Daniele Meloni rappresenta uno dei massimi esperti di UK nel panorama geopolitico italiano. Collaboratore di Atlantico Quotidiano, alla cultura del Regno Unito, alla Brexit ed alla vita reale della nazione ha dedicato i suoi studi ed il suo impegno, culminati nella scrittura di “BORIS JOHNSON. L’ascesa del leader conservatore ed il Regno Unito post Brexit” edito dalla sempre attenta Giubilei Regnani, casa editrice valida nella scelta di testi che superino la narrazione mainstream. All’interno del manoscritto, in uscita il prossimo 3 gennaio nelle librerie, il racconto della vera UK post Brexit ed il percorso di Bojo in seguito a quel 23 giugno 2016 che ancora non smette di dividere e far discutere gli osservatori. Pertanto, analisi e prospettive dell’autore rappresentano per noi fonte di apprendimento notevole su una nazione che contribuirà a segnare il futuro geopolitico globale.
In che modo nasce e si sviluppa l’idea di scrivere questo libro?
Nasce da due considerazioni. La prima è che volevo scrivere qualcosa che mettesse a frutto le mie conoscenze e la mia passione per la politica britannica. La seconda è la mia insoddisfazione relativamente allo story-telling sul Regno Unito e su Boris Johnson dalla Brexit in poi. Abbiamo davvero letto troppe fake news. Davvero si può credere che Johnson sarebbe stato arrestato in caso di mancata ottemperanza di una sentenza della Corte Suprema? O che la Regina sarebbe stata evacuata da Buckingham Palace in caso di hard Brexit? La mia idea era di scrivere qualcosa di più equilibrato sul nuovo corso che ha intrapreso lo UK negli ultimi anni. Spero che i lettori apprezzeranno.
Come valuti la figura del premier britannico nell’attuale scenario geopolitico globale? Ti riconosci nelle sue decisioni recenti?
Boris Johnson è un unicum, non ci sono figure simili nel partito Conservatore e nella politica inglese. È un uomo dotato di un grande fiuto politico e di grande scaltrezza. Paradossalmente tra lui e Cameron era lui il più europeista dei due, come background e percorso politico-intellettuale. La Brexit è stata anche la storia di come BoJo ha cercato di far sloggiare David da Downing Street. Nel libro lo spiego. Johnson è sicuramente molto ambizioso. La nuova Global Britain, il piano per riequilibrare le disuguaglianze tra Londra e il resto dello UK, la riforma della PA, gli investimenti nella difesa e le nuove politiche commerciali all’insegna del free trade fanno di lui e del suo paese dei protagonisti di assoluto rilievo nel panorama della politica internazionale contemporanea.
Boris Johnson attraversa un periodo di riscontri elettorali altalenanti, tra ampie vittorie e qualche recente batosta. Credi che le decisioni prese in merito alla pandemia abbiano influito sui risultati?
L’ultima suppletiva nello Shropshire è stata un massacro per i Tories. Si votava nel seggio di Owen Paterson, il parlamentare dimessosi per lo scandalo sul lobbying e gli elettori hanno punito Johnson e il suo partito. Tuttavia, le suppletive spesso e volentieri si risolvono in voti di protesta contro i governi. Le decisioni prese dall’esecutivo per contrastare il COVID hanno lasciato il segno soprattutto nel partito di Johnson. Novantanove deputati hanno votato contro di lui settimana scorsa sul Covid Pass, per gli eventi a rischio assembramento. Nel paese, invece, i sondaggi dicono che la gente è a favore di misure restrittive se in ballo c’è la salute. Secondo me il calo di consensi nei confronti del Premier è iniziato quando ha aumentato le tasse per finanziare la riforma del Servizio Sanitario Nazionale (NHS) e dell’assistenza sociosanitaria. Molti thatcheriani nel partito non lo hanno digerito e anche le associazioni di categoria come la CBI – la Confindustria britannica – non hanno certo fatto salti di gioia.
In cosa Boris Johnson potrebbe e dovrebbe fungere da esempio per i leader conservatori nostrani?
Io credo sia molto difficile esportare un modello politico da un paese all’altro. La politica britannica è molto diversa dalla nostra. Basti pensare alla legge elettorale o al modello di competizione politica di Westminster e paragonarlo a quello italiano. Credo, però, che in questa fase storica il governo Tory sia l’unico governo di centrodestra tra i paesi più importanti in Europa. È chiaro che può rappresentare un punto di riferimento per il centrodestra italiano, specie ora che il termine “conservatore” sta acquisendo terreno nel dibattito politico. Non dimentichiamo che i Tories governano il Regno Unito da quasi due secoli e che sono il partito del potere per eccellenza in UK. La differenza più lampante con il nostro centrodestra è proprio questa ma è anche la sfida che Salvini e Meloni hanno di fronte: rendere il loro schieramento la “naturale coalizione di governo italiana”.
