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De Masi: “La questione sociale sarà il vero tema della transizione digitale”

De Masi: “La questione sociale sarà il vero tema della transizione digitale”

Di Francesco Subiaco

La transizione digitale e l’innovazione tecnica pongono il cittadino del mondo post industriale di fronte ad una sfida critica: la gestione del cambiamento e la pianificazione del futuro del lavoro. Nel mondo post-industriale, infatti, all’interno dei processi produttivi prendono sempre più spazio la sostituzione del capitale rispetto alla forza lavoro, la disintermediazione e la conseguente crisi della classe media e l’accentramento della ricchezza, del potere, del sapere nelle mani di ristrette oligarchie finanziarie. Eventi la cui conseguenza sono l’obsolescenza professionale della classe media, l’emergenza della ricollocazione delle forze produttive e l’aumento delle disuguaglianze che pongono un tema prioritario: la necessità di una nuova questione sociale e il ruolo dello stato nella transizione digitale. Per approfondire questi temi abbiamo intervistato il sociologo Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro all’Università «La Sapienza» di Roma dove è stato preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione. Svolge attività di consulenza per organizzazioni pubbliche e private. Conferenziere internazionale e saggista, è autore di numerose pubblicazioni riguardanti soprattutto la società postindustriale, la sociologia del lavoro e la creatività. Che recentemente ha pubblicato “Il lavoro nel XXI secolo” (2018) e “La felicità negata” (2022), entrambi per Einaudi.


Professor De Masi, come la transizione digitale sta ristrutturando e mutando la conformazione del mercato del lavoro?

Negli ultimi secoli abbiamo assistito a quattro ondate tecnologiche: il telaio meccanico ad inizio Ottocento; le macchine elettromeccaniche, nel Novecento; la nascita dei computer e l’avvento del digitale, nella seconda metà del Novecento; lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, negli ultimi anni. L’affermazione di queste ondate tecnologiche ha modificato il mercato del lavoro, prima sostituendo gli operai comuni con i mezzi meccanici, poi gli operai specializzati con le macchine elettromeccaniche, successivamente i quadri ed i dirigenti con lo sviluppo del digitale e infine una parte dei lavori creativi con l’arrivo dell’Intelligenza Artificiale. Ognuna di queste ondate tecnologiche ha modificato il mercato del lavoro in due sensi: ha ridotto il fabbisogno di fattore umano e di forza lavoro; ha spostato percentuali crescenti di lavoratori nel settore del lavoro creativo (laboratori scientifici, atelier artistici, ecc.) o in quello dei lavori di tipo affettivo (badanti, ecc.). Una mutazione che ha ridefinito la piramide del lavoro al cui apice ora sono presenti i lavori creativi e alla base quelli affettivi. 


Che impatto sociale avrà a suo dire il passaggio della centralità nei processi produttivi dalla forza lavoro e dai quadri dirigenti al capitale, come fonte di finanziamento della AI e della robotica?

Renderà sempre meno necessaria la componente umana a vantaggio della componente meccanica e informatica. Producendo un accentramento del potere (concentrato nelle mani di chi detiene la proprietà dei mezzi tecnici) e della ricchezza (concentrato nelle mani di chi detiene i capitali). In questo contesto assume un peso fondamentale, rispetto al fattore e al tempo di lavoro, la dimensione del tempo libero e di come si impiega la propria esistenza al di fuori del mercato del lavoro.


Lo sviluppo della globalizzazione e delle nuove tecnologie sta ridefinendo la piramide sociale cannibalizzando la classe media, ampliando il divario tra “servitori personali” e oligarchia creativa-tecnica?

La classe media sarà sempre più prosciugata dal processo di disintermediazione. Il crescente divario tra una élite creativa in cima alla piramide sociale e, alla base, i lavoratori non professionalizzati e con bassi stipendi, utilizzati nel settore affettivo, porterà a una evaporazione della classe media. Di fronte poi alla destrutturazione del luogo di lavoro prodotto da fenomeni come lo smart working, anche figure come capi dipartimento, capi ufficio e sovrintendenti organizzativi vedranno scomparire via via il loro impiego e il loro peso. Scompaiono quindi tutte quelle figure che hanno rappresentato l’essenza della classe media e che fondavano la loro azione sull’intermediazione e sull’organizzazione del lavoro. In sintesi, la disintermediazione ha prosciugato la classe media, creando un problema di ricollocamento di numerosi lavoratori che non trovano più impiego nel loro tradizionale settore di appartenenza e la cui condizione provoca un problema sociale difficilmente risolubile.


Oggi le motivazioni sociali e quelle del sistema industriale e digitale sono tra loro in idiosincrasia, è necessario secondo lei rilanciare il tema della questione sociale?

È un tema fondamentale. La questione sociale e il tema del welfare diventeranno delle cruciali di fronte ai cambiamenti della transizione digitale. Perché la vera sfida della questione sociale è quella redistributiva. Bisogna ridistribuire la ricchezza, il sapere, il potere, le opportunità e le tutele, mentre la tendenza è accentratrice e renderà necessario un enorme lavoro politico. La nostra società capitalistica ha la capacità straordinaria di produrre valore e ricchezza (concentrata nelle mani di poche persone), ma non ha la capacità di redistribuirli. Su tale questione è necessario concentrare le sfide del futuro.

 
L’avanzamento della disintermediazione e della precarizzazione rende necessarie misure come il reddito universale? 

Sono strumenti innovativi e fondamentali per affrontare la transizione digitale. Nel contesto che ho delineato, passeremo da un reddito di cittadinanza a un reddito universale. Saremo costretti (finalmente costretti) a un impiego intensivo e invasivo del welfare, attraverso tassazioni sempre più progressive ed un ruolo più attivo dello Stato al fine di destinare gli investimenti verso la soddisfazione dei bisogni collettivi. Una necessità che diventerà urgente di fronte a un numero decrescente di persone che disporrà di un reddito lavorativo, poiché – come ho detto – la produzione richiederà un impiego decrescente di energia umana. Una condizione che farà venire meno la leva distributiva del lavoro come è stato finora (“tanto più lavori, tanto più guadagni”) facendo corrispondere il guadagno e il reddito non più a questo criterio ma ai criteri redistributivi del welfare, legati non all’impiego ma alla cittadinanza. Soprattutto perché è venuta meno la centralità del lavoro nella vita dell’uomo, facendo diventare il tempo libero un problema centrale e fondamentale. L’identità dell’individuo non è più definita solo in base al lavoro ma anche in base alla quantità e alla qualità del tempo libero a disposizione.


Quale è la sfida più sottovalutata della transizione tecnologica?

Quella di cui abbiamo parlato finora: la redistribuzione e la questione sociale. Perché oggi la maggior parte del valore prodotto è creato da macchine la cui proprietà e le cui risorse sono nelle mani di un numero esiguo di persone: oggi gli otto personaggi più ricchi del mondo detengono una ricchezza pari a quella detenuta dai 4 miliardi di persone più povere. Da qui la necessità della redistribuzione in tutti i suoi ambiti per affrontare il presente e le sfide del futuro. Purtroppo, però, il capitalismo è capace di produrre ma non è capace di distribuire.

