COTTARELLI:”ECCO QUALI SONO I PECCATI CAPITALI DELL’ECONOMIA ITALIANA”
Di Francesco Subiaco
Come mai l’Italia non riesce a crescere? È questa la domanda che avvia l’indagine del professor Carlo Cottarelli e trova risposta nelle pagine del suo libro “I sette peccati capitali dell’economia italiana”(Feltrinelli). Un testo con cui l’autore indaga i sette mali cronici che impediscono la crescita dell’economia italiana: l’evasione fiscale, la corruzione, la troppa burocrazia, la lentezza della giustizia, il crollo demografico, il divario tra Nord e Sud, la difficoltà a convivere con l’euro. Criticità il cui confronto sarà ancora più necessario a seguito delle conseguenze economiche della guerra e della pandemia e dalle innovazioni portate dalla transizione digitale e dall’intelligenza artificiale. Per approfondire questi temi abbiamo intervistato l’autore, che da poco ha pubblicato il suo ultimo “All’inferno e ritorno. Per la nostra rinascita economica e sociale” in cui si mostra l’indirizzo ideale necessario per una rinascita italiana: “la possibilità per tutti di avere un futuro nella vita, indipendentemente dalle condizioni in cui si è nati”
-Secondo lei il sistema industriale sta transitando verso una forma ibrida che unisce componente industriale e il mondo dell’alta tecnologia e del digitale? Penso che non dovremmo sopravvalutare troppo questo fenomeno. La questione principale che ci dobbiamo porre è: quanto è ampio e rilevante l’effetto della rivoluzione ICT nel sistema produttivo? Credo si possa sostenere che l’effetto dell’innovazione tecnologica a cui abbiamo assistito negli ultimi 30 anni sia abbastanza modesto rispetto a quella che abbiamo osservato nei primi anni del novecento o nel dopoguerra, ad esempio. Una tesi che è confermata dal cambiamento della produttività tra il 1890 e il 1950, drasticamente diverso rispetto al passato, e quello dagli anni 90 a oggi, molto meno rilevante. Negli ultimi trent’anni non abbiamo cambiato profondamente le nostre abitudini, il nostro modo di vivere o di pensare, cosa accaduta invece nel periodo precedentemente analizzato, ma abbiamo migliorato e affinato gli strumenti che già avevamo. Alle sveglie convenzionali si sono sostituite quelle dei telefoni, ai telefoni a cabina o fissi i cellulari. Si sono quindi perfezionate le strutture del passato, ma non si sono realizzate le previsioni ottimiste che si pensavano per questo periodo, pensiamo agli auspici di Clarke e Kubrick per il 2001… Un fatto che è confermato dalle limitate variazioni della produttività. La crescita della produttività è stata infatti molto più lenta negli ultimi decenni rispetto al boom che ha subito nel dopoguerra. La rivoluzione che abbiamo avuto in questi anni è stata minore rispetto al passato, non a caso tutti i principali brevetti e papers di ricerca sono non di innovazione, ma di consolidamento. L’ICT non è ancora maturo, almeno per ora.
-Di fronte alle emergenze che minano la catena globale del valore pensa che l’orientamento dei paesi occidentali faciliterà il reshoring o il friendshoring? Ci sarà una parziale deglobalizzazione caratterizzata da fenomeni come reshoring e friendshoring, ma ciò non riporterà ai sistemi e alle categorie novecentesche. In termini di flussi di importazioni ed esportazioni c’è stata una riduzione delle esportazioni su PIL, ma si tratta di una piccola modificazione di tale rapporto, ma non così rilevante, come nel 2008 ad esempio, e nemmeno in grado di mettere completamente in discussione la globalizzazione. C’è stato un effetto, anche molto a livello comunicativo, sulle esigenze strategiche da parte degli Stati Uniti, attraverso l’Inflation Reduction Act (di cui aspettiamo la risposta europea), ma non ci sarà un ritorno alle logiche primo novecentesche. Le catene globali del valore si stanno accorciando e ridefinendo, ma non ci saranno né un ritorno massiccio e generale nei territori nazionali delle aziende che hanno delocalizzato (perché sarebbe molto costoso ed infattibile per esse), né un ritorno, improbabile, all’autarchia.
-Stiamo assistendo ad una fase in cui le grandi aziende stanno cannibalizzando le piccole imprese locali? Si però non si tratta di un fenomeno nuovo, ma di un consolidamento di un processo già avviato in precedenza. Pensiamo alla nascita e allo sviluppo dei supermercati e dei grandi ipermercati. Anche in quel caso il ruolo delle piccole imprese è stato certamente ridimensionato, ma non completamente ridefinito o sostituito, una valutazione che vale anche per i fenomeni a cui stiamo assistendo. -Secondo lei l’Italia negli ultimi anni ha subito una regressione o una stagnazione del proprio patrimonio produttivo fatto di imprese, corporate e complessi industriali? Non parlerei di regressione, ma di una fase in cui dalla fine degli anni 90 ad oggi la crescita è stata prossima allo zero. Non siamo tornati indietro, ma non siamo nemmeno cresciuti.
–Quali sono stati i peccati capitali dell’economia italiana che hanno favorito questa “paralisi”? Si tratta di una sequenza di eventi critici che non possiamo trascurare, un insieme di fattori transitori, ma le cui conseguenze permanenti sono la causa di questa condizione. Noi siamo entrati nell’euro impreparati a gestire la concorrenza senza ricorrere all’arma della svalutazione. Abbiamo per alcuni anni provato a mantenere un aumento dei costi della produzione, con un livello di inflazione più alto, rispetto agli altri paesi dell’eurozona, che ci ha fatto perdere la nostra competività, mandando in rosso i conti con l’estero. Tali errori hanno permesso che nel 2008, in piena crisi, l’Italia sia diventata l’obiettivo delle ondate speculative che si sono acuite nel 2011, creando un senso di insicurezza negli investitori che ha ancora di più minato la produttività nazionale. Il primo peccato capitale è stato, quindi, l’esposizione dell’Italia al rischio di attacchi speculativi dopo l’entrata nell’euro. Un peccato acuito a sua volta dalla incapacità di risolvere gli altri problemi storici del nostro paese che io chiamerei peccati capitali del nostro paese: la lentezza della giustizia; l’evasione fiscale; un maggiore livello di corruzione rispetto agli altri paesi europei; eccesso di burocrazia; il crollo demografico; il divario tra Nord e Sud.
–Oggi secondo lei sarebbe auspicabile una maggiore pianificazione pubblica? Occorrerebbe una terza via tra privatizzazioni selvagge e statalismo? Prima di pianificare o intervenire è necessario che lo stato risolva le proprie criticità. Lo Stato dovrebbe avere come obiettivo la risoluzione dei peccati capitali della giustizia, della burocrazia, della pubblica amministrazione cercando di avere una macchina amministrativa funzionante. Non vedo l’esigenza di uno stato pianificatore, anche se forse si potrebbe pensare ad una minima pianificazione in alcuni ambiti strategici. Mentre c’è certamente necessità di una maggiore attenzione riguardo i temi della concorrenza. Però tali operazioni hanno come prerequisito la risoluzione delle criticità della macchina amministrativa di cui abbiamo parlato in precedenza.
–Quali sono i suoi riferimenti culturali? Senza dubbio autori come Joseph A. Schumpeter, John Maynard Keynes e Ugo La Malfa, che leggevo negli anni della mia gioventù mentre i miei coetanei leggevano Marcuse, Marx e Berlinguer. Se dovessi dire un romanzo direi “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, perché è un grande monumento della incompletezza dell’uomo.
James Galbraith e l’attualità del “Nuovo stato industriale”
Di Francesco Subiaco
“Il nuovo stato industriale” di John Kenneth Galbraith è uno dei testi cardine del novecento americano. Esso infatti non svolse solo una lunga analisi e disamina delle forze e delle mutazioni prodotte dall’affermazione del sistema industriale, ma anche una lente chiara e limpida per comprendere l’evoluzione delle istituzioni sociali che hanno caratterizzato la società americana. Per riflettere sull’attualità di questo testo visionario del 1967 abbiamo intervistato il Professor James Galbraith, studioso, economista ed accademico, la cui visione progressista e istituzionalizza ha ripreso e interpretato le istanze della visione economica del New industrial state, partendo dal ruolo predatorio delle grandi corporate nell’economia americane, e la loro applicazione nel settore militare racchiusa nel saggio “The predator state”. James K. Galbraith detiene la Lloyd M. Bentsen Jr. Chair in Government/Business Relations presso la Lyndon B. Johnson School of Public Affairs e una cattedra di Government presso l’Università del Texas ad Austin. È stato direttore esecutivo del Joint Economic Committee del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni ’80 e, prima ancora, economista per il House Banking Committee. Ha presieduto il consiglio degli economisti per la pace e la sicurezza dal 1996 al 2016 e dirige il progetto di disuguaglianza dell’Università del Texas . È caporedattore di Structural Change and Economic Dynamics . Dal 1993 al 1997 Galbraith è stato consulente tecnico capo per la riforma macroeconomica della Commissione per la pianificazione statale della Repubblica popolare cinese. Nel 2010 è stato eletto all’Accademia Nazionale dei Lincei . Nel 2014 è stato co-vincitore del Leontief Prize for Advancing the Frontiers of Economics . Nel 2020 ha ricevuto il Veblen-Commons Award dell’Association for Evolutionary Economics. Ha conseguito lauree presso l’Università di Harvard (AB, magna cum laude), in economia presso l’Università di Yale (MA, M.Phil, Ph.D.) e onori accademici presso università in Ecuador, Francia e Federazione Russa . È un Marshall Scholar; membro a vita del Council on Foreign Relationse la Texas Philosophical Society.
–Che ruolo ha avuto Il Nuovo Stato Industriale nel lavoro e nel pensiero di tuo padre? Poiché la domanda si riferisce al titolo del libro di mio padre del 1967, l’ho interpretata come riferita specificamente a quel libro, e non come una domanda generale sul concetto di un nuovo stato industriale. Il libro di mio padre del 1967 “The New Industrial State” è stato per molti versi il culmine del suo lavoro di economista teorico e dei suoi sforzi per portare l’intera disciplina dell’economia in contatto con il mondo così com’è – un mondo di grandi organizzazioni, di tecnologie complesse e di progettazione. Il suo lavoro immediatamente precedente, The Affluent Society, era in parte una rassegna ed una critica del pensiero economico classico, e in parte un ritratto del panorama sociale della ricchezza del dopoguerra e di un’economia non basata sulla scarsità fondamentale. Il “New Industrial State”, quindi, riguardava le corporazioni industriali, l’istituzione economica americana allora dominante, e i loro sforzi per modellare l’intero universo economico – dalla progettazione alla produzione, dalla finanza al marketing – secondo le loro specifiche. Mio padre considerava il “Nuovo stato industriale” come la seconda parte di una trilogia, la terza era Economics and the Public Purpose, di cui dei tre libri, era lo sforzo dominante e il libro principale. All’epoca ebbe un formidabile impatto sul pubblico – nella lista dei bestseller del New York Times per oltre un anno – e generò la reazione più feroce tra gli economisti accademici. In seguito, il tempo di mio padre fu occupato dal movimento contro la guerra del Vietnam, dalle campagne politiche nel 1968 (McCarthy) e nel 1972 (McGovern), dai traumi del dipartimento di economia di Harvard, e successivamente negli anni ’70 dal progetto della BBC “L’Età dell’incertezza”. Quindi il “TNIS” ha rappresentato anche un punto di svolta nella sua traiettoria professionale; i suoi scritti sull’economia in seguito furono per lo più più brevi, e in seguito dedicò anche tempo alla narrativa, alle memorie e ad altre forme letterarie. A differenza di “The Affluent Society” o (soprattutto) “The Great Crash”, 1929, “The New Industrial State” sparì dalla scena a partire dalla fine degli anni ’80, ed era fuori stampa da diversi decenni quando mio padre morì nel 2006. Era contento di lasciarlo andare; Io non lo ero. Mi sono quindi impegnato a riportarlo in stampa, e ci sono riuscito con le edizioni della Princeton University Press e della Library of America.
