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“Difendi, conserva, prega”. L’Italia interiore di Pasolini

Di Lorenzo Lombardi

Bisogna essere molto forti per amare profondamente Pier Paolo Pasolini. Non si devono temere le sue profezie sul mondo post-storico a cui egli assiste per privilegio d’anagrafe, il suo amore che solo è nella tradizione ed il suo smarrimento nella ricerca di fratelli che non sono più. Ricostruendo l’opera di Pasolini come giustamente riconosce Vincenzo Cerami, si assiste alla storia d’Italia dalla decadenza del fascismo sino al boom economico.La storia che un poeta narra è sempre una storia interiore poiché il poeta svela i codici, rivela l’anima del tempo dinanzi al divenire quotidiano, sottopone al dubbio perpetuo le verità che sembrano intramontabili e dispera di quei valori eterni tramontati nell’illusione che non potessero più ’servire’, i valori che il poeta riconosce alla luce della loro vitalità come i doveri a cui sottoporsi per rendere la vita degna del suo valore.In questi trent’anni di storia interiore improvvisamente si cade in un abisso, in cui non è più possibile riconoscere realtà particolari, il mondo contadino paleo-capitalista ed il dialetto inventato ogni mattina dai poveri, per non farsi capire, per non condividere con nessuno la loro allegria. Ci si inabissa nel baratro interclassista in cui la mutazione antropologica degli italiani si è compiuta in nome ‘’della libertà, dell’uguaglianza e dell’umanità’’o almeno così sostiene il potere ma gli occhi del poeta rivelano che questa ‘’rivoluzione’’ si è compiuta in nome della schiavitù, dell’omologazione e della postumanità.’’In Italia ognuno sente l’ansia degradante di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero.Mai la diversità è stata una colpa come in questo periodo di tolleranza.’’:così Pasolini condanna chi ‘’è diverso essendo egli comune’’, l’edonismo di massa, la sregolatezza non del genio ma dello stolto che a tutti i costi deve palesare le sue catene invisibili, la sua incosciente coscienza d’infelice.Nell’epoca del tramonto del passato Pier Paolo non può più neanche ammirare assieme al fanciullo Dillio ‘’sui nostri corpi la fresca rugiada del tempo perduto’’poiché il ‘’nuovo potere è un potere che manipola i corpi trasformandone la coscienza’’, il Dopo-storia albeggia e non lascia alle spalle alcun tramonto, calpesta le carcasse del passato e le incide di un’eterna colpevolezza per giustificare la morte di cui si nutre, al poeta vecchio-ragazzo come si legge nella ri-scrittura di ‘’Dilli’’ del 74’ non resta che essere ‘’il sogno di un corpo’’, ’’conchiglia contro il male, di cui nessuno sa’’, non gli resta che ‘’rimanere fedele al proprio scopo’’ in un mondo privo di destinazione.Notiamo dunque come la componente idealistica dell’autore vinca sulla morte dell’deale, espressa magistralmente in quello che secondo C.B è l’unico film a possedere qualcosa che non appartiene al cinema, ovvero il Salò-Sade del 75’,dove quest’ultima si abbandona al senso esteriore e dunque tangibilmente reale rovesciando i canoni estetici dell’etica e rivelando nel sado-masochismo il peccato originale:l’anarchia del Potere. Nonostante il poeta, in quanto parte attiva della massa, subisca i valori falsi e alienanti dell’ideologia consumistica, egli non li interiorizza, ne è schiavo su un piano prettamente formale, esteriore ma questa volta irreale ,egli è salvato dalla stessa cultura che gli permette di contestare l’ideologia dominante. Assistiamo ad una contraddizione pulsante:la crisi della modernità abita il mondo ed il suo senso esteriore e questa volta reale ma nel poeta risiedono con nostalgia e disperata vitalità i valori del vecchio mondo a cui la realtà non lascia spazio ma divengono interiori e solo apparentemente irreali.Il poeta dunque non abbandonerà il suo rapporto col sacro intriso di contemplazione pittorica e pur ‘’girando per la Tuscolana come un pazzo, come un cane senza padrone’’ conserverà dentro di sé l’ingenuità della miseria, la veracità del sottoproletariato romano, dei ragazzi di vita che non imitavano i ragazzi della borghesia ma rimanevano fedeli a sè stessi ,alla loro cosciente incoscienza del mondo esterno, segregati fra la fame ,l’abbandono e la gaiezza di una vita violenta.A dispetto del Neorealismo, contraddistinto da un forte carattere prospettivistico-marxista ,la produzione letteraria e cinematografica che riguarda le borgate romane nasce dal disincanto e dall’accettazione di una realtà istintuale e immorale ma non per questo priva di codici etici e tradizioni proprie.Pasolini considera questa realtà come l’ultima sponda in cui il naufragio del consumismo non ha contaminato le rive ma anche il rimpianto di un mondo contadino ,un mondo che non esiste più e che egli rivive attraverso l’amore dannato e apollineo per sua madre, vertiginoso e imprescindibile ,quell’amore che gli impediva di innamorarsi di tutte le altre donne.Nota brillantemente Marcello Veneziani nel suo atlante ‘Imperdonabili’ come Pasolini sia in realtà un conservatore nel nome della madre, ’’all’amor patrio preferì l’amor matrio, più che le radici amava le matrici:la madre terra, la madre Chiesa e la madre lingua.’’Risiede in questa tensione l’eresia dell’intelettuale corsaro e come ogni eretico P.P.P morirà ucciso, il suo omicidio ancor oggi è avvolto nel mistero, sospeso fra le plurime e contradittorie dichiarazioni del ragazzo di vita Pino Pelosi e gli ipotetici indizi dell’assassino di Enrico Mattei nel romanzo rimasto incompiuto ‘’Petrolio’’.Noi non conosciamo le cause, i dettagli e le motivazioni ma di certo non può stupirci che in una società come la nostra un poeta venga ucciso.Ammazzare un poeta è il gesto fondativo ,l’atto che redime la coscienza dalla realtà, nell’illusione che la coscienza sia una prigione da cui evadere, una statua da abbattere, una libro al rogo, una memoria da abolire. La morte ‘’santa’’ di Pasolini tuttavia conferisce ad egli un valore ancora più alto ed ad oggi il suo spirito è la bussola che ci conuduce nella notte del mondo alla luci dell’eterno ,Pier Paolo ha accolto la lezione di Cristo che è venuto a portare la spada e non la pace, ovvero a rovesciare gli ordini pre-costituiti piuttosto che conformarsi passivamente ad essi.La sua anima aleggiando fra le vette del mondo ci sussurra il comandamento a cui prestare fedeltà per farci scudo fra la breccia della modernità: “Ama, prega, conserva!”.

