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Mishima, storia di uno scrittore trafitto da una rosa

Mishima, storia di uno scrittore trafitto da una rosa

Di Francesco Subiaco


«Conosci il poeta che venne assassinato da una rosa?»


Yukio Mishima, non è solo il grigio dell’acciaio delle katane dei samurai, il rosso del sangue versato durante il seppuku quel lontano 25 novembre del 1970, o il candido dei crisantemi diafani dell’imperatore e del Giappone dei kami. È anche il giallo aureo del Padiglione d’oro, il nero delle uniformi conformi e tradizionali degli studenti Giapponesi, dietro cui si nascondeva il protagonista delicato e imperdonabile delle Confessioni di una maschera, il viola dei kimoni del teatro Nō e soprattutto è il cremisi fatale e sensuale della rosa e della maledizione che lo lega a questo autore straordinario e dannato delle lettere nipponiche. Tinte che mostrano come Mishima sia un autore ricco di imperdonabili e inconfessabili sfaccettature, che va letto e conosciuto alla luce di tutti i suoi colori proibiti. Yukio Mishima, infatti, vive nella sua figura l’equivoco di essere non solo un grande autore, ma soprattutto di essere un simbolo e una leggenda per gran parte della cultura controcorrente, definizione limitante per un autore di questo spessore. Mishima, infatti, non fu soltanto l’icona mitica e sacrale di una “destra divina” e ribelle, che trovava nel suo seppuku, compiuto il 25 novembre del 1970, il sacrificio di un Che Guevara conservatore e identitario oppure nella sua nostalgica battaglia per un mondo antico e panico la protesta antimoderna di un Pasolini patriottico e guerriero, ma fu anche tanto altro. Fu l’ultimo testimone di una kulturkamph tra identità nipponica e mondo moderno, tra le tentazioni della civiltà di massa e le estasi delle ierofanie dei kami, l’esteta armato che di fronte ad un plotone di soldati e di curiosi il 25 novembre offrì la propria vita in nome di una resurrezione spirituale e morale dell’uomo di fronte alla decadenza del Giappone contemporaneo, pregno di nostalgia degli dei e coraggio titanista. Un arcangelo guerriero del numinoso e dell’identità sciamanica e rituale di un sogno perduto e lontano che riflette l’idea per cui “se Dio non esistesse più bisognerebbe farlo rinascere”. Nella produzione di Yukio Mishima però non esistono solo “Sole e acciaio” e “Lezioni spirituali per giovani samurai”, ma c’è molto di più, c’è l’esteta decadente sacerdote della bellezza e martire dell’assoluto, c’è il cantore della desolazione spirituale del mondo che nel Mare della fertilità rese eterni i temi di sconforto e disperazione presenti nella sua sensibilità, c’è soprattutto l’autore puro e incorruttibile trafitto da una rosa che conservava fiori imperituri contro l’inverno dell’oblio e della perdita. C’è il protagonista controverso e innominabile delle lettere nipponiche che con il suo sacrificio volle mettere una firma, un finale su un’opera d’arte complessa e celestiale fatta di romanzi unici come la tetralogia de “Il mare della fertilità” e le “Confessioni di una maschera”. Per scoprire tutte queste sfumature di Yukio Mishima è fondamentale leggere e rileggere “Trafitto