RIGHINI (FDI): LAZIO FONDAMENTALE SNODO PER SCELTE STRATEGICHE DELLA NAZIONE

RIGHINI (FDI): LAZIO FONDAMENTALE SNODO PER SCELTE STRATEGICHE DELLA NAZIONE

Di Francesco Subiaco

Per i conservatori di Fratelli d’Italia le elezioni regionali non sono solo la prova per confermare e corroborare il loro consenso in una regione storicamente complessa come il Lazio, ma sono soprattutto l’occasione per dimostrare che Fratelli d’Italia, come la Lega ha testimoniato nel Nord Italia, non è solo una forza politica capace di esprimere una vocazione maggioritaria a livello nazionale, ma soprattutto che essa è una forza politica capace di incarnare uomini delle istituzioni, grandi amministratori capaci di rappresentare tutti i cittadini della propria Regione e proporre una classe di futuri governatori e amministratori locali per riqualificare i propri territori. Una vocazione istituzionale che è il nocciolo duro dell’ultimo intervento del consigliere regionale Giancarlo Righini ad un incontro con i candidati a Grottaferrata in piena campagna elettorale, confermando la volontà di proporre Fratelli d’Italia non solo come il partito della destra italiana, ma soprattutto come il partito degli italiani. Per meglio comprendere la proposta elettorale di Giancarlo Righini lo abbiamo intervistato per la nostra testata.
Entrato nel 2013 in Consiglio Regionale del Lazio, risultando il più votato di FdI nel collegio di Roma e Provincia, Giancarlo Righini fu anche il primo consigliere regionale del partito di Giorgia Meloni su tutto il territorio nazionale, un rappresentante ideale della nuova volontà di FDI di essere sia un partito istituzionale e laico sia una forza popolare ed identitaria.


Quali saranno le principali priorità dell’azione di una eventuale giunta di centrodestra alla guida della Regione Lazio?
La sanità sarà certamente la prima di tante emergenze che saremo chiamati ad affrontare. E intollerabile vedere le file ai pronto soccorso, i pazienti parcheggiati in barella nelle corsie, molto spesso sulla stessa barella dellambulanza che li ha trasportati, generando il fenomeno del fermo ambulanza che determina ulteiori ritardi e disagi nel servizio. Agiremo subito sulle liste di attesa, oggi infinite sia per la diagnostica che per alcuni interventi chirurgici, centralizzando il sistema delle prenotazioni, integrando i posti letto, sia pubblici che convenzionati, avvalendoci delle moderne tecnologie, così come sono in uso in altre regioni. Nel medio e lungo termine ci poniamo gli obiettivi di costruire la sanità territoriale, sviluppare le cure domiciliari, avviare una stagione di programmazione sia per il potenziamento e lefficentamento delle strutture, sia per la valorizzazione del personale, vero grande patrimonio del sistema. Il Pd sarà ricordato per la chiusura degli ospedali ed il taglio dei posti letto. Con Francesco Rocca intendiamo varare una stagione fatta di reparti e ospedali che si aprono. In particolare dedicheremo attenzione allintegrazione socio-sanitaria, alla presa in carico dei fragili, disabili e anziani specialmente, verso cui va diffusa una nuova cultura dell’accessibilità. Quindi le cure oncologiche, con un nuovo piano oncologico regionale, le malattie rare, il disagio mentale e psicologico in rapida crescita, soprattutto tra i giovani, dopo la fase più acuta della pandemia, e restando sempre sul mondo giovanile, un tema che mi sta particolarmente a cuore è la realizzazione di un centro di eccellenza per I disturbi alimentari”.
Durante la campagna elettorale ha puntato il focus sulla necessità di tutelare la piccola e media impresa e di contrastare l’immobilismo della burocrazia regionale. In che modo si possono raggiungere questi due obiettivi?
Il mondo produttivo chiede prima di tutto fiducia e semplificazione burocratica. Efficace a tal proposito è il motto con cui Giorgia Meloni ha definito lapproccio dei conservatori alle politiche di sviluppo: non disturbare chi vuole fare. E la filosofia che applicheremo anche nel Lazio. Attrarre investimenti, agendo in varie direzioni: potenziare ed efficentare la dotazione infrastrutturale regionale in primo luogo. La Roma-Latina, la Orte-Civitavecchia e la Cisterna-Valmontone per citare le opere viarie, a cui vanno aggiunti ingenti investimenti sul versante ferroviario, sia per le tratte pendolari che per quelle ad alta capacità, insieme al completamento dellanello di Roma. Ma per determinare condizioni favorevoli per la crescita è necessario lavorare sui distretti industriali, collegando più e meglio le politiche di formazione, su cui ci sono molti fondi europei da investire, alle reali esigenze del mondo produttivo. Non da sottovalutare infine il turismo e l’agricoltura, come settori economici dalle grandi potenzialità espansive, così come un occhio particolare riserveremo alla cosiddetta economia blu. La cabina di regia del mare, contenuta nel programma di Francesco Rocca guarda proprio alla valorizzazione del mare come risorsa, ambientale, turistica ma soprattutto produttiva.
Dal 2013 lei riveste il ruolo di consigliere regionale, quali sono stati i traguardi più importanti che Fratelli d’Italia ha raggiunto in questi anni e quali gli obiettivi principali che vi riproponete per questa tornata elettorale?
L’affermazione di Fratelli dItalia sta nella coerenza e nella serietà di Giorgia Meloni. Dopo 10 anni abbiamo costruito una forza capace di innovare la politica, oltre i vecchi schematismi. Se pur restando ben radicati nel solco della tradizione della destra politica italiana, FdI oggi si rivolge a tutti gli elettori, come il partito a difesa degli italiani, che ha iscritto nel suo DNA il patriottismo e linteresse nazionale. Dopo avere ottenuto la fiducia per governare l’Italia, intendiamo conseguire il consenso anche per guidare gli enti locali, a partire dalla Regione Lazio, strategico snodo per le scelte di tutta la Nazione.
In un suo intervento ad un incontro con gli elettori ha sottolineato la necessità di salvaguardare l’importanza di Roma capitale ma allo stesso tempo guardare ad un nuovo sviluppo per i territori. Da dove ripartire per valorizzare la provincia?
Il Pd ed il Movimento Cinque Stelle su Roma hanno registrato uno dei più grandi fallimenti della loro azione politica, interpretando il governo del territorio come se Roma dovesse utilizzare le sue province come una discarica: a volte di rifiuti, a volte di persone, spesso di responsabilità. Così facendo non hanno risolto alcun problema capitolino, aggravandone molti in provincia. Serve una visione diversa. A Roma vanno affidati poteri di rango costituzionale come si addice ad una grande capitale mondiale, mentre alle province va ridato un assetto istituzionale dignitoso, dopo la rovinosa riforma Delrio, restituendo ai cittadini il potere di scegliersi i propri rappresentanti di governo.
Perché la candidatura del presidente Rocca potrebbe risollevare il Lazio dopo l’immobilismo di questi anni?
L’Avv. Francesco Rocca è la persona giusta per risollevare il Lazio. Le sue riconosciute grandi capacità manageriali, soprattutto nel campo della sanità, lesperienza diplomatica e di rapporti ad altissimo livello internazionale, il profilo dalle spiccate sensibilità sociali, parlano di una personalità competente e capace di agire, sia nellimmediato che nel fronteggiare grandi crisi sociali, sanitarie ed umanitarie.
Quali sono stati i grandi errori del centrosinistra e quali potrebbero essere le soluzioni per superare queste criticità?
Credo che il fallimento del Pd e del Movimento Cinque Stelle, in particolare in questa regione, sia stata lassuefazione al potere. Ossia pensare che gestire fosse la stessa cosa di governare. Lo hanno pensato a tal punto da sostituire il primo concetto con il secondo, a volte utilizzando anche dei metodi molto poco ortodossi. Così facendo hanno fatto abdicare la politica, finita in secondo piano rispetto ai più o meno legittimi interessi di parte. Fratelli dItalia ha dimostrato sin dalla sua nascita di avere gli anticorpi nei confronti di un certo conformismo, preferendo la politica alle varie scorciatoie che a volte le circostanzepresentano per arrivare al potere.
Quali sono i riferimenti culturali di Giancarlo Righini?
Senza dubbio quelli della destra conservatrice e del patriottismo, interpretati storicamente da figure come D’Annunzio, Prezzolini e gli eroi del Risorgimento. Avvicinandoci all’attualità, credo che vi siano stati protagonisti che hanno incarnato i valori di libertà e di identità europea, come Papa Wojtyla e Jan Palach, che andrebbero iscritti in un pantheon comune. Alzando lo sguardo a livello globale, Gandhi e Nelson Mandela, si stagliano come giganti del pensiero che diventa azione. Passando alleconomia credo che i fatti dimostrino limportanza delle teorie interventiste di Keynes.