SINTOMI DI UN CONTESTO: CESARE CAVALLERI ED IL LEGAME CON LA POESIA

Cesare Cavalleri, intellettuale, giornalista, editore. Stroncatore ferocissimo e raffinato cultore della poesia, tra le ombre della neoavanguardia e la grazia della cultura cattolica. Editore di ARES e direttore della rivista Studi Cattolici, che ormai ha da molto superato i 700 numeri, è uno sciamano della parola, che con i suoi progetti editoriali ha cercato di conservare, di far rinascere. Restituendo al lettore autori unici e capolavori segreti. Pubblicando interamente l’opera di Eugenio Corti, tra i massimi autori del nostro novecento, che ha costruito col suo “Il cavallo rosso”(che con la Ares ha superato da molto la trentesima edizione) una delle cattedrali letterarie della letteratura italiana. Cavalleri, tra gli intellettuali più raffinati del panorama italiano è “il Cesare” del nostro giornalismo, una penna elegante e corrosiva, spietata, ma anche delicatissima.

Dall’amicizia con Quasimodo alle polemiche con Montale, passando per “Sintomi di un contesto”. Che rapporto ha con la poesia, cosa ne pensa della condizione di questo genere nella contemporaneità?

L’incontro con questi grandi è relativo ad un periodo ormai passato della mia vita ed il discrimine è rappresentato dalla neoavanguardia. Perché prima di allora c’è stato un tardo ermetismo che tramite la neoavanguardia ha provocato uno svecchiamento della letteratura, di cui questi vecchi maestri hanno beneficiato. Lo stesso Montale in “Al mare o quasi” non la avrebbe scritta se non ci fosse stata la neoavanguardia. La poesia è inseparabile dalla condizione umana, perché dove non arriva la filosofia incomincia la poesia. Che è una operazione sul linguaggio ma che poi da definitivamente l’importanza al contenuto. Soprattutto ribaltando il luogo comune per cui la poesia è intraducibile. Questa è una lezione che ho imparato da Quasimodo, e da quella operazione originalissima che fece Montale, facendo tradurre una delle sue poesie più difficile delle occasioni, facendola passare per oltre tredici traduzioni, dal bulgaro all’arabo, fino a farla ritradurre in ultimo in italiano. Un esperimento molto istruttivo perché a parte fare uno scarto di genere, trasformando il tu montaliano femminile di Clizia in maschile, ha mantenuto intatto la sua grazia

Pochi mesi fa ha vinto il premio Montale fuori di casa, che rapporto aveva con Montale e con la sua visione della poesia?