–Pensa che oggi, come il blocco comunista e quello liberaldemocratico, avevano come tendenza di fondo la pianificazione, oggi le big tech occidentali e il big state cinese hanno una tendenza di fondo del loro sistema economico che li accomuna?
Sì e no. I parallelismi tra il capitalismo manageriale e l’industrializzazione statale dell’URSS nelle sue fasi di maggior successo erano governati dal loro scopo comune, che era quello di padroneggiare le complesse tecnologie della produzione industriale avanzata e di pianificare il funzionamento del sistema economico più ampio in modo da garantire una serie di obiettivi sociali: stabilità, piena occupazione, controllo dell’inflazione, stato sociale. Nella misura in cui “Big Tech” e lo stato cinese hanno uno scopo comune, è l’applicazione delle tecnologie digitali alle comunicazioni, all’informazione, alla sorveglianza e al controllo sociale. Inoltre, “Big Tech” è nel business privato della riduzione dei costi, eliminando gran parte del lavoro umano e irreggimentando il resto, e concentrando la ricchezza di capitale associata alle tecnologie dell’informazione avanzate in poche mani oligarchiche. Gran parte di questo funziona per minare le istituzioni del “nuovo stato industriale”, creando precarietà dove in precedenza la sicurezza era un obiettivo sociale primario. Mentre l’economia cinese ha le sue versioni di “Big Tech”, con alcune delle stesse caratteristiche generali, lo stato cinese ha una serie di obiettivi molto più ampia e conserva in misura maggiore un impegno per la stabilità sociale come parte dei suoi obiettivi fondamentali. Al giorno d’oggi è lo stato più affine allo studio galbraithiano è quello cinese rispetto a quello americano.
–Che ruolo ha oggi la finanza rispetto al sistema industriale e se secondo lei figure come quelle dei manager della Silicon Valley dimostrano la fine della gestione collegiale delle imprese?
Una caratteristica fondamentale del sistema industriale nei primi tre decenni del secondo dopoguerra fu il ruolo subordinato della Grande Finanza alla corporazione industriale. La maggior parte delle grandi società americane erano redditizie e finanziavano i loro nuovi progetti in gran parte con gli utili non distribuiti. Questo comportamento è stato fortemente favorito dal codice tributario, che tassava pesantemente gli utili distribuiti ma consentiva ampie detrazioni per gli investimenti. L’attività scientifica aziendale è stata svolta da professionisti stipendiati. Anche le elevate aliquote marginali dell’imposta sul reddito delle persone fisiche hanno tenuto sotto controllo la remunerazione dei dirigenti aziendali. Non è un caso che questa fosse un’epoca di costruzione iconica delle sedi aziendali (lo skyline di Manhattan, in particolare, prima che fosse rovinato dai condomini a molti piani). Le grandi banche americane erano generalmente limitate nelle loro operazioni, i tassi di interesse erano regolamentati, il finanziamento ipotecario era in gran parte separato dalle banche commerciali e c’era una netta separazione tra banche commerciali e di investimento. Quindi le dimensioni e il potere del settore bancario all’interno degli Stati Uniti erano di gran lunga inferiori a quelli che sono diventati da allora. La grande finanza iniziò a sfuggire alla regolamentazione con il crollo di Bretton Woods nel 1971, il riciclaggio globale dei petrodollari dopo il 1973, l’uso di alti tassi di interesse per “combattere l’inflazione” a metà e alla fine degli anni ’70 e una spinta concertata per abrogare il New Deal. Questi provvedimenti sono culminati in una sostanziale deregolamentazione del settore finanziario negli anni ’80, ’90 e negli anni 2000, con anche una riduzione dei fondi e del personale delle agenzie di applicazione della regolamentazione. Il settore tecnologico si separò dalla società industriale negli anni ’80, quando quest’ultima iniziò a fallire a causa degli alti tassi di interesse, del dollaro sopravvalutato e della concorrenza estera. La grande finanza lo ha reso possibile e ha reso possibile alla tecnostruttura delle aziende di tecnologia dell’informazione di catturare le valutazioni del capitale delle loro tecnologie. Ha trasformato i laboratori aziendali in iniziative speculative, estremamente ben pagate ma estremamente instabili. Ne ho scritto in due libri: “Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future” (1989) e “Created Unequal” (1998). L’ampio contrasto che vorrei tracciare con l’era della società industriale è che, in quell’epoca, c’erano criteri ragionevoli su ciò che avrebbe costituito un buon investimento. Non perfetto, ma ragionevole. Il design, l’invenzione, l’ingegneria e il marketing giocavano un ruolo, c’erano incertezze in ogni funzione, ma la qualità dei team che svolgevano ogni attività poteva, in modo ragionevole, essere valutata da coloro che prendevano le decisioni per fornire finanziamenti. Nell’era post-industriale, le decisioni vengono prese dagli analisti finanziari – dagli operatori di Wall Street – che mancano di capacità indipendenti, sono vulnerabili all’hype e alle frodi e spesso possono essere loro stessi complici delle frodi. Gli ingegneri finanziari non sono veri ingegneri, ovviamente. Il risultato non sorprendente furono ondate di speculazioni finanziarie: risparmi e prestiti, Internet, il boom dei mutui subprime. Ognuno ha portato a un incidente nel giro di un decennio. Senza regolatori aggressivi, indipendenti e competenti, sostenuti dalle forze dell’ordine, i problemi continuano a ripresentarsi. I risparmi e i prestiti erano massicciamente fraudolenti. Molte società del digitale negli anni ’90 erano basate su modelli di business ridicoli. L’intero settore dei mutui subprime, insieme ai rating e alle cartolarizzazioni, avevano una impostazione fallace. Siamo ormai entrati nella prossima ondata di questo tipo di attività. Nel caso più recente, abbiamo ad esempio broker di criptovalute, che hanno esasperato le pericolosità del sistema finanziario rispetto ai già disastrosi precedenti che avevamo potuto osservare. Diventa abbastanza chiaro che il sistema, così com’è, manca di controlli sia interni che esterni. È improbabile che tali controlli possano essere ripristinati, anche se la classe politica si muove in questo orizzonte.
–Circa sessant’anni dopo, quanto è attuale la visione dell’economia e del sistema economico americano proposta da John K. Galbraith nel suo “Il nuovo stato industriale”?
Come visione dell’economia americana, il ritratto di mio padre del ruolo dominante delle grandi corporazioni industriali è stato superato dagli eventi. La General Motors è fallita alcuni anni fa. General Electric si sta scomponendo in tre società specializzate, nessuna delle quali legata al core business degli elettrodomestici. Molte altre grandi aziende di quell’epoca non esistono più. Invece la finanza ha recuperato il suo ruolo centrale nell’economia americana, insieme ai settori tecnologico e sanitario e militare-industriale. Questa è una situazione squilibrata e instabile. Tuttavia, esistono ancora aziende del tipo descritto da mio padre: grandi aziende avanzate, ingegneristiche e manifatturiere. Rimangono dominanti in Germania, Giappone, Corea, Cina e probabilmente anche nella Federazione Russa. In tutti questi paesi, mio padre ha goduto di un’influenza diretta o indiretta e la sua eredità intellettuale è ancora riconosciuta. Naturalmente si possono vedere le conseguenze nei modelli del commercio mondiale e nell’equilibrio della forza manifatturiera.
–Pensa che oggi siamo passati da una tecnostruttura industriale a una tecnostruttura digitale e high tech? Il ruolo, un tempo del circuito industriale, è stato assunto oggi da big tech e corporate legate ai social network?
Come prevedevo già nel 1989 in un libro intitolato “Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future” – che all’epoca fece poco successo – il settore tecnologico e quello finanziario sono oggi i poli dominanti del sistema economico americano. È lì che si concentrano ricchezza e potere, a parte (di nuovo) le imprese aerospaziali e militare-industriali. Tuttavia, la concentrazione è così estrema che solo una piccolissima parte della popolazione e della superficie del Paese si trova nell’orbita diretta di questi settori. Alcuni anni fa abbiamo calcolato che nel boom tecnologico della fine degli anni ’90, la metà dell’aumento della disparità di reddito misurata tra le 3150 contee degli Stati Uniti era dovuta all’aumento del reddito in sole cinque contee: New York, New York (Manhattan); tre contee nel nord della California (Silicon Valley); e King County Washington, che è Seattle, che è Microsoft. Da allora c’è stata una certa diffusione della ricchezza, ma non così tanto estesa da essere rilevante. La maggior parte del paese vive con l’occupazione nel settore dei servizi. E nel settore immobiliare e dell’edilizia residenziale, che sono sempre stati una parte importante dell’economia americana, i costi delle abitazioni sono ora stimati in oltre il 30% dell’indice dei prezzi al consumo.
–Il ruolo del proletariato e della forza lavoro in questo “Nuovo stato digitale” è oggi svolto dal capitale e dai mezzi tecnici che sostituiscono il peso sociale della forza lavoro? Penso di no. I mezzi tecnici sono cresciuti per esercitare un ampio grado di controllo sulla forza lavoro, in particolare (ad esempio) nella distribuzione di merci (Amazon, Wal-Mart) e nei trasporti (Uber, Lyft) e così via. Ma la forza lavoro in sé è ancora vasta e praticamente tutti i nuovi posti di lavoro negli ultimi decenni sono stati nel settore dei servizi. Quello che sta accadendo ora – dal 2000, più dal 2008 e ancora di più dalla pandemia – è stato un ritiro di un certo numero di persone dalla forza lavoro attiva. Un discreto numero è andato in pensione, spesso alla prima età della previdenza sociale, che è di 62 anni; altri erano lavoratori supplementari nelle loro famiglie che decisero che il lavoro (e le spese associate) non valevano la pena. Questo è il motivo per cui il tasso di disoccupazione è così basso: cattura solo coloro che sono in cerca di lavoro. In termini di “peso sociale” – questa è una grande difficoltà della forza lavoro oggi. I lavoratori dei servizi hanno scarso potere contrattuale ed è molto difficile per loro trovare ed esercitare una voce politica comune.
–Quanto sono attuali le critiche che fa nel suo “The predator state” delle amministrazioni GOP e cosa è cambiato in meglio o in peggio negli ultimi anni?