L’Italia vista da un liberale. Intervista a Angelo Panebianco

L’Italia vista da un liberale. Intervista a Angelo Panebianco

Di Francesco Subiaco


È una controstoria dell’Italia vista da una prospettiva laica e radicale quella scritta dal professor Angelo Panebianco e da Massimo Teodori, che nel loro ultimo saggio, “La parabola della Repubblica. Ascesa e declino dell’Italia liberale”(Solferino). In questo testo Panebianco e Teodori raccontano controcorrente la storia del nostro paese vista dal un punto di vista repubblicano, libertario, liberale e radicale, oltre i pregiudizi e le calunnie di cui è vittima questa tradizione di minoranza. Una storia che parte dai delitti eccellenti del fascismo, da Gobetti e Amendola, fino alla ricostruzione, che passa per Einaudi, Pacciardi e Parri fino a Spadolini, Pannella e Malagodi, raccontando una altra Italia, Risorgimentale e eterodossa, liberale e libertina, che agognava la modernità e anelava una società libera dai dogmatismi delle due grandi chiese dell’Italia repubblicana, quella comunista e quella clericale. Una storia fatta di protagonisti che hanno segnato per sempre la storia nazionale nonostante il peso minoritario della loro tradizione, dalle prediche inutili di Einaudi alla Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, fino alla contemporaneità, mostrando come costante la volontà di costruire un’Italia diversa, fondata sull’individuo e sulle sfide della modernità. Tramite le pagine di Panebianco si scoprono le dinamiche di una Italia che esita e traspare oltre le risse del cattocomunismo e che sogna un avvenire diverso ispirato ai principi della democrazia liberale, fatta di grandi occasioni perse e straordinari esempi di uomini che hanno fondato e cambiato per sempre le nostre istituzioni. Per parlare di questa controstoria italiana abbiamo intervistato il Professor Panebianco tra gli editorialisti più acuti e pungenti del Corriere della sera che attraverso il suo lavoro accademico ha diffuso e analizzato i grandi temi del pensiero liberale.

La cultura laica e liberale in Italia nonostante l’influenza e i successi ottenuti è un progetto minoritario e ancora incompiuto da cui si potrebbe trarre molto?
È stata soprattutto una tradizione di minoranza che ha contato di più nella storia del nostro paese di quanto fosse la sua consistenza elettorale reale. Ciò è dovuto a varie ragioni, soprattutto internazionali, poiché dopo l’ottocento la cultura liberale diventò una cultura politica minoritaria e divissima nel paese, che nonostante queste problematiche svolse un peso culturale nella storia italiana, dall’unità d’Italia al presente, fondamentale.

Che giudizio trae della figura sciamanica e libertariana di Marco Pannella? Il suo Partito Radicale nonostante le numerosi battaglie modernizzatrici ha rappresentato una rivoluzione incompiuta per il liberalismo?
Quella di Marco Pannella fu certamente una rivoluzione incompiuta, causata da due fattori che spiego ampiamente nel libro. Il primo fattore è dato dalle circostanze, poiché Pannella attraverso il Partito Radicale voleva “conquistare” il Partito Socialista per trasformarlo in un “Partito liberale di massa” a cui avrebbe attribuito una tendenza profondamente radicale che avrebbe sconvolto i quadri politici del paese. Un tentativo che purtroppo nel 1979 non gli riuscì, soprattutto perché in quegli anni si insediò nel Psi la leadership di Bettino Craxi che ne sconvolse il destino. L’altro fattore è dato dai limiti caratteriali di Pannella, che non è mai riuscito ad essere un aggregatore ed un mediatore e per questo è stato incapace di conciliare e mediare posizioni diverse che gli avrebbero permesso di realizzare il suo progetto. La sua era una operazione molto a la Mitterand che non poteva essere svolta da una personalità come Pannella, che aveva certamente portato delle notevoli innovazioni modernizzatrici nella politica italiana col suo Partito Radicale, ma che allo stesso tempo non riuscì a compiere un salto di qualità capace di compiere il suo progetto e soprattutto di realizzare una rivoluzione liberale nel paese.


-Durante la stagione del centrismo degasperiano che ruolo hanno giocato figure come Pacciardi, Einaudi, Croce, La Malfa, nonostante il peso elettorale minoritario, nella ricostruzione del paese?
Basta solo ricordare i nomi di questi statisti per vedere quanto le personalità abbiano un peso enorme in politica. Infatti nonostante essi appartengano a culture politiche con un peso elettorale minoritario, sono riusciti a rappresentare questa tradizione attraverso ruoli decisivi nella storia del nostro paese che superano la consistenza elettorale del Pri, del Pli e del Partito d’azione, riuscendo a essere alternativi tra un mondo massimalista e comunista da una parte e una tradizione cattolica democristiana dall’altra. Una componente minoritaria che permane nella storia politica italiana insieme alla spaccatura tra tradizione massimalista e gradualista all’interno della sinistra politica.