Avevo naturalmente un rapporto a distanza, lo ho visto solo una volta. Da Montale abbiamo imparato tutti. La polemichetta in questione nasce da una affermazione di Montale che ad un noto collega disse “dopo di noi più niente”. Certamente nasce un Montale e un Quasimodo per secolo, ma non si può svalutare la poesia così.

Lei una volta disse “i grandi poeti è meglio leggerli che conoscerli”, cosa intende?

L’autore deve essere inferiore alla sua opera. Perché se in un incontro e confronto un autore è maggiore della sua opera, egli delude il lettore. Il poeta deve essere inferiore alla sua opera, non a caso Montale era inferiore agli Ossi o alle Occasioni

Come mai la cultura cattolica non riesce più a farsi ecumenica, a rappresentare una visione comune della vita e della letteratura? Secondo lei come mai non abbiamo autori viventi come Bernanos o Mauriac che possano incarnare nei loro romanzi il turbamento religioso?

Per fortuna che non ci sono altri Bernanos o Mauriac perchè sono autori che non mi piacciono. In quanto l’aggettivo appesantisce il sostantivo. La letteratura è una ricerca della verità oltre le etichettature. Che si compie attraverso il dolore , le emozioni e gli sbagli. Crea una opera, genera una opera cattolica senza etichettarsi come tale. È sicuramente più cattolico Ennio Flaiano che David Maria Turoldo. O il maledetto Rimabud rispetto al cattolicissimo Graham Greene. Greene è senz’altro un autore interessante, nonostante la sua mania per l’intrigo e il giallo non mi appartiene, in quanto non leggo gialli poichè sono libri che non si possono rileggere e per questo non hanno il mio interesse

È stato il primo a pubblicare il cavallo rosso di Eugenio corti. Che cosa significa per lei quell’opera e cosa lo rende uno dei capolavori della letteratura italiana?

Le figaro quando è morto Eugenio ha affermato che se ne era andato uno dei più grandi autori del novecento forse il più grande. Il cavallo rosso è un grande romanzo. Noi siamo soliti confonder il romanzo con il raccontare. In Italia ci sono pochi romanzi come quelli di Tolstoj o Dostoevskij. Ci sono dei racconti che cumulano esperienze biografiche, ricordi, cronache e osservazioni, ma manca una struttura romanzesca. C’è forse Il mulino del Po di Bachelli, ma è assai circoscritto e giustamente dimenticato. Il cavallo rosso è l’epopea di una generazione allo scoppio della seconda guerra mondiale fino al referendum sul divorzio. Prima della qualità della scrittura di Corti che è ingannevolmente semplice ed essenziale, c’è la testimonianza di una congiuntura storica che viene ritratta e riprodotta in maniera assolutamente straordinaria. Un romanzo storico che insegna la storia dei libri di storia, come guerra e pace racconta molto meglio la campagna di Russia, di tanti annali storici. Come diceva l’amato Karl Kraus del resto chi leggerebbe i libri di storia se non gli storici mentre correggono le proprie bozze

Che ricordo ha di Corti e che rapporto aveva con lui?

È nata una amicizia in occasione del referendum sul divorzio. Incontrandoci e diventando fraternamente amici. In quel periodo lui cercava un editore per il cavallo rosso. Un romanzo di 1280 pagine che un “grande” editore, le virgolette sono d’obbligo, non se la sentiva di pubblicare

Quali sono i suoi autori di riferimento, quali sono gli autori che la hanno avvicinata alla letteratura?

Alessandro Spina, Ennio Flaiano con cui ho avuto un simpatico carteggio e poi Dino Buzzati. Un autore che mi ha allevato fin dalla tenera età. Ero solito da ragazzo ritagliare e conservare su un album con tutti i suoi articoli col corriere. Che un giorno gli mostrai lasciandolo stupefatto da una tale fedeltà. Però io sono stato influenzato soprattutto dalla poesia e quindi non posso non citare Montale, Raffaele Callieri, un autore non troppo antologizzato purtroppo, Antonio porta.

La Ares ha pubblicato autori unici della cultura cattolica. Quali sono i testi a cui è più legato e quali consiglierebbe per scoprire il catalogo Ares?

Il cavallo rosso e le opere di Sant Jose Maria Escriban e abbiamo un folto numero di scrittori che fanno bene sperare

E il romanzo su Rimbaud?

Non lo pubblicherò perché non lo ho scritto e non lo scriverò mai. La trama ruota attorno ad un antenato di mia nonna che a vent’anni studente medicina aveva la passione letteraria ispirato da Carducci. Avrei voluto retrodatare tale vicenda per far incontrare a Milano, Mario Pirotta, che aveva fondato un circolo anarchico con Mario Borsa, per farlo incontrare con Rimbaud nel suo periodo milanese. Mettendo a confronto la vicenda di Rimbaud e Pirotta