“The Predator State” è stato scritto durante un’amministrazione (Bush-Cheney) particolarmente aggressiva nell’erodere le assicurazioni sociali al fine di arricchire gli interessi commerciali e industriali, e in un momento in cui la bandiera rossa dei deficit di bilancio (ha creato in parte da ampi tagli fiscali) è stata agitata per promuovere la privatizzazione dei programmi pubblici. È stato anche il momento della deregolamentazione e depenalizzazione della finanza che ha portato a massicce frodi finanziarie; la crisi del 2007-2009 ne è stata la conseguenza. Queste tendenze non sono scomparse, anche se penso che le minacce alla Social Security, Medicare e Medicaid potrebbero non essere così gravi come prima, e i deficit della pandemia hanno mostrato chiaramente quanto si potrebbe fare per sostenere le entrate pubbliche senza danneggiare il credito del governo. Forse l’elemento più aggressivo dello stato predatore al momento è il complesso militare-industriale.
–Cosa ne pensa del ruolo delle grandi aziende durante la pandemia e la crisi internazionale?
Durante la pandemia, ingenti prestiti e sovvenzioni sono andati a sostenere la struttura allora esistente del business americano, comprese le compagnie aeree, il settore dell’ospitalità e molto altro che non verrà riportato ai precedenti livelli di attività. È difficile immaginare cosa si sarebbe potuto fare altrimenti nell’emergenza, ma ora che l’emergenza immediata è passata, i cambiamenti strutturali operati dalla pandemia si svilupperanno nel tempo. La transizione più ampia, che potrebbe essere verso un settore degli investimenti focalizzato su risorse (sempre più scarse e costose), in particolare l’energia e comprese le rinnovabili, e lontano dai settori legacy (sempre più non redditizi), sarà dolorosa, indipendentemente da come verrà gestita. La guerra in Ucraina è una miniera d’oro per le grandi aziende militari-industriali, che continueranno a trarre profitto dagli ordini di sostituzione per le scorte di munizioni esaurite per molti anni dopo la fine della guerra. Penso che la maggior parte dei contratti concessi dal febbraio 2022 non avrà alcun effetto sulla situazione sul campo, perché i tassi di produzione sono troppo bassi e i tassi di utilizzo sono troppo alti per essere compensati da una nuova produzione finché durano i combattimenti. Forse la lezione chiave dell’attuale guerra sarà l’inutilità delle attuali strutture del potere militare statunitense, ma ci sono ancora pochi segnali che questa lezione sia stata appresa.
–Quali sono i suoi riferimenti culturali?
Una grande domanda! Tra gli economisti, Thorstein Veblen e John Maynard Keynes sono stati fondamentali nella mia formazione, sebbene io sia diventato più istituzionalista ed evoluzionista nel corso degli anni, e meno keynesiano nel senso comune del termine. Veblen è sempre un piacere rileggerlo. Il mio apprezzamento per Keynes si basa soprattutto sulla sua comprensione del ruolo della psicologia sociale nel più ampio schema della vita economica, e sono orgoglioso di un saggio che ho scritto molti anni fa sull’ispirazione che ha tratto da Einstein. Non sono un gran lettore di testi filosofici, ma allo stesso tempo sono molto attratto dalla comprensione della tradizione pragmatista; suppongo che questo abbia un collegamento con la mia prima carriera nello staff del Congresso. In letteratura, i miei gusti vanno maggiormente verso gli autori dell’età dell’argento sovietica, come Bulgakov per molti anni, Krzhizhanovsky e Tynyanov più recentemente; ciò è dovuto, credo, alla loro combinazione di sensibilità allegorica con un apprezzamento dell’assurdità della vita moderna. Il mio autore italiano preferito, veneziano nello specifico, è ovviamente Casanova. Finora ho letto circa 2.500 pagine dell’edizione in tre volumi LeBorgne/Igalens di “Histoire de ma Vie”, e non c’è una frase che non sia indimenticabile o che sia semplicemente superflua in nessuna di esse.
Polini: “L’economia circolare non deve essere solo una sfida ma una opportunità”
Di Francesco Subiaco
Per Michele Polini, funzionario del Partito Repubblicano Italiano e candidato con la lista civica D’Amato Presidente alle Regionali del 12 e 13 febbraio, non si può pensare l’azione politica se non si considera la centralità della parola “sostenibilità”. Un termine che non vuol dire solo ridurre l’impronta climatica all’interno dei processi produttivi del nostro tessuto economico e sociale, ma vuol dire soprattutto pensare l’azione politica guardando alla simultaneità degli agenti sociali. Sapendo coniugare concorrenza e libertà d’impresa con la tutela della piccola e media imprenditoria locale, lo sviluppo economico e l’economia circolare, le sfide del PNRR e gli obiettivi del rispetto dell’ambiente. Sostenibilità, imprese, futuro su questi temi, per il candidato repubblicano, si deve giocare la partita per la Regione Lazio, per coniugare le tradizioni del territorio e una voglia di innovazione che vuole restituire al Lazio un respiro europeo. Per meglio comprendere le idee del candidato Michele Polini lo abbiamo intervistato per la nostra testata.
– Quali sono per lei gli obiettivi fondamentali che dovrebbe avere la futura giunta regionale? Ci sono molte tematiche contenute nel programma di Alessio D’Amato che abbiamo condiviso nel momento in cui abbiamo scelto di essere candidati nella Lista Civica per D’Amato Presidente come Partito Repubblicano Italiano. La futura giunta regionale dovrebbe avere la massima attenzione allo sviluppo ed all’attuazione, la così detta messa a terra, dei progetti finanziati dal PNRR. Ora più che mai la futura giunta regionale dovrà lavorare in maniera attenta e sinergica con le amministrazioni locali ed in particolare con l’amministrazione di Roma Capitale, per utilizzare appieno ed al meglio le risorse provenienti dal PNRR, che sono una grande opportunità di cambiamento e sviluppo della nostra regione e della Capitale, che può diventare guida per tutto il Paese e per l’Europa intera. Come è già successo durante l’emergenza pandemica, dove grazie all’azione di Zingaretti, Presidente della Regione, ma soprattutto grazie all’azione pensata ed attuata con competenza, professionalità, efficienza ed efficacia da Alessio D’Amato, la Regione Lazio ha potuto limitare al massimo i danni del covid 19 ed essere nel contempo regione presa a modello in Italia ed in Europa per il sistema di vaccinazioni, di prenotazione e contenimento dell’emergenza pandemica. È indispensabile che l’occasione offerta dal PNRR non vada dispersa e possa essere una vera occasione utilizzata al meglio per pensare ad una Regione moderna che guardi al futuro.
–Quanto sarà importante l’attenzione per le piccole e medie imprese nell’azione della candidatura del presidente D’Amato? Le piccole e medie imprese rappresentano nel tessuto economico nazionale una solida realtà, propria della cultura e tradizione italiana, che ha garantito anche in momenti difficili condizioni economiche e sociali di stabilità e di sicurezza, occupazione ed economia, fondamentali durante le crisi finanziarie e durante la pandemia covid 19 ed anche ora che viviamo gli effetti della guerra in Ucraina. Il Presidente D’Amato ha pensato ad un programma che punti oltre che al reddito di formazione, che mira alla formazione mirata per i giovani in cerca di prima occupazione, al rilancio della nostra economia basata su tre direttrici: innovazione, ricerca e sviluppo. Le misure pensate sono quelle di incentivi per promuovere gli investimenti nelle tecnologie digitali e green; una nuova rete di servizi informativi e di assistenza per le aziende; un programma di formazione 4.0 pe la diffusione di nuove competenze; il rafforzamento della sinergia tra impresa e ricerca, con progetti innovativi come “Rome Technopole” e “10Kmdi scienza”.
–Perché ha scelto di candidarsi e quali saranno le principali battaglie che l’unione romana vuole portare avanti per questa tornata elettorale? La scelta di candidarmi nasce dall’aver individuato in Alessio D’Amato le qualità e le competenze utili e necessarie affinchè il Lazio possa essere una Regione moderna che guardi al futuro. La scelta passa anche per una ragione prettamente politica, ovvero quella di dare esatta identificabilità alla presenza del Partito Repubblicano Italiano nella competizione elettorale, essendo io il Segretario Politico dell’Unione Romana ed il Coordinatore del Lazio, nonché componente della Direzione Nazionale del Partito. La mia candidatura rappresenta pertanto un impegno diretto e politicamente qualificato del PRI, utile a consentire agli amici repubblicani l’individuabilità della nostra partecipazione. La mia azione punta su tre punti in particolare: 1) potenziamento della raccolta differenziata (in particolare a Roma) e creazione di Impianti di trattamento e riciclaggio di rifiuti, secondo i principi dell’economia circolare ed in attuazione di uno dei pilastri del PNRR legati alla transizione ecologica, con l’intento di utilizzare al meglio le opportunità e gli strumenti offerti dal PNRR; 2) rafforzamento e integrazione del sistema viario e del trasporto pubblico regionale: da attuarsi con una razionalizzazione dei sistemi di trasporto, volto a portare una migliore fruizione della rete dei trasporti pubblici regionali e che favorisca una maggiore capacità dei sistemi di trasporto pubblico di offrire opportunità di movimento che abbiano il più possibile minor impatto sull’ambiente e sulla qualità di vita dei cittadini; 3) creazione di circuiti culturali, artistici, turistici, enogastronomici volti a valorizzare le realtà e le bellezze del Lazio, con attenzione alla storia, cultura e tradizioni locali, per favorire sviluppo economico, opportunità lavorative per i giovani e per consolidare le attività esistenti senza che siano disperse. Questo valorizzando e qualificando al massimo l’offerta culturale ed artistica della Capitale, inserendo circuiti turistici, culturali e tradizionali delle altre provincie del Lazio, al fine di avere un’offerta il più ampia e variegata possibile (mare montagna, collina, art, cultura, storia, tradizioni, etc.) ed unica al mondo.
–Quali sono i riferimenti culturali di Michele Polini? I miei riferimenti culturali sono quelli del libero pensiero, di una visione laica della società, dove l’uomo è parte integrante di un sistema naturale, di cui deve rispettarne principi e valori e vivere in equilibrio con esso. Ritengo che occorra pensare ad una società che veda tornare al centro dell’attenzione l’essere umano, questo è per me fondamentale. In questo il pensiero mazziniano di rispetto e di considerazione dell’uomo quale elemento fondamentale della società, della sua realizzazione in una società di eguali e dove tutti hanno diritto ad avere la stessa dignità di uomini, rispettando le diversità altrui, trovo sia la chiave di lettura di una visione attualissima. Il pensiero repubblicano riesce a cogliere lo spirito mazziniano e sintetizzarlo in una declinazione politica di grande attualità, per questo ritengo che il Partito Repubblicano Italiano, di cui mi onoro di fare parte, rappresenta una grande opportunità di valori e principi, ma soprattutto di grande ispirazione per la politica nazionale, in questo momento dove la politica sembra aver perso definitivamente la propria funzione ed il rapporto con i cittadini.