In che modo valuti l’attuale scenario politico italiano? Come ne prospetti il futuro?
In Italia si deve ripristinare il prima possibile il rapporto tra eletti ed elettori sulla base di un forte legame territoriale. Via il proporzionale e via le candidatura plurime. Gli eletti devono essere espressione dei loro territori di provenienza e rispondere agli elettori ancor prima che ai segretari di partito. Va ripristinata anche la normale dialettica tra maggioranza e opposizione che è stata diluita dalla nascita del governo di (quasi) unità nazionale, con i risultati che stiamo vedendo nel dibattito politico e nella cloroformizzazione di quello mediatico. Sembra che anche il prossimo governo sarà legato mani e piedi all’attuazione del PNRR da quì al 2027 e ai pareri dell’UE sulle nostre leggi di bilancio e non solo. Dobbiamo recuperare fiducia in noi stessi e nella nostra politica anche per avere un rapporto più dialettico e meno prono nei confronti di Bruxelles e dei nostri alleati internazionali.
Puoi esprimerci un tuo giudizio sull’operato comunicativo della classe giornalistica italiana nel corso della pandemia?
Abbiamo assistito a pregevoli reportage anche tra le corsie dei malati di COVID e a delle inchieste di tutto rispetto ma, nel complesso, mi sembra che invece di rendere il potere accountable si stia cercando di attaccare alcune categorie sociali e di pensiero, attribuendo loro ogni colpa per l’aumento dei contagi e per il mancato ripristino della normalità pre-pandemia. In primis, il giornalismo deve essere watchdog del potere, non di Stefano Puzzer, il cui destino mi può interessare molto relativamente. Il narcisismo di alcuni colleghi e delle virostar sta incrinando il rapporto di fiducia tra cittadini e informazione e, di conseguenza, anche quello tra i cittadini ed istituzioni.
Di che misure sociali ed economiche avrebbe bisogno il nostro paese per ottenere una piena ripartenza?
Visto che di “buonsenso” e “responsabilità” parlano tutti, io dico che abbiamo bisogno di più libertà. Quando la pandemia sarà finita – e finirà quando vorremo che finirà – dovremo attuare un programma di tagli alle tasse per essere concorrenziali con i maggiori paesi europei e attrarre imprese e capitali nella nostra nazione. Non mi riferisco al solito pannicello caldo ma ad un vero e proprio shock fiscale. Da anni seguiamo il solito canovaccio: aumenta il debito pubblico e “bisogna” aumentare le tasse per ripianarlo. Poi scopri che il debito pubblico aumenta comunque, i servizi peggiorano e le tasse aumentano (specie per alcune categorie che si trovano nella condizione di doverle sempre pagare). Ma un percorso di crescita è impossibile in questo modo. Anche il vecchio adagio “pagare le tasse per pagarne di meno” – molto popolare a sinistra – è fuorviante: se tutti pagassero le tasse lo Stato sperpererebbe di più e non risparmieremmo un centesimo. Dobbiamo concentrarci sulle politiche energetiche, sull’aumento dei salari (siamo l’unico paese in Europa che negli ultimi 30 anni ha visto una loro compressione e non una loro espansione) e sulla crescita di una classe dirigente all’altezza della complessità del mondo contemporaneo.
Quanto sarà importante introdurre una proposta politica ambientalista che non sfavorisca lavoratori ed imprenditori?
La transizione energetica e la green economy non devono essere pagate dai ceti più deboli e devono avvenire con gradualità e senza ulteriori tasse punitive per le attività imprenditoriali. No alla Plastic Tax – che penalizzerebbe, tra l’altro, un ampio comparto della nostra economia – no a misure che contraggono la crescita economica invece di espanderla. I vertici internazionali sull’ambiente, come l’ultimo di Glasgow, di solito si risolvono in passerelle politiche e aggiungono ben poco alla causa. Mettere d’accordo quasi 200 paesi su un tetto alle emissioni di CO2 tra oltre trent’anni è una chimera che qualsiasi adepto alla realpolitik non può che rigettare. Se anche noi limitiamo le nostre emissioni e una sola azienda cinese ne produce più di Pakistan, Giappone e Sud Corea messi insieme non si può credere alla retorica di “salvare il pianeta”.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sono entusiasta dell’uscita di questo libro, che rappresenta anche il primo libro su Boris Johnson e la Global Britain in Italia. La mia è un’istantanea non solo del percorso politico dell’attuale Premier, ma anche della politica e della società britannica dall’ormai celebre 23 giugno 2016 ad oggi. In futuro vorrei scrivere ancora della politica e della storia di questo paese.