da una rosa” di Atsushi Tanigawa, editi dalla Gog edizioni di Lorenzo Vitelli. Tanigawa estetologo ed acuto conoscitore di Mishima traccia una cartografia dell’autore dei Colori Proibiti innescandosi proprio dal ricordo personale di quel 25 novembre del 1970, il giorno del seppuku, il suicidio rituale dei samurai, quello in cui Mishima si trafigge il ventre, come ultimo, estremo gesto. Da quel ricordo fatale nasce l’immersione totale di Tanigawa nell’opera di Mishima approfondendone le opere e i temi principali: la musica, la flora, il culto del corpo, le contaminazioni elleniche, quelle poetiche, da Rilke a Valéry, l’influenza dannunziana, la cultura liberty e l’identità profonda, tra D’Annunzio e Kawabata. Un viaggio in un mondo fatto di bellezza e morte, di sublime e vitalismo, in cui il lettore troverà un autore straordinario capace di sprofondare negli abissi dell’interiorità e di risorgere nella maestosità di un capolavoro nel richiamo dei passati perduti. Un viaggio tra delicatezza e sensualità, estetismo e ribellione, in cui la rosa, come una maledizione letteraria, incontra il destino di Mishima e dei personaggi, diventando la metafora del rapporto tra l’artista e l’assoluto, l’uomo e la bellezza, il corpo e lo spirito. Come il Rilke di un suo racconto, che si avvicina ad una rosa spinosa, seppur malato e vulnerabile, e ne viene trafitto mortalmente anche Mishima è trafitto dalla bellezza, dal numinoso, dalla potenza, che lo colpiscono, dissanguano e prosciugano fino a trasformare la sua vita in un esile vetro e la sua opera in un miracolo fragile e straordinario. Scoprire quindi l’opera di Tanigawa è scoprire e vivere il rapporto conflittuale e fatale con quella rosa ricca di echi e di misteri. È rivelare che l’opera di Mishima non è solo quella di un santino di una parte, ma il travaglio spirituale di una delle anime più profonde e malinconiche del novecento. Un autore che scrisse romanzi in cui i temi dell’omosessualità, del mito, del rapporto controverso con l’identità, con la cultura toccano, diventano scenari per mostrare con lucida disperazione i luoghi oscuri dell’animo umano, il vento divino e travolgente del sacro che attraversa le vite dei protagonisti rompendone tutte le certezze e conferme poiché “Le emozioni non hanno simpatia per l’ordine fisso”. La delicatezza piena di tatto e profondità che permeerà le atmosfere del capolavori di Nagisa Oshima, “Merry Christmas mr. Lawrence”, ricco di echi mishimiani (la colonna sonora di Ryuichi Sakamoto infatti si chiamerà Forbidden colours). Rileggere oggi il proclama conclusivo dell’esistenza di Yukio Mishima, con la consapevolezza che ci viene dalla lettura di “Trafitto da una rosa”, ci porta a guardarlo come l’ultima speranza, il finale inaspettato che si cela nel Mare della fertilità, un’ultima ribellione romantica dopo l’ammissione finale della Decomposizione dell’angelo (ultimo tomo del Mare della fertilità):”Sono venuto” pensò Honda “nel luogo del nulla, dove ogni ricordo è cancellato”. Un finale che Mishima col suo gesto voleva riscattare far risorgere con un gesto romantico e rituale poiché “la vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”.