Il mito patriottico costituzionale ha impedito una modernizzazione del paese, chiudendo aprioristicamente a qualsiasi revisione?
Secondo me si, poiché la costituzione, figlia di un determinato momento storico, garantisce certamente ampi e diffusi poteri di veto rispetto gli esecutivi che non aiutano i governi durante la loro azione, ma rendono più complessa la gestione dei governanti. Queste criticità sono emerse sempre di più durante la fine della prima Repubblica, ai tempi della prima commissione bicamerale, presieduta dall’on. Bozzi, ma non vennero affrontate dalla classe politica, dimostrando che la proposta della modifica della costituzione resta ancora oggi un tabù che non abbiamo minimamente superato. Nel nostro paese per ragioni culturali da una parte, per interessi personali dall’altra, permane la volontà di non permettere all’esecutivo di avere gli stessi poteri che hanno, per esempio, i primi ministri in Gran Bretagna ed in altri paesi occidentali.

Oggi molti cronisti parlano di restaurazione liberale, che ne pensa?
Io quando sento parlare di Restaurazione Liberale non riesco a rimanere serio, sono solo parole in libertà. Non vedo restaurazione di nessun tipo.

Da tangentopoli ai 5 stelle lo spirito giustizialista non solo non si è mai sopito ma sta facendo nuovi anticorpi contro i tentativi di riforma garantisti, come quelli della Cartabia?
Certamente ci sono forti interessi che vogliono impedire una riforma dell’ordinamento giudiziario e che non si sono mai sopiti. Il problema è che con la fine del vecchio sistema dei partiti si è creato un vuoto di potere in Italia che è stato riempito non dalla politica ma da altri, ovvero dalla burocrazia e dal potere giudiziario.

Berlusconi, padre della rivoluzione liberale nostrana a distanza di anni è stato più un Crono o uno Zeus nella storia del nostro paese?
Certamente c’erano in Berlusconi, o almeno nel primo ingresso di Berlusconi in politica, elementi liberali, che hanno attirato intellettuali vicini al pensiero liberale, come Marcello Pera e Lucio Colletti, ma successivamente questa componente si è rapidamente esaurita. Per questo motivo non riesco a mettere Berlusconi sullo stesso piano di Pannella.

Chi sono i suoi riferimenti culturali?
Da un lato i grandi autori del pensiero sociologico e politico e dall’altro gli autori esponenti del pensiero laico e liberale Italiano. Certamente Einaudi è uno dei miei punti di riferimento.

Come è diventato un liberale?
Credo che questa adesione sia nata in reazione al sessantotto, cercando riferimenti alternativi a quelli della stagione sessantottina, quando ero una matricola universitaria. Sicuramente mi formarono molto la lettura dei testi dell’illuminismo e la vicinanza al mio maestro, Nicola Matteucci. Matteucci, fortemente liberale, è stato il mio punto di riferimento per la mia formazione personale e a lui devo moltissimo.

DIALOGO CON CARLO GALLI SUL ROMANTICISMO POLITICO

– Francesco Subiaco

Confrontarsi col romanticismo in Germania non vuol dire solo indagare un movimento artistico e culturale, o affrontare una tappa fondamentale della propria coscienza nazionale, ma profanare le radici di una identità che nelle figure di Novalis, Holderlin o Schlegel non ha solo dei maestri, dei pilastri, ma degli archetipi culturali. Per questo la critica fatta dal giurista tedesco Carl Schmitt nel suo “Romanticismo politico”, del 1919 da poco ripubblicato per IL MULINO, non è solo una incursione letteraria del pensatore politico più controverso del Novecento, bensì deve essere letta come una resa dei conti filosofica con l’ideologia tedesca per antonomasia e con la patologia europea per eccellenza, poiché nel movimento romantico non si nasconde solo la premessa culturale che ha fatto della Germania l’Amleto d’Europa e che può essere considerata la matrice primigenia del liberalismo, ma il principale sintomo dell’instabilità portata dalla modernità che ha realizzato con la realtà un rapporto poetico e per questo irreale. Una necrologia della morale razionalista e liberale, che ha fatto del romanticismo il suo compagno segreto, dove Carl Schmitt decodifica i lineamenti fondamentali delle nuove ideologie delle lacrime, in cui l’uomo si rifugia incapace di affrontare il baratro dell’eccezione, consolandosi con la parola, a cui l’autore oppone una via nuova, figlia delle riflessioni dei controrivoluzionari, che tramite la decisione vuole indicare la strada per oltrepassare l’abisso del nichilismo, immergendovisi. Un testo capitale da affiancare al Tramonto dell’occidente di Oswald Spengler e alle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, per capire la crisi del paradigma positivista-parlamentarista che ha condizionato il primo Novecento. Per comprendere meglio un testo così controverso e tagliente abbiamo intervistato il professor Carlo Galli, autore della prefazione e della curatela di Romanticismo politico. Carlo Galli, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Si è occupato di storia del pensiero politico, pubblicando articoli e libri tra gli altri su Machiavelli, Hobbes, Platone, Schmitt. È direttore responsabile della rivista “Filosofia Politica”; Dal 2006 al 2012 è stato presidente del consiglio editoriale della casa editrice il Mulino. Dal 2008 al 2012 è stato presidente della classe di Scienze Morali dell’Accademia delle Scienze di Bologna. Dal 2009 al 2022 è stato presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna. Ha ideato e dirige numerose collane scientifiche presso editori come il Mulino e Laterza. Ha partecipato a convegni e seminari in diverse Università europee, statunitensi e sudamericane. Ha diretto l’Enciclopedia del pensiero politico (Roma – Bari, Laterza, 2000, II ed. 2005). Collabora con periodici culturali e politici in Italia e all’estero, ed è editorialista politico per alcuni dei più importanti quotidiani nazionali. Dal 2018 fa parte del Comitato direttivo dell’Associazione di cultura e politica “il Mulino”. Galli, tra i massimi pensatori del nostro tempo, ha scritto pagine straordinarie su Schmitt, indagandone l’opera e l’idea, come nessun altro, attraverso considerazioni definitive che lo rendono la voce più lucida ed acuta della nostra cultura accademica.

Professor Galli, che cos’è il romanticismo per Schmitt?  Può essere definito spenglerianamente una ideologia delle lacrime che estrania l’uomo dal rapporto con la realtà?

