai gravosi -, lo abbia delegato ad altri, riconoscendo per se stesso un ruolo non istituzionale, ma che non faremo fatica a definire come quello di Gran Maestro dei Gran Maestri, una sorta di Gran Maestro di un Super Grande Oriente che comprendeva tutti i Grandi Orienti appena citati.

Nel percorso politico napoleonico, che ruolo affidò il protagonista del 18 brumaio alla massoneria?

Questo è un tema assi più difficile da trattare: nella fase del colpo di stato del brumaio la Massoneria era fuori legge ed è immaginabile che, pur avendo partecipato diversi massoni alla cospirazione (i suoi fratelli e Murat, ad esempio), essi abbiano agito per convinzioni politiche e non su mandato massonico.

Sta scrivendo altri testi sulla massoneria? Può parlarcene?

È in uscita un saggio, curato dal professor Giovanni Greco dell’Università di Bologna e da me, dal titolo “Segreti massonici italiani. Giardini e luoghi d’ispirazione esoterica” per i tipi di Mimesis; si tratta di una raccolta di saggi sulle tante tracce della presenza massonica nel nostro Paese. E, di recente, un mio saggio sui culti rivoluzionari francesi del periodo della scristianizzazione è stato pubblicato entro il libro di Antonio Cecere “I rituali dei teofilantropi”; un testo per immergersi nel modo pensare la religione e il rapporto col sacro in quegli anni turbolenti. Anche in questo caso, i massoni furono protagonisti.

Può consigliarci dei testi per approfondire e cercare di capire cosa è veramente la massoneria?

Io credo che non sia facile dare un consiglio di questo tipo: la saggistica sulla massoneria si divide tra testi apologetici e testi francamente antimassonici. Io penso che prima di tutto si debba conoscere la storia di questa istituzione, quindi consiglio il breve ma intrigante saggio di Antonio Trampus “La massoneria nell’età moderna” (Laterza) e la monumentale opera di Aldo Alessandro Mola “Storia della massoenria italiana” (Bompiani).  Infine, per comprendere il fenomeno massonico, consiglio l’ormai classico saggio di Gian Mario Cazzaniga “La religione dei moderni” (ETS).