L’educazione senti/mentale di Bianca Bellova

– Francesco Subiaco

La letteratura ceca non è solo il fantasma asburgico e cupo del genio di Franz Kafka, che peraltro scriveva in tedesco. È il languore, la banalità del male che avvolge il protagonista de Il bruciacadaveri, il genio faustiano e proibito dello scienziato alchimista Prokop nato dalla penna del Dostoevskij della fantascienza Karel Capek, sono i dolciumi raminghi che si scambiano famiglie separate prima di riscoprire la propria lontananza ne “I tedeschi”. Un’idea di letteratura visionaria capace di fondere umorismo nero e dolore autentico, gli abissi dell’animo umano ed un gusto grottesco e surreale che seduce il lettore e gli dà l’incanto di aver trovato un continente di sogni, pane per secoli di letteratura ancora da consumare. È la genialità che accompagna i testi che compongono la collana Novalna della Miraggi edizioni di Fabio Mendolicchio. Una collana nata per raccontare i maestri segreti della letteratura ceca, che prende il nome da quella Nouvelle vague permanente che fu la “nuova onda” che colpì la cultura del blocco orientale dopo la primavera di Praga, e che vuole mostrare i migliori frutti di quelle innovazioni, visioni e suggestioni che accompagnano le opere dei vari Capek, Katalpa e soprattutto dei testi di una grande scrittrice contemporanea come Bianca Bellova. Bianca Bellova non è una scrittrice convenzionale, che si nutre di storie banali e stereotipate, che consolano e lusingano il lettore con uno stile standard, insignificante e pavido, come molti altri scrittori nati negli anni 70. La Bellova è un’autrice che ha una voce, un groviglio di simboli, parole, descrizioni che rendono ogni sua pagina unica, autentica, personale e che riesce a realizzare anche in una descrizione comune ciò che tanti scrittori cercano di straordinario in anni di lavoro e carriera. Per questo lode a Miraggi per aver presentato al lettore italiano tre perle della produzione di questa scrittrice ceca: “Il lago”, “Mona” e soprattutto “Romanzo senti/mentale”. Tre testi che indagano la durezza dell’esistenza, la solitudine, gli abissi inesplorati dell’animo umano con l’ intensità di chi sa trasformare un minuto estremamente intenso in una fugace eternità. Romanzi sospesi, di deserti sentimentali e storie grottesche. Tra questi Romanzo senti/mentale si presenta come un testo profondamente diverso dai successivi, un esordio che già mantiene le aspettative che garantiranno il successo dei testi successivi della Bellova, nonostante alcune divergenze ed originalità. Questa storia, che non ha nulla di melenso e sentimentale nel senso spicciolo, è la storia di due ragazzi cechi Eda e Nina, che vivono in un mondo che si è risvegliato durante la rivoluzione di velluto che ha portato la fine del regime comunista, rappresentato dalla figura sciagurata del padre di Eda. Eda e Nina non sono però innamorati, sono uniti da un legame diverso segnato e consolidato dall’assenza di quella che può essere definita la vera protagonista di questo romanzo:Elitska. Elitska è una di quelle donne che non sembrano persone, bensì atmosfere, la cui assenza ingombrante contamina le vite di questi personaggi, come uno spettro infesta una casa stregata. Sorella di Nina e amata di Eda, la sua morte, comunicata fin dalle prime pagine del romanzo, sarà il motore di questo lungo racconto a due voci dove la sorella e l’amato la ricorderanno, alluderanno e mostreranno in quelle splendide ventiquattro ore che copriranno l’arco della narrazione. Dalla casa mausoleo in cui le tazze e i cimeli della defunta vengono tenuti come oggetti sacri, un po villa stregata un po reliquiario, al difficile rapporto tra Eda ed il padre, stupratore perverso e insensibile, fino al ritrovamento del diario perduto ma centrale nelle vicende dei protagonisti, della defunta Elitska, Bianca Bellova ricostruisce un abisso luminoso in cui anche le dense centotrenta pagine del suo romanzo sembrano fughe letterarie da migliaia di pagine, come sottolinea la traduttrice Laura Angeloni, formando un testo straordinario che permette di iniziare un viaggio verso il mondo della sua autrice, da cui non si vorrebbe tornare mai più.