Romanticismo politico è un libro pubblicato nel 1919 che segna il passaggio di Schmitt dalla sua fase giovanile a quella matura: è di poco successivo al saggio su Daübler, e tuttavia prepara sia La dittatura del 1921 sia Teologia politica del 1922. Il romanticismo di cui parla Schmitt non è un termine metaforico né uno qualsiasi dei movimenti che hanno attraversato la storia tedesca, ma per la cultura tedesca è un passaggio decisivo e una bandiera culturale nazionale che ha influenzato artisticamente, filosoficamente e culturalmente l’Ottocento e la prima parte del Novecento, e che si configura come un momento fondamentale per capire l’ideologia tedesca. Il saggio schmittiano prende per oggetto nello specifico Adam Müller, un romantico minore rispetto a un Novalis, a uno Schlegel o un Kleist, e ha come tesi di fondo l’idea che il romanticismo non possa essere capito a partire dall’oggetto romanticizzato, ma può essere decifrato attraverso il soggetto romanticizzante. Per Schmitt il romanticismo è una patologia intellettuale del soggetto moderno che, sradicato dall’ ordine dell’essere, è divenuto, libero e fluttuante, e che oltre ad aver perduto ogni radicamento è incapace di crearne uno nuovo. Il soggetto moderno, nonostante sia caratterizzato dall’autonomia da un ordine tradizionale, è anche segnato dalla pretesa di essere capace di   trovare punti di riferimento solidi che lo rendono in grado di creare un ordine nuovo razionale che abbia al centro il soggetto – singolo o collettivo: individuo, nazione, classe –. Per Schmitt, il soggetto romantico non ha solo ha reciso il suo radicamento con l’ordine tradizionale, ma non è capace di creare un ordine nuovo perché ha perduto per sempre il contatto con la realtà, poiché con essa ha un rapporto “irreale”, ovvero un rapporto “lirico”, “occasionale”, che dissolve la realtà oggettiva trasformandola in emozione. Non è in grado di istituire un rapporto ordinativo concreto tra il soggetto e l’oggetto perché è un soggetto dilatato all’infinito, che in virtù di questa dilatazione, che lo illude di essere un superuomo, è infinitamente passivo perché non tocca mai la realtà: la sua pretesa di essere signore e superiore ad ogni ostacolo reale che faccia resistenza alla capacità poetica del soggetto di trasformando il mondo in poesia, dissolvendolo fa del soggetto romantico il portatore non del Logos, ma di un vaniloquio che fa ruotare la realtà attorno ad esso, parodiandola e distorcendola, che rovescia la sua ambizione in impotenza. Il soggetto moderno è capace solo di creare “emozioni di accompagnamento”, che accompagnano la storia senza vederla o capirla. Esso ha un rapporto occasionale con la realtà, che non vede e concepisce nella sua durezza, potenza, pregnanza, ma solo come un mezzo per la romanticizzazione del mondo e come una occasione per la produzione di una attività lirica. E’ una tesi diversa da quella di Spengler: il problema non è che il soggetto sia in lacrime, ma ciò che è problematico è l’essenza stessa del soggetto e del suo rapporto col mondo.

Quale è il bersaglio e il significato di questa immersione di Schmitt nel romanticismo e quali sono le caratteristiche di questa cecità metafisica che contamina la modernità ed ha nel romanticismo la sua massima rappresentazione?

Questa incursione nel territorio della letteratura ha per Schmitt una valenza giuridica, metafisica e politica, perché il romanticismo è strutturalmente analogo al liberalismo. Schmitt vede nel liberalismo la pretesa che il soggetto libero sia capace di creare ordine politico attraverso “la parola”: non una parola lirica, ma quella delle discussioni parlamentari (a cui dedicherà il suo saggio fortunatissimo sul Parlamentarismo del 1923), ovvero lo stesso errore che compiono i romantici. Tra queste due visioni esiste una identità strutturale, che si basa sull’idea di un soggetto libero che crede di istituire un rapporto con l’oggetto (per il liberalismo, con la politica) tramite una modalità di mediazione “logica”, e per questo non è capace di produrre nessun ordine. La borghesia, cioè i liberali, sono politicamente ineffettuali, una clasa discutidora, come diceva Donoso Cortés, capace solo di discutere. Riprendendo il pensiero controrivoluzionario Schmitt afferma che il romanticismo come il liberalismo non è in grado di afferrare il corso della storia, non ha capacità di porre in collegamento il soggetto e l’oggetto: il soggetto crede di elevarsi sopra l’oggetto, mentre in realtà perde l’oggetto perché non conosce la struttura complessiva dell’essere – che può essere colta solo con l’entrare nell’eccezione attraverso la decisione –. Quella struttura che per i controrivoluzionari è piena (la loro è una metafisica fondativa) per Schmitt è vuota: la modernità ha perso per sempre il fondamento e l’ordine politico può emergere solo dall’abisso della eccezione, attraverso la decisione sovrana orientata a scopi politici concreti, a creare un ordine determinato. I liberali, per Schmitt, non comprendono questo dato strutturale perché vedono il rapporto tra soggetto e oggetto mediato linearmente dalla parola umana, mentre, in realtà, quel rapporto è assolutamente accidentato e scabroso

Quanto nel controrivoluzionario Schmitt è presente un carattere romantico modernista che lo rende il primo vero decostruttore del pensiero giuridico?

I romantici perdono il rapporto con l’oggetto perché sono centrati sul soggetto, in una tautologia senza via d’uscita: il soggetto romantico non sa andare oltre se stesso, e pensa che la poeticizzazione del mondo equivalga a controllare il mondo. Schmitt, invece, non pensa che l’ordine politico possa essere il prodotto della parola, ovvero del contratto originario (come nel liberalismo costruttivistico) e della parola del parlamento (come nel liberalismo parlamentaristico). Non crede ciò non perché sia un controrivoluzionario fondamentalista ma anzi perché pensa che la parola non possa superare l’abisso dell’eccezione di cui è costituita la realtà: solo la decisione lo può, non la poesia né la discussione.  Ma il nesso eccezione/decisione può essere efficace ma è privo di intrinseca certezza: è necessariamente contingente, perché non deriva da un razionale rapporto di causa ed effetto. Il soggetto decidente – il sovrano – instaura con l’ordine che crea un rapporto di indeterminatezza oltre che di determinazione. Non è detto che il soggetto A tramite la decisione possa produrre solo l’ordine A, ma può creare anche gli ordini B, C, D, poiché tra il soggetto e l’oggetto non si stende un substrato ontologico fondativo, conoscibile per causas: non esiste nulla. Si può arrivare all’ordine in molti modi tramite la decisione, e sono tutti ordini contingenti: per questo il decisionismo è intrinsecamente nichilista. L’analogia fra Schmitt e i romantici – da lui aborrita e rifiutata, ma subito vista da molti – sta nel fatto che anche per Schmitt fra il soggetto e l’oggetto non esista una relazione basata sul razionalismo. L’ordine non nasce dalla ragione, dalla mediazione razionale, ma dal conflitto, dall’eccezione, cioè dall’abisso dell’inimicizia, dal rapporto amico-nemico. E questa origine non è esterna all’ordine, ma rimane al suo interno, lo destabilizza mentre lo stabilizza. L’ordine contiene la propria negazione e il proprio nemico, perché l’ordine è contenuto nel grande negativo della modernità. Gli ordini non affrancano dal disordine, ma lo portano sempre con sé poiché sono ordini contingenti, e quindi, in sostanza, sono ordini mortali. E soprattutto orientati: e ciò significa che il diritto perde la propria presunta certezza: gli ordini giuridici hanno una opacità originaria al loro interno che li orienta. Il fatto che per lui il diritto sia sempre orientato spiega perché Schmitt fu fedele all’impero, alla repubblica di Weimar, al nazismo e, se glielo avessero permesso, anche alla repubblica federale: il diritto è una costruzione occasionale, e non ha in sé nulla di assoluto e di certo.  Il “romanticismo” di Schmitt sta, quindi, nel fatto che il rapporto tra il soggetto e l’oggetto (l’ordinamento) è non razionale, ma politico ovvero è una decisione attorno all’eccezione, attorno a quella suprema contingenza che è il rapporto amico-nemico contingenza: certo, per i romantici quel rapporto è “lirico” e non ha la mortale serietà che ha per Schmitt, eppure in entrambi i casi quel rapporto non ha fondamento. Come per il romantico ogni cosa è frutto di una romanticizzazione, per Schmitt ogni ordinamento è la conseguenza di una decisione, due idee diverse che producono lo stesso effetto di insicurezza ed instabilità.