–Quanto è importante per lei il tema del green e dell’economia circolare per una nuova gestione della regione Lazio? Ritengo la tematica prioritaria e di assoluto interesse per immaginare una regione che possa guardare al futuro e al benessere dei propri cittadini. Le diverse risorse messe a disposizione dal PNRR offrono occasioni importanti per la realizzazione di un adeguato piano regionale che veda tra i suoi interventi prioritari ed immediati la realizzazione di impianti di trattamento, rigenerazione e riciclaggio dei rifiuti, realizzati secondo i principi dell’economia circolare. La creazione di impianti specifici di trattamento consentirebbe l’immissione nel sistema produttivo delle così dette “materie prime seconde”, risultanti dal trattamento di particolari categorie di rifiuti ed in alcuni casi consentirebbe la cogenerazione di energia, con vantaggio di riduzione delle dispersioni inquinanti (percolati ed altro) ed il ricorso ad una fonte energetica alternativa. L’attuazione di adeguate politiche che realizzino la transizione ecologica, uno dei pilastri del PNRR, passano anche attraverso la realizzazione delle Comunità Energetiche Rinnovabili, che rappresentano un utile risorsa per limitare l’accesso alle fonti energetiche di produzione da idrocarburi e gas, e veda invece il ricorso alle fonti rinnovabili, puntando sempre di più ad un efficientamento energetico, ad un più consapevole utilizzo delle risorse naturali esauribili e ad un ricorso sempre più importante a fonti alternative (pannelli solari, ……..).
Confessioni di un governatore. Intervista ad Attilio Fontana
Di Francesco Subiaco
Attilio Fontana, 70 anni, avvocato, una carriera nell’amministrazione e nel rapporto con il territorio. Sindaco, presidente dell’assemblea dei sindaci, presidente della regione, candidato a questa tornata elettorale per rinnovare il suo secondo mandato come governatore della Regione Lombardia. Eccellente amministratore, volto moderato e responsabile della Lega, che ha attraversato dagli inizi della Lega Lombarda passando per la svolta salviniana e l’attualità, di cui oggi è uno dei più noti ed apprezzati esponenti. Da sempre legato alla cultura liberaldemocratica, si ricandida a questa tornata elettorale con un programma e un pareterre di candidati capace di far convergere conservatori e liberali, leghisti e centristi, popolari e mazziniani (tra i candidati della sua lista Civica spiccano infatti anche i repubblicani Valerio Massimo Antonelli e Silvia Gioventù del Pri lombardo) in una proposta politica capace di conciliare responsabilità e connessione sentimentale nazionalpopolare, senso delle istituzioni e legame col territorio, l’autonomia con la coscienza nazionale. Fontana è nell’immaginario collettivo “il governatore” per antonomasia, il rappresentante di un centrodestra che non solo vuole incarnare le istanze popolari, ma soprattutto trasformarle nell’anima delle istituzioni, che sa guardare oltre le ideologie in nome di una visione dell’amministrazione pragmatica e concreta.
–Presidente Fontana, Lei ha guidato la regione Lombardia durante un periodo durissimo come quella della zona rossa e della pandemia. Che ricordo ha di quei giorni e come ha vissuto quella stagione così complessa? Non scorderò mai le notti a studiare un nemico invisibile che nessuno ci aveva preparato ad affrontare. Abbiamo fatto tutto quello che era possibile fare per salvare il maggior numero di persone. Il dolore per chi ha perso la vita e per le loro famiglie sarà sempre una ferita aperta nel mio cuore. Senza dubbio la difficoltà più grande è stata far comprendere a Roma che la situazione in Lombardia era più grave di quello che loro percepivano. Nel primo periodo ci siamo sentiti abbandonati. Il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza il 31 gennaio 2020, ma non si è preoccupato, pur avendone la competenza esclusiva, di fare provviste di dispositivi e macchinari che poi sarebbero stati essenziali per il personale sanitario. C’è stata una grande sottovalutazione del problema, il resto è storia. Come dicono anche all’Estero se il covid avesse colpito un’altra regione, soprattutto del sud, gli effetti avrebbero potuto essere ben più drammatici. Il nostro eccellente sistema sanitario ha arginato e gestito al meglio una situazione pazzesca.
–Come giudica la sua esperienza di governatore e quali sono stati i momenti più importanti e significativi del suo mandato? È stato un privilegio per me guidare la regione definita locomotiva d’Italia e motore d’Europa. Tra i momenti più significativi di questo mandato c’è sicuramente la gioia per l’aggiudicazione delle Olimpiadi 2026 e poi la ripartenza dopo la pandemia. Il grande piano vaccinale, portato avanti da Bertolaso che ci ha consentito di mettere al sicuro il 91% dei lombardi sopra i 5 anni e il 94% degli over 12, una percentuale che ci ha visto primeggiare non solo in Italia, ma in Europa. Poi il ‘Piano Lombardia’ concepito e lanciato per sostenere la nostra economia e dare un messaggio di speranza. Oltre 8000 interventi ammessi e finanziati per 3mld e 640 milioni, 5700 cantieri aperti e 2700 completati da parte di comuni, province e altri soggetti pubblici. Un investimento di 4,2 miliardi di euro di risorse regionali che ne ha generato da parte degli enti locali ulteriori 2,3. Si stima che il Piano abbia prodotto un incremento del Pil regionale dello 0,8 per cento, con un incremento della occupazione di circa 36mila unità in Lombardia e di altri 12mila fuori regione. Siamo molto orgogliosi di questa scelta che, di fatto, ha anticipato di oltre un anno il Pnrr, e soprattutto perché l’abbiamo realizzata lavorando in sinergia con i Comuni.
-Che considerazioni trae riguardo la prosecuzione del progetto di autonomia differenziata? E come risponde alle critiche mosse al suo partito riguardo questo tema? Alle critiche rispondono i fatti e questi dicono che l’attuazione dell’autonomia differenziata per la Regione Lombardia è un problema politico nazionale e su questo, mi pare, ci sia coesione nella maggioranza e penso che potrà arrivare nel 2023. Anche il presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è resa conto che questa riforma guarda al futuro e all’efficienza degli Enti locali e dei servizi ai cittadini. Il ministro per le Autonomie Roberto Calderoli sta facendo un pressing su tutti i governatori del sud e sta cercando di spiegare come questa riforma sia utile anche per loro. Anche se con qualche sfaccettatura diversa da parte di tutti c’è disponibilità.
–Quali saranno i principali temi su cui verterà la sua candidatura e quali le battaglie saranno prioritarie in caso venisse rieletto? La vision strategica per la Lombardia del futuro ha l’obiettivo di mantenere il suo posizionamento come leader nazionale e di migliorare la propria attrattività internazionale, avendo come punto di riferimento le persone e il miglioramento della loro qualità della vita e agendo su alcuni driver principali: le infrastrutture materiali e digitali, per connettere il territorio in tutte le sue aree e permettere di cogliere le opportunità legate alle trasformazioni tecnologiche anche in un’ottica di transizione ecologica; il sistema dei servizi al cittadino, mantenendo un ecosistema che permetta lo sviluppo delle potenzialità individuali, partendo dal benessere delle persone e sostenendo cittadini e famiglie; gli investimenti sul capitale umano come driver per migliorare competitività e produttività, integrando tra loro le filiere scuola, formazione, lavoro e impresa per garantire lo sviluppo delle competenze del futuro; le strategie di sviluppo territoriale per una Smart Land sempre più connessa e resiliente, potenziando la coesione e l’inclusione sociale e valorizzando il patrimonio paesaggistico e culturale della Regione e, al contempo, garantendo lo sviluppo sostenibile e la protezione delle biodiversità.
-Che opinione ha della possibilità di un ritorno del nucleare in Italia? Credo che il nucleare di ultima generazione sia sicuramente da prendere in considerazione, a patto che sia data ogni tipo di garanzia ai cittadini. Sono ottimista, visto lo sviluppo che sta avendo nel mondo. Viene considerato sostenibile anche da un punto di vista ambientale e infatti l’Europa lo prevede come una delle forme di approvvigionamento energetico.
–Quali sono stati i momenti più importanti del suo percorso politico e quali la hanno formata di più? Sicuramente l’avvicinamento alla Lega. Nella prima fase come osservatore, affascinato dal discorso delle Autonomie. Poi senza dubbio tutti gli incarichi assunti come amministratore, ognuno mi ha dato qualcosa: da sindaco di una piccola cittadina come Induno Olona, a presidente del Consiglio Regionale, a nuovamente sindaco, ma stavolta di una città più grande, a presidente di tutta l’assemblea dei sindaci lombardi e infine l’incarico ancora più impegnativo come presidente di Regione Lombardia.
-Quali sono i riferimenti culturali di Attilio Fontana? Il mio riferimento culturale è stato negli anni della formazione quello del Partito liberale. Mio padre era un simpatizzante e io l’ho seguito. Avevo stima soprattutto per Malagodi.