Il taccuino segreto di Gombrowicz

– Francesco Subiaco

Il diario è un modo unico di confessarsi, di mostrarsi istrionicamente in tutti i propri mille volti, mischiando ricordi e commenti, annotazioni e pettegolezzi. Tutto in questa forma appare intimo, unico, introspettivo e per questo falso e montato. La maggior parte degli scrittori non sceglie il diario per confessarsi, ma per esporsi, per mostrarsi. Modellando la realtà alla luce di un unico grande personaggio-narratore che diventa poi il protagonista assoluto come autore e maschera delle storie che infestano questi taccuini. Un esempio sono i diari di Renard, di Prezzolini, in cui questi autori esplodono in tutta la loro genialità riuscendo ad essere interessanti, ma non sinceri, a volte. Lo scrittore, anche quando redige un diario, rimane sempre un artefice ed un mentitore, che plasma la realtà per non subirne la scomodità, omettendo peccati, piccolezze e desideri inconfessabili. Così i grandi autori malati di ambizioni liriche, curano e allevano piccole reliquie di carta che venerano e illuminano, di segreti, di paure, di ombre, di pensieri illeciti. È il caso su tutti del tacchino segreto di Pavese, in cui l’impoliticità e le ombre della propria anima si contaminano con una rappresentazione incoffessabile della guerra civile. Ma è soprattutto il caso di Witold Gombrowicz e del suo “Kronos”(Il Saggiatore). Kronos non è solo un taccuino proibito, è un tempo ritrovato proustiano costruito per frammenti, una avventura autobiografica e retrospettiva di immagini, ricordi ed visioni del suo autore protagonista. Gombrowicz m questo testo mostra i suoi lati più intimi e proibiti dalla bisessualità alla politica, dal disincanto verso l’animo umano al backstage della letteratura che ha permesso i suoi libri. Un testo geniali in cui il maestro polacco autore di Ferdydurke e Transatlantico scrive un sotterraneo segreto della sua anima che completa ed integra il Diario precedente, diventandone l compagno segreto ed inconfessabile.Il diario è un modo unico di confessarsi, di mostrarsi istrionicamente in tutti i propri mille volti, mischiando ricordi e commenti, annotazioni e pettegolezzi. Tutto in questa forma appare intimo, unico, introspettivo e per questo falso e montato. La maggior parte degli scrittori non sceglie il diario per confessarsi, ma per esporsi, per mostrarsi. Modellando la realtà alla luce di un unico grande personaggio-narratore che diventa poi il protagonista assoluto come autore e maschera delle storie che infestano questi taccuini. Un esempio sono i diari di Renard, di Prezzolini, in cui questi autori esplodono in tutta la loro genialità riuscendo ad essere interessanti, ma non sinceri, a volte. Lo scrittore, anche quando redige un diario, rimane sempre un artefice ed un mentitore, che plasma la realtà per non subirne la scomodità, omettendo peccati, piccolezze e desideri inconfessabili. Così i grandi autori malati di ambizioni liriche, curano e allevano piccole reliquie di carta che venerano e illuminano, di segreti, di paure, di ombre, di pensieri illeciti. È il caso su tutti del tacchino segreto di Pavese, in cui l’impoliticità e le ombre della propria anima si contaminano con una rappresentazione incoffessabile della guerra civile. Ma è soprattutto il caso di Witold Gombrowicz e del suo “Kronos”(Il Saggiatore). Kronos non è solo un taccuino proibito, è un tempo ritrovato proustiano costruito per frammenti, una avventura autobiografica e retrospettiva di immagini, ricordi ed visioni del suo autore protagonista. Gombrowicz m questo testo mostra i suoi lati più intimi e proibiti dalla bisessualità alla politica, dal disincanto verso l’animo umano al backstage della letteratura che ha permesso i suoi libri. Un testo geniali in cui il maestro polacco autore di Ferdydurke e Transatlantico scrive un sotterraneo segreto della sua anima che completa ed integra il Diario precedente, diventandone l compagno segreto ed inconfessabile.

ANTOLOGIA DI UN AUTORE LIBERO: UN LIBRO ALL’INSEGNA DELLA LIBERTÀ

Abbiamo già di recente intervistato Adalberto Ravazzani, autore di testi e provulgatore di idee liberali, sul nostro blog. Convinti dell’importanza del suo apporto e delle sue opinioni, siamo stati felici di ascoltarne prospettive ed analisi. Tuttavia, di lì a poco è stata pubblicata la nuova fatica letteraria di Ravazzani, con prefazione di Gugliemo Piombini, intitolata “Antologia di un autore libero”. Una raccolta di articoli e lavori che hanno segnato il suo inizio di carriera, così come il rapporto con i suoi maestri, nella convinzione della bontà di idee e tematiche trattate. Dal confronto tra individuo e limitazioni statali, fino alle difficoltà di convivenza con una visione statalista che avversa la nostra società, otteniamo importante spunto per lo sviluppo di una reazione culturale ed ideologica. Pertanto, crediamo che acquisto e lettura del testo rappresentino azione importante per ribadire la necessità di immettere nel nostro panorama societario maggiori dosi di libertà. Inoltre, all’interno del libro è contenuta l’intervista che su Generazione Liberale abbiamo fatto all’autore. Motivazione ulteriore di gratitudine e stima nei suoi confronti.