Che rapporto c’è tra Schmitt e Benjamin su romanticismo e politica?

Tra la fine degli anni Dieci e l’inizio dei Venti non è un rapporto personale, né di conoscenza reciproca, nonostante ci sia una convergenza strepitosa. La principale affinità tra Benjamin e Schmitt sta nel sostenere che il metodo con cui si pensa sia un metodo estremistico e non di normalità razionalistica: sono entrambi interni al collasso del positivismo. Quando Benjamin scrive, nel 1920, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, pur non conoscendo affatto Schmitt dice cose analoghe, ma con un significato opposto. Mentre per l’autore di Romanticismo politico il romantico nella sua intelligenza fluttuante e nella sua fluidità, capace di vincere le leggi della logica, è un perdente perché crede di essere attivo ma in realtà è passivo perché non riesce a toccare la realtà, per Benjamin proprio la capacità romantica di evadere dalla gabbia del razionalismo rende il romantico portatore di una istanza di rottura, capace di non soggiacere alle regole di questo mondo. Benjamin vede nel romanticismo la capacità di accedere a una ermeneutica assoluta e a una interpretazione infinita della polisemia del reale: il romantico fa esplodere la realtà, non vedendola in modo limitato, determinato, ma anzi facendo emergere le infinite ulteriori possibilità che la ragione moderna ha neutralizzato.  La forza della critica romantica, per Benjamin, destabilizza il reale attraverso la sovrabbondanza dei significati e delle possibilità mentre per Schmitt la debolezza del romanticismo sta proprio nel perdersi in questa pretesa di sovrabbondanza e nel non saper vedere la minacciosa e nichilistica serietà della realtà. E quindi dall’analisi del romanticismo esce per Schmitt un moto ordinativo, mentre da parte di Benjamin esce un moto sovversivo, rivoluzionario.

“Intervistare gli irregolari è fondamentale per ragionare meglio”: Gianmarco Aimi e il valore dell’intervista

– Francesco Latilla

Gianmarco Aimi, tra le giovani firme più interessanti del giornalismo nostrano, è lo sguardo che fortunatamente ancora esiste in questo campo. Una penna che non si accontenta del semplice chiacchiericcio in forma d’intervista ma invece tenta di riportare alla luce la galassia interna a determinate figure strane e dalle mille contraddizioni che rispondono al sacro nome di “artisti”. Aimi si tuffa nelle storie da raccontare con la cultura e il modo di intendere l’intervista come nel passato, partendo dalla concezione di mestiere che è alla base di un lavoro artigianale come quello del giornalista, ma con uno sguardo verso il futuro e a volte anticipando i tempi. Dopo la collaborazione con Il Fatto Quotidiano arriva a scrivere per Rolling Stone e Mow. In questo nostro dialogo abbiamo cercato di cogliere gli aspetti fondamentali di una sana intervista e cosa davvero significa oggi essere un giornalista.

Perché qualcuno dovrebbe voler diventare un giornalista al giorno d’oggi?

Questa è una bella domanda. Parto col dire che sconsiglierei a tutti di fare il giornalista se non ci credono davvero, se non pensano che questo possa essere il loro lavoro, anche perché a volte diviene una missione personale. Non si tratta soltanto di un lavoro, preferisco la definizione di “mestiere” come si usava un tempo chiamare gli antichi mestieri e quindi sono legato ad una visione artigianale. Oggi tutti provano a mascherarsi da giornalista, anche coloro che in realtà non vogliono fare questo nella vita ed infatti la macchina del giornalismo la trovo ingolfata di tantissima gente e questo è dovuto anche al fatto che le testate pagano sempre meno e tutti ci provano, anche per farsi conoscere. C’è anche chi svolge un altro lavoro nella vita e per passione si dedica alla scrittura giornalistica. Diciamo che i veri giornalisti sono coloro che cercano di andare oltre lo scrivere semplicemente per esserci, per apparire, insomma si tratta più di un lavoro di ricerca che tenta di fornire diverse chiavi di lettura al pubblico. È un lavoro che non ha a che fare col marketing e lo sconsiglio perché oggi è abbastanza difficile riuscire ad avere una retribuzione che possa mantenere te ed una eventuale famiglia ma dall’altro lato per me si tratta del lavoro più bello del mondo.

Scrivi per testate importanti e hai intervistato personalità influenti e diverse tra loro. Qual è stata l’intervista che più ti ha reso soddisfatto?

Sicuramente quella a Piergiorgio Bellocchio per “L’inchiesta” che risale ad alcuni anni fa. Prendo questa come riferimento perché trovo che ci sia proprio tutto ciò che io desidero da un’intervista ossia un personaggio da (ri)scoprire, una figura non appartenente al mainstream e che magari è stato accantonato per tanti motivi. Poi facendola dal vivo ed essendo entrambi piacentini ho potuto scavare meglio proprio perché ci siamo trovati su una stessa linea d’onda. Infine, dato che si tratta di una delle prime interviste svolte in uno stile approfondito, senza tener conto del numero di battute, riportando il dialogo come un flusso di coscienza tra me e lui, è sicuramente quella che ricordo con più affetto.

Cosa ricerchi attraverso un’intervista?

Ad un certo punto della mia vita mi sono trovato senza lavoro perché ha chiuso la radio per cui lavoravo e si è interrotta la mia collaborazione con “Il Fatto Quotidiano”. Siccome era tanto forte la mia voglia di tornare nel giornalismo ho incontrato dei personaggi e partendo da semplici chiacchierate sono venute fuori delle nuove interviste. Per cui mi sono accorto che non si diventa artisti per caso o perché lo si vuole ma invece lo si è a causa di vite particolari, di scelte che sono state fatte prima di creare un’opera e quindi la mia ambizione sta nel tirare fuori dalla loro memoria la genesi della loro creatività e delle relative opere. Cerco di scavare nella personalità dell’intervistato, artisti per la maggior parte, per tirare fuori quel che davvero sono queste figure da un punto di vista personale. Un tempo si cercava di fare delle interviste per mostrare qualcosa di originale della figura in questione studiandola a fondo prima di tutto, sia la vita che le opere. Oggi si è perso un po’ questo modo di concepire le interviste, forse per il fatto che ormai tutto deve essere veloce e pronto per il giorno dopo o addirittura un’ora dopo. Per quanto mi riguarda posso dire di aver recuperato lo spirito del passato e quindi di valorizzare l’intervista come genere giornalistico.