Spiritismo tecnico. Come le satrapie digitali hanno riscoperto la magia
Di Francesco Subiaco
Magia, potere e alta tecnologia si sono sempre strettamente intrecciati sin dall’origine delle società umane. Stregoni, maghi, alchimisti e cartomanti hanno accompagnato per peso ed influenza scienziati, tecnici e studiosi in tutta la storia del potere. Dalle profezie del consigliere della corona John Dee ai rituali esoterici del regime nazista, dai bagni di misticismo e sciamanesimo del potere sovietico alle witchcraft e alle reti di medium ed astrologi che hanno accompagnato le sfide dell’anglosfera dagli anni 40 in poi, il potere non ha mai abbandonato la sua matrice oscura e rituale della sua origine. Anche il nostro secolo non sfugge a questo legame eterno. La magia, come la tecnologia, si esprime attraverso un linguaggio fatto di metafore ed allusioni, un linguaggio simbolico che come quello della scienza è inaccessibile ai più e incomprensibile ai non iniziati, confermando l’idea dello scrittore Arthur Clarke, che nella sua terza omonima legge diceva che “qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia“. Una visione magica, irrazionale ed alogica che sembrerebbe paradossale nel mondo del razionalismo e del trionfo di una visione scientista se questo binomio di un mondo dalla doppia anima quella superstiziosa, stregonesca e mistica e un altra razionale, tecnica, algoritmica non fosse in realtà soltanto un paradosso apparente. Da questa intuizione parte il saggio di Andrea Venanzoni,“Il trono oscuro”(Luiss Press) che compie non solo una controstoria del rapporto tra potere costituito e magia ed irrazionale, ma allo stesso tempo indaga le pieghe e le contraddizioni di un mondo digitale e virtuale che si nutre di occulto, di mistero, di sigilli. Il mondo del cosiddetto “elettrocene”, l’epoca in cui rotto il sigillo del materialismo l’umanità si riduce a informazione ed a mezzo di condivisione di informazioni, che è caratterizzato da una società dematerializzata dove il virtuale, l’intelligenza artificiale, i social e le nuove scoperte dell’informatica, pongono le fondamenta di una esistenza immersiva in cui reale e virtuali si fondono e in cui la dimensione simbolica, pubblicitaria o esoterica, prende il sopravvento sulla realtà fenomenica. La vita umana sradicata da ogni legame con un ordine terrestre, fatto di comunità, credenze e tradizioni, si rifugia nei paradisi artificiali offerti dalla tecnica, rintanandosi in una vita anestetizzata che fa dell’uomo un feticcio delle sue “conquiste”. La religione, il sacro e l’ideologia perdono peso nelle società modernizzate, ma ad un ordine terrestre che tramonta segue un nuovo ordine, aereiforme ed immateriale, che sorge con le sue ritualità ed i suoi culti, trovando fondamento in una nuova magia hi-tech che è la base di uno spiritismo tecnico, superstizioso ed alchemico, che fiorisce nel bel mezzo del nuovo Eden della civiltà del codice e degli algoritmi. Uno spiritismo che è la sublimazione di una esigenza spirituale che viene surrogata dalla tecnica e dalle sue promesse. Infatti “il paradosso però è davvero solo apparente- dice Venanzoni nel suo saggio- emerge una innegabile centralità della magia nelle maglie sociali del mondo moderno, e tecnologico in particolare: questo processo ha determinato il paradosso di cui sopra, quello di una, solo apparente, espunzione del magico dal campo di azione del moderno a opera della espansione delle logiche tecniche e di progresso, le quali hanno però introiettato nel loro ventre la dinamica costitutiva del magico stesso. Una sorta di cannibalizzazione psichica che prelude alla costruzione di una magia hi-tech. Questo perché all’aumentare della complessità dei processi costitutivi dei fattori tecnologici, della loro sempre più ardua comprensibilità, al rendersi opaco e fantasmatico del linguaggio dei saperi tecnici, corrisponde il necessitato strumento di riduzione della complessità: la magia diventa tool per soluzioni gordiane, per azzerare la difficoltà di risoluzione dei problemi e per far ottenere quanto si vuole, senza, in apparenza, passaggi intermedi”. In questa ottica gli strumenti della tecnica si caricano di significati profondi ed oscuri che resuscitano vecchi miti ancestrali, come il mito di Agartha, e paure archetipiche in una nuova sintesi in cui gli hacker, gli scienziati, i teorici del transumano diventano gli eredi delle funzioni che in passato furono dei maghi, dei corsari, dei santoni, come indagatori e conquistatori di nuove frontiere del possibile, delle possibilità di una altra parte ignota e virtuale. La rete diventa quindi non più solo uno strumento di comunicazione ma un grande subconscio collettivo in cui gli uomini proiettano i propri desideri, i propri sortilegi, facendosi il veicolo perfetto di un nuovo misticismo gnostico che non vuole più connettere l’uomo a dio, ma vuole trasformare l’uomo in una divinità superando i confini del corpo e della terrestrita in nome della singolarità. Un tecnognosticismo che è l’ideologia tacita del mondo della Sylicon Valley, come sottolinea Venanzoni nel suo saggio, poiché, non casualmente, molti dei titani dell’Hi-Tech portano dei marchi di fabbrica simili a sigilli magici: dalla Oracle alla Alphabet passando per la Palantir, moltissime società del digitale, le quali albergano in quella terra cava che è la valle del silicio, tra meditazione trascendentale, misticismo hindu, Zen, occultismo postmoderno con salde radici in California, retaggi della beat generation e della psichedelia, coltivano l’ambizione di plasmare una umanità nuova, che avrà come punto di partenza il superamento della condizione umana forgiata da una vocazione che fonde spiritismo e postumano, Fulcanelli e Neurolink. “Il punto però è che l’ambizione di questo tecnognosticismo della Silicon Valley non è quella di liberare l’individuo dalla sporcizia imperfetta del mondo, ma semplicemente ingenerare una via di fuga in un sottomondo la cui imperfezione rimarrà del tutto palese ed evidente” trasformando la vita in “una mera simulazione, di una sostituzione”. Il mondo si trasforma in una piattaforma immersiva senza confini e senza legami, la rete diventa una cabala elettronica di collegamenti ipertestuali e iperstizionali, le fedi e i culti vengono sostituiti da religioni aziendali e dalla fidelizzazione ai brand, influencer come stregoni e demiurghi creano contenuti immateriali dal valore inenarrabile. Parafrasando quello che scrisse Frazer nel suo “Il ramo d’oro”: “Il selvaggio difficilmente concepisce la distinzione comunemente tracciata dai popoli civili tra il naturale e il soprannaturale/virtuale. Per lui, il mondo è in gran parte determinato da agenti soprannaturali/virtuali, ossia da esseri impersonali che agiscono per impulsi e motivi simili ai suoi, e passibili quanto lui di essere influenzati da appelli alla loro pietà, alle loro speranze, ai loro timori”. Ridotto a feticcio delle utopie transumane l’uomo si trasforma in un selvaggio contemporaneo rinchiuso in caverne di metallo urlante e vittima di spiriti informatici, addotto da sciamani transumani, inconsapevole ed anonimo spettatore di una preistoria ipertecnica. In questo scenario le satrapie digitali dell High tech, divise tra sogno collettivo transumano e deriva libertariana nichilista oscura, scelgono la strada del magico, del simbolico, di una lotta neostregonesca tra tra big state e big tech per ridefinire un mondo in cui l’umano non solo non è gradito ma soprattutto non è richiesto.
L’Italia vista da un liberale. Intervista a Angelo Panebianco
Di Francesco Subiaco
È una controstoria dell’Italia vista da una prospettiva laica e radicale quella scritta dal professor Angelo Panebianco e da Massimo Teodori, che nel loro ultimo saggio, “La parabola della Repubblica. Ascesa e declino dell’Italia liberale”(Solferino). In questo testo Panebianco e Teodori raccontano controcorrente la storia del nostro paese vista dal un punto di vista repubblicano, libertario, liberale e radicale, oltre i pregiudizi e le calunnie di cui è vittima questa tradizione di minoranza. Una storia che parte dai delitti eccellenti del fascismo, da Gobetti e Amendola, fino alla ricostruzione, che passa per Einaudi, Pacciardi e Parri fino a Spadolini, Pannella e Malagodi, raccontando una altra Italia, Risorgimentale e eterodossa, liberale e libertina, che agognava la modernità e anelava una società libera dai dogmatismi delle due grandi chiese dell’Italia repubblicana, quella comunista e quella clericale. Una storia fatta di protagonisti che hanno segnato per sempre la storia nazionale nonostante il peso minoritario della loro tradizione, dalle prediche inutili di Einaudi alla Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, fino alla contemporaneità, mostrando come costante la volontà di costruire un’Italia diversa, fondata sull’individuo e sulle sfide della modernità. Tramite le pagine di Panebianco si scoprono le dinamiche di una Italia che esita e traspare oltre le risse del cattocomunismo e che sogna un avvenire diverso ispirato ai principi della democrazia liberale, fatta di grandi occasioni perse e straordinari esempi di uomini che hanno fondato e cambiato per sempre le nostre istituzioni. Per parlare di questa controstoria italiana abbiamo intervistato il Professor Panebianco tra gli editorialisti più acuti e pungenti del Corriere della sera che attraverso il suo lavoro accademico ha diffuso e analizzato i grandi temi del pensiero liberale.
–La cultura laica e liberale in Italia nonostante l’influenza e i successi ottenuti è un progetto minoritario e ancora incompiuto da cui si potrebbe trarre molto? È stata soprattutto una tradizione di minoranza che ha contato di più nella storia del nostro paese di quanto fosse la sua consistenza elettorale reale. Ciò è dovuto a varie ragioni, soprattutto internazionali, poiché dopo l’ottocento la cultura liberale diventò una cultura politica minoritaria e divissima nel paese, che nonostante queste problematiche svolse un peso culturale nella storia italiana, dall’unità d’Italia al presente, fondamentale.
–Che giudizio trae della figura sciamanica e libertariana di Marco Pannella? Il suo Partito Radicale nonostante le numerosi battaglie modernizzatrici ha rappresentato una rivoluzione incompiuta per il liberalismo? Quella di Marco Pannella fu certamente una rivoluzione incompiuta, causata da due fattori che spiego ampiamente nel libro. Il primo fattore è dato dalle circostanze, poiché Pannella attraverso il Partito Radicale voleva “conquistare” il Partito Socialista per trasformarlo in un “Partito liberale di massa” a cui avrebbe attribuito una tendenza profondamente radicale che avrebbe sconvolto i quadri politici del paese. Un tentativo che purtroppo nel 1979 non gli riuscì, soprattutto perché in quegli anni si insediò nel Psi la leadership di Bettino Craxi che ne sconvolse il destino. L’altro fattore è dato dai limiti caratteriali di Pannella, che non è mai riuscito ad essere un aggregatore ed un mediatore e per questo è stato incapace di conciliare e mediare posizioni diverse che gli avrebbero permesso di realizzare il suo progetto. La sua era una operazione molto a la Mitterand che non poteva essere svolta da una personalità come Pannella, che aveva certamente portato delle notevoli innovazioni modernizzatrici nella politica italiana col suo Partito Radicale, ma che allo stesso tempo non riuscì a compiere un salto di qualità capace di compiere il suo progetto e soprattutto di realizzare una rivoluzione liberale nel paese.
-Durante la stagione del centrismo degasperiano che ruolo hanno giocato figure come Pacciardi, Einaudi, Croce, La Malfa, nonostante il peso elettorale minoritario, nella ricostruzione del paese? Basta solo ricordare i nomi di questi statisti per vedere quanto le personalità abbiano un peso enorme in politica. Infatti nonostante essi appartengano a culture politiche con un peso elettorale minoritario, sono riusciti a rappresentare questa tradizione attraverso ruoli decisivi nella storia del nostro paese che superano la consistenza elettorale del Pri, del Pli e del Partito d’azione, riuscendo a essere alternativi tra un mondo massimalista e comunista da una parte e una tradizione cattolica democristiana dall’altra. Una componente minoritaria che permane nella storia politica italiana insieme alla spaccatura tra tradizione massimalista e gradualista all’interno della sinistra politica.
–Il mito patriottico costituzionale ha impedito una modernizzazione del paese, chiudendo aprioristicamente a qualsiasi revisione? Secondo me si, poiché la costituzione, figlia di un determinato momento storico, garantisce certamente ampi e diffusi poteri di veto rispetto gli esecutivi che non aiutano i governi durante la loro azione, ma rendono più complessa la gestione dei governanti. Queste criticità sono emerse sempre di più durante la fine della prima Repubblica, ai tempi della prima commissione bicamerale, presieduta dall’on. Bozzi, ma non vennero affrontate dalla classe politica, dimostrando che la proposta della modifica della costituzione resta ancora oggi un tabù che non abbiamo minimamente superato. Nel nostro paese per ragioni culturali da una parte, per interessi personali dall’altra, permane la volontà di non permettere all’esecutivo di avere gli stessi poteri che hanno, per esempio, i primi ministri in Gran Bretagna ed in altri paesi occidentali.
–Oggi molti cronisti parlano di restaurazione liberale, che ne pensa? Io quando sento parlare di Restaurazione Liberale non riesco a rimanere serio, sono solo parole in libertà. Non vedo restaurazione di nessun tipo.
–Da tangentopoli ai 5 stelle lo spirito giustizialista non solo non si è mai sopito ma sta facendo nuovi anticorpi contro i tentativi di riforma garantisti, come quelli della Cartabia? Certamente ci sono forti interessi che vogliono impedire una riforma dell’ordinamento giudiziario e che non si sono mai sopiti. Il problema è che con la fine del vecchio sistema dei partiti si è creato un vuoto di potere in Italia che è stato riempito non dalla politica ma da altri, ovvero dalla burocrazia e dal potere giudiziario.