È appena uscita la tua pubblicazione “Antologia di un autore libero”.
Come è nata l’idea di scrivere questo libro?

“Antologia di un autore libero” è la mia terza pubblicazione. Si tratta di una raccolta armonica, selezionata e metodica (ispirata alla ragioneria) dei centinaia di articoli pubblicati durante la mia breve ma consolidata carriera di scrittore e di divulgatore della cultura. L’idea di dare alle stampe questa pubblicazione è da rintracciarsi in primis nel rapporto affettivo che esiste tra i miei scritti ed il palato dei miei lettori. Attraverso i social ho notato sempre un’ottima interazione con i lettori, basata sulla discussione e l’ascolto. In secondo luogo lo scopo dell’opera è quel tentativo di dare struttura e stabilità alla forma mentis del mio pensiero. Le mie idee conservatrici, cristiane, liberali e di libero mercato meritavano una sistemazione ben approfondita attraverso quegli uomini e quegli autori che hanno portato con orgoglio, come se fossero un vessillo, i frutti di quelle visioni del mondo. Non da ultimo il leitmotiv che attraversa il filo logico dell’Antologia è l’eleutheria, la libertà nel senso etimologicamente più profondo del termine. La mia considerazione della libertà è totalmente avversa all’idea licenziosa e viziosa di cui si facevano portatori i sessantottini. Io credo che il concetto di libertà sia totalmente connesso alle tematiche della responsabilità e dei doveri. Questo libro può essere definito come una spada o uno scudo contro i disvalori sessantottini, in un’epoca come la nostra post sessantottina, collassata nella retorica dei diritti separata dai doveri. Per concludere questa prolusione, vorrei ringraziare Guglielmo Piombini per aver scritto una bella prefazione all’opera.

Credi che le tematiche liberali e conservatrici siano adeguatamente concepite e trattate dall’opinione pubblica?

La risposta può apparire banale: no, le tematiche liberali e conservatrici non sono ben accolte dall’opinione pubblica. Domina incontrastata un’ideologia di fondo nella letteratura e nel giornalismo, così come nella filosofia e nella storiografia delle idee, basata sull’eliminazione sistematica di quei valori autenticamente innovativi e non negoziabili. Ovviamente mi sto riferendo ai centri assiologici della libertà, del Cristianesimo, della proprietà privata, del libero mercato, dell’impresa privata, dell’identità e del conservatorismo. L’egemonia culturale della sinistra domina incontrastata. L’idea gramasciana di invadere ogni settore nevralgico della vita pubblica per condizionare sistematicamente l’ordine sociale e culturale ha trionfato. E così come un parassita, l’ideologia progressista è la Bibbia di scuole, università e giornalisti. Pochi individui dinnanzi a queste macerie riescono a salvarsi o a distinguersi dai deliri marxisti. Nel mio libro, per esempio, ho voluto dare spazio alla prima intervista che feci su Generazione Liberale. Era doveroso mettere in risalto giovani uomini e giovani donne, liberali e conservatori che, con coraggio e con speranza, si battono ogni giorno per mutare il nostro orizzonte culturale, riuscendo a sensibilizzare la popolazione su quelle tematiche oramai controcorrenti e invise dai potenti.

Nel tuo testo raccogli numerosi tuoi articoli incentrati sulle figure ideologiche per te di riferimento.
Quale pensi sia maggiormente attuale?

Non esiste una definizione univoca di quello che è il mio pensiero. La mia ideologia, se così può essere definita, è frutto delle mie esperienze di vita e di ricerca. Scrive bene Piombini nella prefazione:” Il fatto è che Adalberto è un vero e proprio entusiasta della libertà. Negli Stati Uniti sarebbe considerato un libertarian, cioè un deciso antistatalista sostenitore della libertà di scelta dell’individuo in ogni ambito della vita sociale.  Attenzione però a non equivocare questo aggettivo: lungi dall’essere un relativista, un nichilista o un “progressista”, come talvolta in Italia si intende il termine “libertario”, Adalberto è dal punto di vista culturale un conservatore cristiano, consapevole che la libertà individuale si fonda sulla tradizione giudaico-cristiana fiorita storicamente nella nostra civiltà occidentale.”
Da questa straordinaria descrizione di uno dei massimi autori del pensiero libertario posso affermare, senza ombra di dubbio, di essere un conservatore cristiano avverso al progressismo. Credo nella famiglia e nelle identità. Sono antistatalista e individualista, in un mondo dove domina incontrastato il collettivismo che inculcano nei giovani dalle scuole alle università.