Spesso i personaggi da te intervistati sono degli irregolari, dei politicamente scorretti come il già citato Massimo Fini ma anche Morgan, Isabella Santacroce, Stefano Bonaga, Enrico Ruggeri, Giovanni Lindo Ferretti. In un’era stracolma di presunti buoni, quanto serve invece essere dalla parte sbagliata?

Credo sia fondamentale per riuscire a ragionare bene. Anni fa mi sono accorto che leggere i giornali o le testate online che la pensavano come me, seguire soltanto i personaggi che erano del mio mondo non mi dava più nulla e allora ho cominciato a cercare figure che potevano pensarla diversamente da me e con i quali potevo anche trovarmi in disaccordo e devo dire che tutto ciò mi ha arricchito. Ho cercato personaggi scorretti, controversi, controcorrente che dessero a me e soprattutto al lettore delle chiavi di lettura originali sul mondo e credo sia stata una grossa crescita dal mio punto di vista.  MI hanno anche portato molta fortuna facendomi ritornare nel giornalismo. Insomma, posso dire che uscire dai soliti schemi ha pagato sia per un mio interesse personale, tornare a divertirmi con quello che era il mio lavoro primario, e anche per i lettori che sono rimasti stupiti ed hanno apprezzato il mio modo di introdursi nelle storie. La mia ricerca è nel riscoprire coloro che sono usciti dal grande mercato oppure portare alla luce qualcuno di nuovo, anticipando i tempi, come la filosofa Ilaria Gasparri la cui intervista è stata la più letta di Rolling Stone per vari giorni o Mattia Tarantino, un poeta giovanissimo che ho paragonato a Rimbaud. Il contemporaneo è importante per me però sento che è già troppo abusato da chi giornalmente fa un lavoro standard.

Quali sono i lampi di genio che possono venir fuori dal dialogo con uno di questi personaggi?

Guarda, io in realtà non li definirei neanche personaggi perché altrimenti li confonderei con quelli televisivi che puntano solo all’immagine. Invece li chiamo per quello che sono, artisti. Dialogando con loro ti accorgi che non riuscirai mai a delineare un vero profilo, sono come un fiume che scorre, li incontri un giorno e credi che in trentamila battute riesci a coglierne tutte le sfumature ma poi li ritrovi l’anno dopo e cambiano tutto. Sono in completa trasformazione, certe volte non sono neanche d’accordo con quanto hanno detto qualche mese prima addirittura. Per quanto riguarda Morgan, credo sia uno degli artisti più originali non solo dal punto di vista musicale ma anche perché ad ogni domanda di qualunque argomento riesce a spiazzati per la sua cultura, infatti penso anche che sia molto sottovalutato. Devo dire che gli artisti veri sono persone scoperte, perché si spogliano completamente a differenza delle star televisive e non hanno paura di raccontare determinati passaggi della loro vita. Citando Aurelio Picca, un grande scrittore che ho intervistato, è come se gli artisti avessero una ferita che tutti possono vedere ma che li nobilita e non li rende fragili ma più veri.

Un tuo ricordo di Antonio Pennacchi?

Quando ho saputo della sua scomparsa mi sono davvero commosso perché l’intervista che gli feci fu molto particolare. Nel lavoro del giornalista servono tanti fattori tra cui l’intuito nel capire quando scrivere di una determina cosa o di una persona. Non appena venni a sapere che sarebbe uscito il suo nuovo libro “La strada del mare” proposi un’intervista e il suo ufficio stampa non mi fece sapere nulla e non so perché. Allora sono andato sulle pagine bianche, ho trovato il numero del telefono di casa sua e l’ho chiamato. Di questa storia mi ha stupito il fatto che ho sentito di dovergli fare quell’intervista e dopo un mese è scomparso e quello che mi ha toccato di più è che lui dopo tanti anni di successi nella letteratura, dopo il Premio Strega, sognava ancora di notte i suoi compagni di fabbrica. In fondo è rimasto fino alla fine quell’operaio lì, incazzato.

 

Dalle restrizioni al collasso economico, tra patrimoniali occulte e pandemie legislative, per molti in Italia la proprietà è ancora un furto. Dialogo con Giorgio Spaziani Testa

– Francesco Subiaco

 

Troppo ricchi, troppo poco tassati, troppo egoisti. I proprietari per la stampa sono una creatura ibrida tra il conte Dracula e i nobili usurpatori dell’Ancient Regime. Individui che vivono in suntuosi castelli impermeabili ad ogni redistribuzione della ricchezza, privilegiati nella loro condizione di possesso di beni immobili che per il furore pauperista andrebbero espropriati come i terreni della chiesa ai tempi del Terrore. Ma è davvero così? La realtà è ben diversa, in questa epoca di woke capitalism il settore immobiliare è particolarmente vessato e ostaggio delle espansioni del governo, che preferisce concentrare la propria attenzione sui piccoli proprietari e locatori, piuttosto che spostare le proprie mire sul mondo finanziario, sulle grandi speculazioni, sui feudatari della pubblica amministrazione. Un esempio di tale impostazione è la proposta dell’introduzione della revisione degli estimi  nella legge delega, che introdurrebbe di fatto una patrimoniale occulta che affossa ulteriormente il settore immobiliare, dando una eccessiva discrezionalità all’attività del governo. Per parlare di questi temi abbiamo deciso di sentire la voce dei padroni, anzi dei proprietari, il presidente di Confedilizia: Giorgio Spaziani Testa. Spaziani Testa non ha il profilo alla Mr. Burns che si assocerebbe al suo ruolo. Alto, colto, acuto, discorre con disinvoltura, concedendo momenti di tagliente ironia che si alternano ad una lucidità fredda, profonda, che non ama ornarsi di inutili fronzoli, dei bonari ed ipocriti giochi di perifrasi e non detti tipici degli uomini dell’establishment. È un liberale e non ha intenzione di nasconderlo poichè per lui la libertà non può separarsi dalla proprietà, dalla connessione con quell’Atlante, fatto di produttori e imprenditori, che randianamente reggono il cielo della società dei consumi. In opposizione con quei personaggi che si rivelano solo come dei borghesi con sensi di colpa, che consolano le masse affamandole con un sottofondo umanitario e civile, non ha mai risparmiato critiche, rettifiche, stroncature verso quei provvedimenti in antitesi con il culto della libertà, prima fra tutte la riforma del catasto 

Perché Confedilizia ha manifestato perplessità sulla riforma del catasto?

Per due motivi sostanzialmente. Il primo, apparentemente formale, è poiché la maggioranza aveva deciso di non inserire la revisione del catasto all’interno della legge fiscale. Il secondo motivo, per entrare nel merito, è perché, come si può dedurre dal testo, essa introduce a lungo termine un aumento della patrimoniale sugli immobili, ovvero l’IMU, come del resto emerge da una relazione del Ministero dell’economia. Tale revisione è prevista per dare seguito alle richieste della Commissione Europea, che per diminuire la tassazione del mercato del lavoro vuole aumentare le tasse sugli immobili, attraverso l’aggiornamento del catasto. A queste motivazioni va aggiunto il fatto che nel testo di proposta di revisione del catasto, inserita nel disegno di legge delega, lascia troppi spazi di libertà e discrezionalità ai governi che successivamente dovrebbero applicarla. Mostrando una connotazione fortemente patrimoniale in contrasto con una idea di catasto reddituale come a nostro avviso dovrebbe essere.