–Berlusconi, padre della rivoluzione liberale nostrana a distanza di anni è stato più un Crono o uno Zeus nella storia del nostro paese? Certamente c’erano in Berlusconi, o almeno nel primo ingresso di Berlusconi in politica, elementi liberali, che hanno attirato intellettuali vicini al pensiero liberale, come Marcello Pera e Lucio Colletti, ma successivamente questa componente si è rapidamente esaurita. Per questo motivo non riesco a mettere Berlusconi sullo stesso piano di Pannella.
– Chi sono i suoi riferimenti culturali? Da un lato i grandi autori del pensiero sociologico e politico e dall’altro gli autori esponenti del pensiero laico e liberale Italiano. Certamente Einaudi è uno dei miei punti di riferimento.
–Come è diventato un liberale? Credo che questa adesione sia nata in reazione al sessantotto, cercando riferimenti alternativi a quelli della stagione sessantottina, quando ero una matricola universitaria. Sicuramente mi formarono molto la lettura dei testi dell’illuminismo e la vicinanza al mio maestro, Nicola Matteucci. Matteucci, fortemente liberale, è stato il mio punto di riferimento per la mia formazione personale e a lui devo moltissimo.
Il mondo non è un palcoscenico, dove gli individui e i popoli inscenano il gioco delle parti, nella pantomima della storia e dei destini umani, ma è un campo di battaglia. Uno scontro aspro in cui le comunità e le nazioni duellano, sui terreni dell’economia, della strategia, della sopravvivenza. Un duello che oggi si può riassumere nella sfida tra le democrazie occidentali e le autocrazie. Una sfida che inizia dall’indomani della guerra fredda, che si è evoluta, nel contrasto per il predominio sul Mediterraneo e sull’Indo Pacifico. Oggi il braccio di ferro tra autocrazie e democrazie euroatlantiche, passa su tre scenari, tre diversi campi di battaglia, il confine orientale, teatro del conflitto tra Russia e Ucraina, il Mediterraneo, e l’Indo Pacifico, dove sull’indipendenza e la libertà di Taiwan passa il destino degli equilibri della scacchiera internazionale. Scenari e campi di battaglia che rappresentano i nuovi confini tra mondo occidentale e suoi partner etico-ideologici e le autocrazie e gli altri Rogue States. Per meglio comprendere le regole del campo di battaglia abbiamo intervistato Fabrizio Luciolli, Presidente del Comitato Atlantico Italiano e dell’Atlantic Treaty Association (2014-2020), è una delle voce più importanti dell’alleanza euroatlantica in Italia.
–In questa fase del conflitto tra Russia Ucraina quali possono essere le strategie e le soluzioni dell’Occidente per contenere le ripercussioni del caro energia? La strategia più efficace è quella di rimanere coesi, perché le ripercussioni economiche e sociali del conflitto, che non sono diretta conseguenza delle sanzioni come una certa narrazione russa è riuscita a veicolare in Occidente, possono essere superate solo attraverso un’azione solidale delle democrazie occidentali. Ciò è particolarmente vero con riferimento al tema energetico, dove esiste una asimmetria nei prezzi dell’energia all’interno dei diversi paesi dell’Unione Europea. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, questa situazione trova origine nell’insipienza con cui sono state operate le scelte del passato, come la volontà di dire no al nucleare in controtendenza con gli altri paesi europei e la più recente politica di assoggettamento solo ad alcuni fornitori nel settore energetico, nello specifico la Federazione Russa, che hanno portato il nostro paese a scontare, più di altri, il ricatto energetico di Putin. Per tali ragioni le uniche misure che possono mitigare le conseguenze di questo conflitto, prima della cessazione dello stesso, è avere come bussola questo binomio: coesione e solidarietà tra i paesi dell’UE. In tale prospettiva, l’Unione Europea ha attivato numerosi strumenti, ma è necessario organizzarli in maniera ben più coordinata ed efficiente al fine di pervenire a una diversificazione delle fonti, a una integrazione del mercato energetico e un abbattimento dei costi del gas.
–Quanto un ritorno al nucleare potrebbe agevolare una politica nazionale energetica autonoma da altri paesi come è stato con la Russia e la Libia in passato? La via del nucleare è un percorso da perseguire ma che permetterà di beneficiare dei suoi risultati solo tra dieci, quindici anni, secondo le più recenti previsioni. Nell’immediatezza l’Italia ha già intrapreso la strada della diversificazione delle fonti energetiche e dei relativi fornitori, e si stanno testando in prospettiva anche le potenzialità che possono scaturire dall’utilizzo dell’idrogeno, per esempio ricavato dai rifiuti. Tuttavia, nell’attuale criticità di approvvigionamenti energetici appare ineludibile rafforzare la cooperazione europea, anche creando reti volte alla interconnessione e scambio di flussi energetici in situazioni di emergenza così come già avviene nei paesi scandinavi.
-Come si evolverà il conflitto ucraino con il finire dell’autunno? L’arrivo dell’inverno e delle rigidità dettate dalle condizioni meteorologiche, condizioneranno le dinamiche del conflitto e potrebbero schiudere delle opportunità per un’azione diplomatica che è auspicabile vengano colte. Ad una fase in cui si vanno ridefinendo i rapporti di forza e nella quale Kyiv sta guadagnando terreno, potrebbe far seguito un rallentamento dei combattimenti che nei prossimi mesi avverranno su terreni fangosi, con frequenti piogge e che impediranno un agevole spostamento di mezzi corazzati. Una condizione che penalizzerà le manovre offensive da parte russa e che sarà aggravata dai congelamenti dei mesi invernali. Da parte russa, inoltre, la cosidetta “mobilitazione parziale” richiederà tempo, non solo per il reclutamento forzato di personale militare ma anche per dotarlo di un addestramento basico e successivo dispiegamento al fronte. Giovani riluttanti che, dalle immagini pervenute, appaiono equipaggiati con materiali obsoleti se non talora anacronistici e che si troveranno ad operare su terreni ghiacciati, in cui l’addestramento ricevuto in questi anni dalle forze armate ucraine farà la differenza. –Come valuta la strategia della Russia durante questi mesi? Putin ha fallito su tutti i fronti: sia sul piano strategico e militare, che su quello politico, diplomatico, economico e sociale. Fino al 23 febbraio scorso, Putin era riconosciuto dalla comunità internazionale come un leader affermato e un politico scaltro. Con il lancio della criminale “operazione speciale” d’invasione non provocata dell’Ucraina, Putin ha dimostrato di non saper capitalizzare il proprio prestigio internazionale sotto il profilo politico, diplomatico e negoziale, perseguendo una strategia fallimentare che in pochi mesi ha devastato oltre l’Ucraina, il suo stesso paese, che è stato impoverito da decine e decine di migliaia di morti. Una strategia che dalla “denazificazione” dell’Ucraina si è oggi palesata come una guerra all’Occidente condotta con una campagna militare criminale, che si va caratterizzando sempre più con azioni di carattere pressoché terroristico, quali il lancio indiscriminato di droni kamikaze sulle popolazioni civili delle città, piuttosto che volte a evocare il terrore dell’uso dell’arma nucleare. Una strategia che ha compattato l’Occidente, non più solo geograficamente ma valorialmente inteso, e che ha avuto come più evidente conseguenza la storica richiesta di adesione alla NATO di Finlandia e Svezia. Una strategia a cui fa riscontro il fallimento della campagna militare di aggressione all’Ucraina, testimoniata dai diversi cambi di guida e condotta delle operazioni russe sul terreno. A ciò ha fatto riscontro la compattezza dell’Occidente nel sostenere le richieste di aiuti militari e non di Kyiv secondo un principio di cooperazione internazionale in linea con quanto sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite per la legittima difesa del proprio Paese e dei suoi cittadini. Un principio che in queste settimane paesi come Spagna, Francia ed Olanda stanno inverando con l’invio di mezzi volti a dare una maggiore protezione dello spazio aereo dalla minaccia dei droni di produzione iraniana lanciati da Mosca. Sotto il profilo economico, l’impatto dell’azione di Putin sulla fragile e modesta economia russa appare altrettanto disastroso. Le riserve che prima del conflitto ammontavano a circa 600 miliardi di dollari già pochi mesi dopo il lancio dell’”operazione speciale” erano ridotte a 22 miliardi e sono attualmente stimate pari a 2,2 miliardi. Ciò nonostante, l’aumento spropositato del prezzo con il quale per tutto il 2022 i paesi occidentali hanno continuato ad acquistare il gas russo, anche in quantità superiori al fine di salvaguardare gli stoccaggi. Pertanto, considerato che dal 2023 ci sarà un generale affrancamento occidentale dalle risorse energetiche russe e non avendo la Federazione Russa un’economia diversificata, è verosimile prevederne il collasso economico. Sta all’Occidente e a paesi come Italia e Germania, mantenere un atteggiamento fermo e coerente, senza tentennamenti, per accelerare la presa di consapevolezza e la necessità da parte russa di cessare le ostilità belliche e sedersi a un tavolo negoziale. Una seria e credibile iniziativa che, soprattutto da parte europea, dovrebbe riflettere in prospettiva sul futuro della Federazione Russa. Sotto il profilo sociale, la campagna militare e la recente “mobilitazione parziale” non solo ha distrutto le prospettive delle nuove generazioni russe ma ha comportato la fuga dal paese di circa un milione delle migliori menti del paese. –Putin ha quindi commesso l’errore di portare nel conflitto anche la società civile russa? All’inizio dell’aggressione all’Ucraina lo stato maggiore russo era riuscito a tenere fuori dalle conseguenze del conflitto la società civile e, in particolare, le élites di Mosca e San Pietroburgo. L’attuale “mobilitazione” ha rivelato alla società civile russa il carattere di “guerra” all’Occidente e non più di “operazione speciale” regionale, minando quella compattezza nazionale russa che aveva caratterizzato le prime fasi del conflitto. Le ripercussioni economiche della guerra e delle sanzioni, il reclutamento forzato dei giovani hanno fatto venir meno l’unità del fronte interno a più livelli. Le minacce del possibile utilizzo di armi nucleari tattiche e le rappresaglie russe condotte all’indomani del crollo del ponte di Kerch con il lancio indiscriminato di 84 missili su obiettivi ucraini civili, non sono state accolte favorevolmente dallo stato maggiore russo, anche in ragione della scarsità di materiale militare che non è più in grado di riassortire. Si stima che alla Federazione Russa occorrerebbero circa 5 anni per ricostituire la forza terrestre dei tank e gli altri materiali militari andati distrutti in questi mesi di guerra. Evocare la minaccia nucleare così come il lancio terroristico da parte russa di missili e droni su obiettivi civili ucraini rappresentano un evidente segnale d’impotenza da parte russa, che cela, tuttavia, un indice di pericolosità, piuttosto che delle opportunità che non vanno entrambe sottovalutate.