All’interno del testo un bel pensiero è dedicato ai tuoi “maestri”.
Curi ancora rapporti umani e lavorativi con loro?


La mia Antologia è un riquadro ben definito dei ritratti dei miei maestri. Essi lasciano il segno, radicalizzano il pensiero, forniscono esempi, valori e contenuti. Penso solo a Leonardo Facco, Guglielmo Piombini o Marco Bassani, insuperabili figure del pensiero libertario. Per non parlare di personaggi storici che, con le loro azioni o le loro radici teoriche, hanno difeso la libertà senza giungere a patti col leviatano o con la tirannia collettivista e fiscale. I rapporti con i miei maestri sono ottimi: più che di rapporti lavorativi vorrei definirli come esempi immortali per il mio animo assetato di libertà e conoscenza. Sono il mio baluardo di speranza! Ma la divulgazione del mio pensiero è stata possibile per mezzo di quelle persone che hanno creduto in me e che mi hanno concesso, dinnanzi al nichilismo odierno, di poter pubblicare senza filtri o censure. Ho trattato degli argomenti “scomodi” e complessi. Nella complessità sono stati resi accessibili a tutti per mezzo della mia scrittura.

Hai in programma la scrittura di nuovi libri nel prossimo futuro?


Giunto ormai alla terza pubblicazione libresca, valorizzato da oltre centinaia di articoli pubblicati nel corso del tempo, credo di voler ancora lasciare un segno perenne nell’universo della scrittura. Prometto di non fermarmi e scrivere ancora articoli e libri con la stessa grinta che ho infuso nel calice del mio inchiostro. Bisogna usare la penna come una spada ben affilata. Il resto viene di conseguenza.

Ritieni che avvicinare le nuove generazioni alle idee liberali possa essere principio di progresso per la nostra società nei prossimi anni?

Assolutamente si!
Bisogna insegnare ai giovani ad essere degli estremisti della libertà e non dei semplici schiavi in mano all’istruzione pubblica, a delle marionette come gli influencer che sono, e lo dico senza remore, pessimi esempi di vita. In mezzo a una mandria di giovani ossessionata dai titoli, dalle mode passeggere o dal “non pensiero”, esistono tanti giovani volenterosi e combattivi che non si piegano alla disfatta odierna del neo marxismo e dei suoi derivati liberticidi. Occorre creare argini per i nostri sentieri e non inciampare nelle tenebre della decadenza. Occorre lavorare sodo e sfidare il destino. “Se il destino è contro di noi, peggio per lui!”

Antonio Mocciola e la sindrome di “Stoccolma” come analisi dell’uomo


Antonio Mocciola è un autore teatrale-cinematografico in continua ricerca verso una libertà espressiva che possa far emergere punti di domanda agli spettatori delle sue opere. In veste di scrittore ha  pubblicato sette libri e ha scritto ben venticinque commedie. Inoltre lavora per il cinema e per la televisione. Ha curato le edizioni di alcuni lavori dedicati alla cantante Giuni Russo e ha collaborato con Franco Battiato.  Nel 2016 va in scena “La Cella Zero” scritto con Pietro Ioia, tratto dal libro di quest’ultimo sull’esperienza della violenza del sistema carcerario. Nel 2020 ecco andare in scena “Santo Stefano” sulla vita dell’anarchico Gaetano Bresci. Il suo ultimo spettacolo “Stoccolma”, finalista al Premio Annoni 2021, è un forte che prende come pretesto la Sindrome di Stoccolma per affrontare gli abissi legati alle relazioni familiari e all’identità.  Il suo debutto, in anteprima per la stampa, si è tenuto domenica 10 ottobre al Teatro Avamposto di Napoli.