Una strategia del terrore che si scontra contro la cooperazione internazionale dei paesi occidentali che grazie ad una compattezza ed unità comune forse riusciranno a trascinare Putin sul tavolo delle trattative per mettere fine a questa guerra. Per fortuna in questi giorni si vede qualche spiraglio …
–Può spiegarsi meglio? La strategia del terrore, evocata con la minaccia nucleare piuttosto che con il lancio di missili e droni, a fronte di una compattezza occidentale e resistenza ucraina, dischiude altresì degli spiragli di dialogo che potrebbero far presagire ad un rilancio di un tavolo negoziale. Recenti dichiarazioni da parte russa affermano, per la prima volta, che una soluzione diplomatica è possibile a patto che sia salvaguardata la sicurezza della Federazione Russa. –L’Occidente secondo lei saprà rispondere di fronte a questi segnali? Confido che l’Occidente sappia prefigurare uno scenario post-bellico non solo per ciò che attiene la necessaria ricostruzione dell’Ucraina, politica economica, sociale e di sicurezza, ma anche per ciò che riguarda il futuro delle relazioni con la Federazione Russa. Prospettiva, quest’ultima, che attualmente manca e che è quanto mai necessario sviluppare e favorire, anche per evitare a Mosca derive ancor più oltranziste. Se analizziamo le ultimi dichiarazioni di Putin e ascoltiamo attentamente le parole del suo discorso postreferendario, emerge quanto a Mosca stia assumendo maggior peso la componente nazionalistica che durante le più recenti fasi del conflitto ha attaccato le istituzioni militari russe, salvo la presidenza, reclamando una maggiore uso della violenza militare e con ciò acquisendo un crescente credito popolare e presso lo stesso Putin. Nell’attuale critica fase del conflitto, con una Federazione Russa in crisi e un inverno che potrebbe mitigare le crudeltà del conflitto, l’Occidente diversamente in difficoltà sarà in grado di mantenere una posizione coesa ed esprimere una leadership in grado di confrontarsi con Mosca e interdire i rischi di una potenziale deriva oltranzista? –Come giudica il ruolo di Erdogan nella scacchiera globale? L’analisi dell’azione della Turchia in questi e nei prossimi mesi non può essere disgiunta dalle preoccupazioni di Erdogan per le elezioni presidenziali del 2023. È verosimile attendersi una politica a carattere intermittente, così come sta avvenendo sul processo di ratifica dell’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO e sugli ultimi dossier, ricercando soprattutto il sostegno degli Stati Uniti per risollevare la lira turca vittima di una pesante inflazione e vedere garantita la solidità del confine orientale, in chiave anti PKK. E’, pertanto, nella chiave elettorale che andranno ponderate le azioni, anche di negoziato e visibilità internazionale, che verranno adottate da Erdogan nei prossimi mesi. –Sta nascendo una nuova guerra fredda tra Autocrazie e democrazie occidentali? Non credo si vada cementando un fronte delle autocrazie in quanto oggi più che mai il ruolo della Cina è preponderante e a lungo termine assorbirà nella sua orbita le altre, prima fra tutte la Russia che uscirà dissanguata dal conflitto con l’Ucraina. La vera sfida globale dell’Occidente è e rimane la Cina. Tuttavia, la sfida con Pechino oggi passa per Kyiv. Mi spiego meglio, in queste ore sta circolando un documento chiamato Kyiv Security Compact, dell’ex segretario generale della Nato Rasmussen e da alcuni paesi Nato, che vorrebbero un agreement, per rafforzare in maniera codificata il rapporto stabilito con l’Ucraina. Una relazione che sia più forte del memorandum di Bucarest del 1994, che annunciava delle garanzie di sicurezza da parte della Russia all’Ucraina in cambio della cessione delle armi nucleari dislocate sul suo territorio (uno di quei tredici trattati e accordi internazionali, violati da Putin con l’aggressione del 24 febbraio), e che possa garantire la stabilità del confine orientale attraverso un accordo più solido e più forte, che non rappresentanti la membership Nato dell’Ucraina, ma ne garantisca la propria sicurezza e capacità di difendersi. La strutturazione del rapporto con l’Ucraina ed una sua futura stabilità, permetterebbe alla comunità euro-atlantica di dedicare maggiore attenzione e risorse alla regione indo-pacifica ed alla sfida rappresentata dalla Cina, rafforzando i partenariati con paesi like-minded dell’area. In tale prospettiva, può prefigurarsi una polarizzazione del mondo ma non più delimitata da confini territoriali o geografici, ma da valori di libertà e del rispetto delle regole del diritto. Valori che hanno condotto paesi della regione dell’Indo-Pacifico a partecipare, lo scorso giugno, al vertice NATO di Madrid.
–Di fronte a questa polarizzazione quanto la partita tra queste diverse potenze si gioca su Taiwan? Taiwan costituisce un faro di democrazia nella regione dell’Indo-Pacifico e ha per l’Occidente una valenza strategica di estrema rilevanza allorquando si consideri che Taipei detiene il 66% della produzione tecnologica del mercato mondiale dei microchip e che quel piccolo stretto vede transitare annualmente il 50% dei container che arrivano in Europa e negli Stati Uniti.
–Quale dovrebbe essere la bussola del futuro governo Meloni? Quale presidente del Comitato Atlantico Italiano ho particolarmente apprezzato le dichiarazioni dell’On. Meloni laddove ha inequivocabilmente collocato l’Italia nel solco europeo ed atlantico tracciato dai padri fondatori della Repubblica, i quali ritennero che l’Italia potesse perseguire più efficacemente i propri interessi nazionali attraverso una partecipazione attiva in seno alle organizzazioni euro-atlantiche. Oggi, in particolare, è attraverso un rinnovato rapporto transatlantico e un ancor più incisivo ruolo nella NATO che l’Italia potrà bilanciare talune velleità carolingie di una Europa post-Brexit. Nell’attuale fase di ricerca di una nuova stabilità del sistema internazionale, l’Italia può costituire il perno insostituibile di una rinnovata comunità euro-atlantica che affronti le sfide del futuro, Cina in primis, con un approccio globale bilanciato anche sulla regione del Mediterraneo allargato, ove l’Italia si proietta con 8.000 chilometri di coste, da sviluppare per intercettare i traffici commerciali destinati all’Europa. Una centralità strategica e commerciale dell’Italia che confido il prossimo governo saprà perseguire.
“Meraviglioso e vertiginoso , coinvolgente e sconvolgente , divisivo almeno tanto quanto unisce , magnetico ed enigmatico nella sua ap parente chiarezza , la Repubblica è un libro che non si può smettere di leggere ; un libro che emoziona , perché ci pone davanti a un Inizio – alla sua indiscutibile grandezza e alla sua insuperabile contingenza e difficoltà” con queste parole Carlo Galli, professore emerito all’Università di Bologna tra i massimi studiosi del pensiero politico, apre il prologo del suo ultimo straordinario testo su Platone: “La necessità della politica “(Il mulino). Un’opera con cui Galli fa entrare il lettore in quel monumento del pensiero politico che è La Politeia platonica, indagando tramite la lente del filosofo greco la Politica in ogni sua declinazione e in ogni sua manifestazione, un dialogo totale che indagando le forme dei governi riesce a tracciare una radiografia definitiva su cosa sia il potere e su che tragedia sia il divorzio tra Filosofia e azione politica. Un testo capace di confermare il motto di Holderlin per cui “ci sentiamo originali solo perché non abbiamo letto abbastanza”, in quanto tra le pagine della Repubblica si ritrova un grado di profondità e di astrazione così elevato che rendono questo testo, e di conseguenza il testo di Galli, imprescindibile per chiunque voglia conoscere cosa sia la Politica, poiché si può pensare essa contro Platone, ma non si può pensare essa senza Platone. Per meglio comprendere la complessità di questo testo abbiamo intervistato il Professor Carlo Galli che nel suo saggio ha scritto parole definitive sulla Politica e sul capolavoro Playon.
Perché “La necessità della politica”? E che relazione esiste tra Politica e Politico? Il mio libro su Platone ha come tema “la necessità della politica”, che è cosa ben diversa dal ‘politico’. Questo è una immediatezza, un rapporto conflittuale, ipotizzato come originario, mentre la “Politica” è il sistema di mediazione e riconoscimento del ‘politico’ in un ordine. E’ questo ciò che tratto e indago nell’opera platonica, ovvero un’idea di mediazione, che viene rappresentata tramite la filosofia e la metafisica. Il tema principale trattato nella Politeia, il testo che è al centro del mio saggio, è la giustizia, la quale, non è, però, una virtù in senso tradizionale, ovvero un abitus morale del singolo, bensì una meta-virtù poiché per esistere essa ha bisogno della pluralità degli uomini e di una dimensione politica, il che la rende differente dalle altre virtù trattate nei dialoghi platonici. La giustizia è dunque una meta-virtù, per realizzare la quale è necessario un diverso modo di pensare, ovvero la metafisica, che ne costituisce le fondamenta. Qui c’è la grandezza della scoperta platonica, che collega la giustizia direttamente alla sfera collettiva e alla “filosofia prima” non solo al singolo.
–Come nasce la Repubblica è come risolve Platone il problema della giustizia? La Repubblica è un opera in dieci libri, che si prefigura come una lunga risposta alla provocazione del sofista Trasimaco, per il quale la giustizia è l’utile del più forte ed un “bene” di altri. Il “Bene” che la legge promuove, per il sofista, è il vantaggio non di chi obbedisce alla legge, ma di chi la promulga e concepisce. Nella visione di Trasimaco, l’utile, fagocitando la morale, trasforma la politica nella massimizzazione dell’interesse esclusivo di una parte, e da ciò deriva come conseguenza è l’ingiustizia del più forte sul più debole. La risposta di Platone a questa tesi è assolutamente impegnativa, nonostante una premessa iniziale non molto solida; la giustizia, dice Socrate nel dialogo, è una tecnica che è svolta a vantaggio dei più deboli, da parte dei migliori (come la medicina, con la quale i medici curano i malati). La descrizione che fa Socrate della giustizia è però troppo debole: per questo Platone inventa la “mediazione”, ovvero la metafisica, al fine di superare l’utilitarismo di Trasimaco. Platone considera, infatti, la politica come la dimensione in cui tutti possono diventare sé stessi sotto la guida filosofi, che hanno titolo a governare perché non solo conoscono la verità delle Idee ma la portano, mediandola, sulla terra, nella città. Una visione che è possibile solo se si costituisce filosoficamente la politica, mostrando la filosoficità della politica e la politicità della filosofia. Tale concezione è l’elemento più caratteristico e più lontano dal liberalismo della filosofia platonica.
–Per questo secondo lei Platone viene definito totalitario da pensatori come Karl Popper? E perché questa concezione è antitetica a quella liberale?
Poiché per i liberali la politica è la dimensione in cui l’immediatezza, la ricerca dell’utilità del singolo, trova una regolamentazione, attraverso condizionamenti istituzionali che le danno una forma ordinata, trasformando l’aggressione in concorrenza. È una concezione della politica che si fonda sul soggetto e sulla nascita della “mediazione” politica, lo Stato, come artificio contrattuale. La differenza con Platone è abissale, perché per lui nella politica c’è la possibilità di realizzare compiutamente la pienezza dell’uomo e non solo una esteriore regolamentazione dell’agire dei singoli. Una ricerca della pienezza che noi moderni abbiamo, invece, perduto per sempre, poiché abbiamo deciso di vivere come soggettività alienate. Noi moderni viviamo una esistenza che si divide in una pluralità di aspetti tra loro alienati poiché abbiamo una sfera politica quando costruiamo l’ordine giuridico, poi una economica quando perseguiamo l’utile tramite il lavoro nella società, mentre nella vita domestica abitiamo un’altra sfera, quella privata. Questi tre diversi piani dell’esistenza, separati tra loro, Platone non li concepisce affatto. Non perché non ne ammetta l’esistenza, ma perché la pienezza e complessità dell’umanità vanno preservate e organizzate in una unità, e ciò è possibile solo attraverso la filosofia che si fa pratica, ovvero nella città, tramite la politica in cui comandano i filosofi, conoscitori del Vero. L’obiettivo non è, quindi, di alienare l’uomo ma di liberarlo dall’alienazione facendolo vivere in armonia con gli altri e con sé stesso. Una visione totalmente in antitesi col liberalismo, ma che non per questo fa di Platone un pensatore totalitario. Lo stesso accostamento di Platone al totalitarismo è errato ed insensato, poiché questa contrapposizione è completamente anacronistica. Platone come liberale o come totalitario è una visione profondamente errata, ma non per questo la sua filosofia è estranea alla nostra civiltà, poiché con “La Repubblica” ha aperto la via della filosofia e della politica, non per i contenuti o le mete che ha raggiunto, ma per le strade e per le domande che ha posto nella sua formulazione. Rendendolo un libro imprescindibile per chiunque voglia approfondire i rapporti tra filosofia e politica.
–Perché il pensiero platonico è imprescindibile per comprendere il rapporto tra filosofia e politica?
Platone ha insegnato che per non vivere nella casualità, nell’insensatezza, dobbiamo pensare la politica, e per pensare la politica ed essere veramente uomini dobbiamo passare per le questioni e i sentieri che ha segnato. Per questo lo possiamo definire il padre venerando e terribile della filosofia e della politica.
–Quali sono le caratteristiche della Kallipolis e delle idee espresse nella Politeia?
La città, che è il soggetto politico della Politeia, nasce come coesistenza umana mediata dal bisogno e della divisione del lavoro; quando essa si sviluppa diventa una città di lusso e allora si apre alla guerra e ciò comporta una differenziazione anche dei ruoli politico-sociali. Si forma una differenza fra i soggetti capaci di combattere, i più coraggiosi (i guerrieri), e di quelli in grado di pensare l’intero e dotati di una intelligenza collettiva (i filosofi), e i produttori. I cittadini di questa città hanno l’anima uguale, nel senso che ciascuno ha in sé l’elemento teorico, l’elemento del coraggio, e l’elemento pratico; ma in proporzioni diverse. Alcuni hanno quindi doti pratiche e sono destinati al lavoro, altri sono orientati al coraggio, e sono superiori secondo Platone poiché chi lavora lo fa per sé, chi combatte lo fa per gli altri, e poi chi fra i coraggiosi è dotato della riflessione in generale, deve guardare all’interesse complessivo della città. Ciò viene spiegato da Platone tramite il “mito fenicio” degli uomini delle tre radici (di bronzo, d’oro e d’argento), che prefigura le divisioni nella Kallipolis le quali rappresentano una città gerarchica e differenziata, dove ognuno fa quello che la propria natura gli detta e non quello che gli pare. A quale gruppo ciascuno appartiene però non viene deciso in maniera ereditaria, ma si viene selezionati dai filosofi. La Kallipolis per quanto differenziata non è percorsa da contraddizioni insolubili, bensì vi è una virtù comune che è propria di ogni cittadino: la “temperanza”. Tutti i cittadini in coro, riconoscono “sinfonicamente” che la città e la sua gerarchia sono giuste; ciascuno segue la propria natura e modera i propri istinti (perché temperanza vuol dire moderazione) in nome del benessere comune seguendo la loro vocazione primaria. Tutti hanno la ragione, ma è filosofo solo colui nel cui animo la ragione è egemonica. Quella platonica è una città dell’uguaglianza, ma ancor più della differenza, della gerarchia, ma soprattutto dell’armonia. Per vivere in maniera armoniosa, per realizzare la Kallipolis, bisogna che ci siano tre condizioni: l’uguaglianza tra gli uomini e le donne; la messa in comune dei beni di filosofi e guerrieri, eliminando le cattive conseguenze dell’individualismo; il dominio dei filosofi. –Come mai proprio i filosofi per Platone devono comandare? Perché la politica consiste in un agire sorretto dal sapere, ovvero conoscere ciò che c’è di conoscibile in questo mondo, individuando in esso una trama razionale superiore: la metafisica. Per vedere tale trama occorre andare oltre l’apparenza. Siamo immersi in un mondo empirico e caotico che rappresentiamo in immagini, ma le idee, che sono l’essenza del mondo, non sono questo. In Platone la differenza fra il mondo delle idee e quello dell’apparenza è la differenza tra ciò che è mobile e ciò che è essenziale, ciò che è conoscibile con i gradi bassi della conoscenza, ciò che è mortale, e quello che è conoscibile tramite la dialettica, ovvero ciò che è immortale. I filosofi poiché contemplano le idee e conoscono il cuore degli uomini, grazie alla loro capacità di leggere la trama razionale del mondo sono, per Platone, gli unici che possono governare la Polis, in quanto sono dotati di una intelligenza che fa loro cogliere la complessità delle cose.
–Secondo Platone filosofia e politica possono vivere disgiuntamente? La filosofia è per lui impensabile senza la politica, perché è nella pratica che essa realizza l’armonia e il bene sociale tramite la conoscenza. La conoscenza, quindi, non è un sapere sterile ed autoreferenziale, bensì è conoscenza dell’essenza e della sua realizzazione nel mondo. La realizzazione della filosofia è descritta nel mito della caverna con l’immagine dell’uscita del filosofo dalla caverna, la visione delle Idee e del Sole, e poi del pericoloso ritorno dentro la caverna per liberare i prigionieri, perseguendo il bene comune. Per Platone il Bene (il Sole) è superiore alle idee, nonostante non sia conoscibile ma solo contemplabile dal filosofo, poiché è la condizione della conoscenza e la sua ultima garanzia. Qui emerge il carattere antinichilista e antitecnico della filosofia platonica: le idee sono nel Bene, la conoscenza è nel Bene, la sua realizzazione pratica (che è anche una tecnica ma che nella tecnica non si esaurisce) è nel Bene. La metafisica ha una finalità operativa, come aveva capito Heidegger, in quanto è l’impulso a lavorare sul mondo per trasformarlo e renderlo diverso, tramite un gesto critico distruttivo (perché va oltre le apparenze), che oltre a una valenza nichilistica ha anche un lato edificante e costruttivo, perché è portatore della convinzione che il filosofo legittima il proprio sapere e la propria conoscenza in quanto è immerso nel Bene. L’impulso nichilistico e tecnico viene corretto dalla convinzione che è Bene che esistano le idee, il mondo, e la conoscenza e che c’è un principio da cui essi scaturisce. Per questa capacità di analisi le domande e i percorsi che ha aperto la Repubblica rendono questa opera imprescindibile per comprendere che cos’è la filosofia, la metafisica e la politica, a meno che non si pensi il mondo come pura casualità, contingenza ed insensatezza.
–Che rischi sono presenti nel pensiero platonico? Forse quelli di un pensiero totalitario? I rischi di Platone non sono quelli del totalitarismo, ma sono quelli della tecnicità. Per il totalitarismo l’uomo è nulla e può essere rifatto, mentre per Platone può essere guidato per diventare ciò che è. Ovviamente nel pensiero platonico il soggetto è sicuramente debole, come sottolineò Hegel, ma allo stesso tempo il suo edificio filosofico si pone come nemico delle immagini, dell’utile e della cultura come divertimento, in nome della verità e dell’essenzialità. Un edificio filosofico che si posiziona anche al di sopra anche della religione orfico pitagorica e misterica da cui attinge molto, ma a cui aggiunge una razionalizzazione dell’elemento della salvezza e della conversione che non sono più legati al mistero, ma al sapere. Che ci obbliga a non avere più paura della libertà.
Che cos’è per Platone la libertà ? La libertà è un obiettivo da raggiungere, che viene conquistato operando su sé stessi tramite la filosofia, con la disciplina e la temperanza, governando le passioni, attraverso un percorso di scoperta che permette all’uomo di essere libero, cioè di essere sé stesso. La libertà ha senso solo nella giustizia, cioè nella relazione giusta con gli altri, mediata dalla politica e dalla filosofia. E, soprattutto, per Platone la libertà come giustizia è l’unica via per la felicità, che non sta nel fare ingiustizia (come diceva Trasimaco) ma nel fare giustizia. La libertà è anche responsabilità, come dice Platone nel mito di Er (nel decimo libro).
Quanto attuale Platone oggi? Al di là di quanto si è detto sul fatto che Platone imposta il problema politico-filosofico in generale, è attualissimo soprattutto nell’ottavo libro della Repubblica quando mostra che cos’è la politica senza la filosofia. In quel libro, dopo averci detto che cosa fanno i filosofi nella Città ideale, ci insegna che cos’è la politica senza la filosofia, mostrando le metamorfosi delle forme del potere non guidate dal sapere. C’è la timocrazia, il governo della virtù e degli aristocratici, l’oligarchia, il governo dei ricchi, poi la democrazia, il governo della massa, e infine la tirannide. L’epoca di Platone è segnata dallo scontro tra oligarchia e democrazia, ovvero i ricchi e i poveri, che logorano la Polis combattendo tra loro, motivo per cui il filosofo è critico di entrambi i regimi. La democrazia viene criticata da Platone perché è il regno della licenza, e non della libertà. La democrazia, per Platone, è pura contingenza, pura empiria, puro capriccio che senza un nomos e una legge vuole soddisfare le pulsioni, facendosi portatrice di un enorme disordine e di una profonda anomia che causano caos e instabilità nella Polis. Una insicurezza fatta di congiure, tensioni sociale e crisi dei valori, causato dagli scontri tra gli oligarchi decaduti e i governi democratici, che sono il sintomo più eclatante della politica in assenza della filosofia. In questi scontri tra capi popolari e restauratori spiccano gli eredi degli oligarchi, ormai impoveriti, che formano bande di individui pieni di rabbia e risentimento i quali, dopo aver destabilizzato il fragile governo democratico, riescono a prendere il controllo della Città e insediano al potere uno di loro, il quale diventa il tiranno, a cui si affidano sia ricchi sia poveri con la speranza di trovare ordine e pace e di vedere finite le reciproche vessazioni. Ma tutti si sbagliano tremendamente perché il tiranno, che è il contrario del filosofo, è un uomo solo preda di tutte le passioni e tutti i desideri, sostanzialmente folle e imprevedibile, che vive nel continuo terrore di essere sopraffatto o ucciso e per questo si circonda di guardie del corpo, per pagare le quali depreda il popolo con tasse e prevaricazioni. Queste sono le conseguenze della politica senza la filosofia ed infatti per Platone “i mali dell’umanità non avranno mai fine se i filosofi non andranno al governo”: il sapere deve trovare il potere. Il lascito di Platone quindi è che dobbiamo fare della politica il luogo in cui coltiviamo la nostra umanità.
Progetti per il futuro? Ho finito di recente il lavoro di curatela e traduzione del testo “De iure belli ac pacis” di Ugo Grozio, realizzando la prima traduzione integrale italiana di questo enorme testo fondamentale della modernità giuridica-politica, per l’Istituto Italiano degli studi filosofici di Napoli. Poi ho ultimato un testo sul concetto di Ideologia per il Mulino che sarà pubblicato nei prossimi mesi.