Adesso è in scena il tuo spettacolo dal titolo “Stoccolma”. Di cosa si tratta?

La sindrome di Stoccolma, a cui si riferisce il titolo, è l’innamoramento che può scattare da parte della vittima nei confronti del proprio carnefice. Mi intrigava ambientare lo spettacolo in una cantina, dove uno studente (Michele Capone) rapisce il proprio professore-aguzzino (Antonio De Rosa), con esiti inimmaginabili. La regia di Maria Verde e le musiche di Antonio Gillo hanno completato il quadro, e speriamo di portare in giro questo testo, finalista peraltro al Premio Annoni 2021 per la drammaturgia. A novembre tengo molto al debutto di Adolf prima di Hitler, con Vincenzo Coppola, Francesco Barra e la partecipazione di Gabriella Cerino, per la regia di Diego Sommaripa, in un teatro da noi napoletani assai amato, l’Elicantropo.

La tua è una visione artistica che cerca di scuotere gli animi, raccontando storie anche controverse e di forte impatto. Quanto hanno inciso gli enfant terrible su di te?

Amo tutti gli autori controversi, scomodi, spesso non capiti. Diffido della “popolarità”, o comunque mi sento meno partecipe quando c’è un prodotto amato da tanti. Da Gide a Sade, da Lautréamont a Gadda, mi affeziono a tutti coloro che osano, che rischiano. Mai essere innocui, mi diceva Battiato, la cui presenza manca tanto a tutti noi, nell’anno in cui, peraltro, abbiamo perso anche Piera Degli Esposti, per la quale scrissi il mio primo testo, nel 2007. Un anno davvero infausto.

Il teatro italiano è ancora vivo?

Il teatro si, gli autori anche, gli attori più che mai. Il pubblico non lo so. Il covid ha spaventato molti, e già il piatto “piangeva” prima. Spero che si capisca che le sale teatrali, e cinematografiche, sono i posti più sicuri del mondo, sia perché sono sanificati, sia perché non sono mai frequentatissimi. Manca però il coraggio delle produzioni, affezionate al guadagno immediato. Cosa davvero ironica, per il teatro…

Il tuo libro “Le belle addormentate” è legato ai sacri luoghi ormai in totale abbandono, quelli dell’Italia profonda. Quanto credi siano importanti le radici in un momento in cui la rimembranza verso gli avi pare essersi persa?Torneremo fatalmente alla terra, alle radici. Le città hanno raggiunto la saturazione, stravolte da un’urbanizzazione selvaggia e da un peggioramento deciso della vita nelle periferie. E’ anche vero che città come Milano, ad esempio, stanno vivendo una vera e propria golden age, a differenza di Napoli, Roma, e ahimè anche Torino. Abbiamo abbandonato l’Appennino a sé stesso, ad esempio. Eppure veniamo tutti da lì. Mi sembra un suicidio tattico: la montagna è una risorsa. Le belle addormentate, che pubblicai sei anni fa, è più che mai attuale. E infatti tuttora me lo chiedono.

Oltre la letteratura e il teatro, hai scritto anche per il cinema. Quali sono le principali differenze, in termini di scrittura, tra i due mondi?La sintesi che ti chiede il cinema, il peso dei silenzi, il valore delle immagini, la possibilità di lavorare sui volti, le sfumature, è eccitante per uno sceneggiatore. Devo ammettere di essere più nei miei panni quando vedo il respiro dell’attore in sala, ma se penso al successo di alcuni film che ho scritto, tipo Papà uccidi il mostro per Fabio Vasco, Ubbidire per Giuseppe Bucci o a La controra di Paolo Sideri, con i miei amati Lucianna De Falco e Giovanni Allocca, in rampa di lancio, non posso che amare anche la scrittura cinematografica. In fondo sono lo stesso ragazzo che scriveva bei temi al liceo classico. Cambia solo il vestito, e l’habitat. Nessuno può sfuggire alla propria natura.