Secondo lei che effetti potrà avere tale riforma sulla classe media?

A mio avviso ci sarà un aumento generalizzato del prelievo fiscale che potrà, forse, creare una redistribuzione della ricchezza, che però non giustifica un danno così ingente al settore immobiliare, ricordiamoci che dal 2012 in poi, data successiva all’introduzione dell’IMU, il prezzo degli immobili è caduto vertiginosamente. In questo momento sia all’interno dell’attuale ex centrodestra, sia nella maggioranza (Lega e Forza Italia) sia nell’opposizione (Fdi) si sono mobilitate per evitare tale stravolgimento, che di fatto calpesta le decisioni prese in passato dal Parlamento, cercando di soprassedere su di essa. Non so se accadrà…

“Non è il momento di cedere a questa voglia di libertà”. Può commentarci questo intervento, proveniente da un senatore della repubblica, su cui si è espresso nei giorni passati?

Questa è una dichiarazione, di un senatore in Parlamento detta per rispondere ad alcune affermazioni contro i provvedimenti degli ultimi giorni sulla sicurezza e le limitazioni della libertà. Una dichiarazione che sintomatica di un clima assurdo di limitazione eccessiva delle libertà dei cittadini, che non sono solo economicamente dannose, ma anche preoccupanti dal punto di vista etico valoriale. Preoccupazioni che vengono accompagnate da un clima di minimizzazione di ogni allarme che sottolinea ancor di più una deriva da non sottovalutare della nostra società.

Alla luce di queste considerazioni come giudica la gestione del sistema paese, da parte degli ultimi governi, sia dal punto di vista generale, sia da quello relativo all’immobiliare?

In generale c’è stato e c’è tuttora una eccessiva espansione dei perimetri dell’intervento statale nella vita dei cittadini, di cui francamente non si sentiva il bisogno, un pericolo che già alla vigilia del 2020, abbiamo sottolineato con un appello contro la “pandemia statalista”, ideato da persone come Carlo Lottieri e Corrado Sforza Fogliani. Un appello con cui si voleva rimarcare il pericolo con la motivazione (o scusa se vogliamo) della pandemia per attuare una ingerenza pervasiva per espandersi mentre si abbassavano le difese dei cittadini, colpiti dall’emergenza. Attenzione come Confedilizia non abbiamo negato a priori interventi o contromisure, che in alcuni campi abbiamo apprezzato ed anche richiesto, ma allo stesso tempo tali misure devono essere l’antidoto per l’eccezione temporanea non l’occasione per una regola permanente. Soprattutto molti dei successi di questi anni sarebbero stati mantenuti, se non migliorati, con una maggiore apertura verso lo snellimento della burocrazia e dell’economia. Mentre abbiamo notato un meccanismo marcatamente basato sui sussidi che nascondendosi dietro al Totem del PNRR, ad una vera e propria ricostruzione hanno preferito una poco efficace manutenzione.

La strada dell’inferno, come direbbe Marx, è lastricata di buone intenzioni?

Purtroppo, si. Soprattutto nel settore immobiliare.

Da sempre lei si batte per i valori liberali riformisti, in un paese da controriforma permanente. Quali cambiamenti e provvedimenti auspica per il nostro paese?

È necessario cambiare approccio sia dal punto fiscale sia sul piano normativo. Da una parte attraverso un intervento netto e coraggioso sulla tassazione e non micro-interventi irrilevanti. Dall’altra attraverso una vera deregolamentazione dei vincoli legislativi, in particolare nel settore immobiliare tramite misure forti come la flat tax degli affitti, o cedolare secca, da estendere ai locali non abitativi come i piccoli locali commerciali, attualmente in grave difficoltà. Soprattutto tramite una liberalizzazione dei legami contrattuali, che ancora si basa su leggi del 1978, incapaci di fronteggiare i cambiamenti del mercato, introducendo maggiore parità tra le parti per stimolare l’economia.

In questo c’è forse un substrato ideologico che ritiene responsabile?

Assolutamente sì. Molti considerano i proprietari il bersaglio prediletto per interventi come l’aumento della patrimoniale, nonostante tali slanci non avvengano per i detentori di grandi portafogli di titoli ad esempio. Attacchi di invidia sociale che provengono sia da chi ne possiede le motivazioni, sia da parte chi sfrutta questa situazione per i propri interessi. Per qualcuno la proprietà è ancora un furto. Basti pensare alla situazione drammatica del blocco degli sfratti, che sta trasformando in carta straccia molte sentenze.

Quali sono i riferimenti culturali di Giorgio Spaziani Testa?

Sicuramente gli autori del pensiero liberale, Von Mises e Von Hayek, ad esempio, che stiamo promuovendo con Carlo Lottieri e Sandro Scoppa attraverso la nascita di una collana dedicata alla proprietà per l’editore Rubettino. Se dovessi citare due titoli direi “La ribellione delle masse” di Ortega y Gasset e “Burocrazia”.

 

 

 

 

ETTORE MARIA COLOMBO: “LA CONSULTA HA SBAGLIATO SU EUTANASIA E CANNABIS”

– Tommaso Alessandro De Filippo

Abbiamo intervistato Ettore Maria Colombo, storico ed esperto cronista parlamentare, al fine di comprendere le sue prospettive ed analisi sullo stato attuale delle istituzioni italiane e dei partiti politici che, con cura e dedizione, ogni giorno osserva ed ascolta. Ad oggi, è collaboratore del Quotidiano Nazionale e curatore di un interessante blog personale, intitolato “L’uovo di Colombo”.

Colombo, può esprimerci la sua opinione sulla decisione della Consulta di rifiutare i quesiti su Responsabilità civile dei Magistrati, Eutanasia e Cannabis legale?

Il presidente Amato aveva pubblicamente auspicato nella non ricerca del “pelo nell’uovo” per l’esame degli 8 quesiti referendari. Credo che questo scenario si sia purtroppo avverato. Con il rifiuto di Eutanasia e Cannabis soprattutto si è persa l’occasione di avvicinare i cittadini, in particolar modo i giovani, ad una importante occasione elettorale. Non comprendo le ragioni di tale avversione verso due legalizzazioni che in numerose nazioni europee e mondiali non sono da anni più un tabù. La speranza sarebbe quella di assistere ad un dibattito parlamentare incentrato su queste tematiche, che ritengo purtroppo difficile da ottenere a breve termine.

Ritiene che la maggioranza attuale abbia coesione ed equilibrio adatti per proseguire il proprio lavoro fino al termine della legislatura?

Fino a poco tempo fa le avrei risposto di si, ma adesso devo ricredermi. La plateale polemica messa in scena da Draghi in questa settimana, per delle ragioni politicamente ordinarie o quasi e non catastrofiche, che ha addirittura comportato la salita al Colle del premier denota l’assenza di serenità in maggioranza. Con un esecutivo composto da partiti divisi su temi complessi come il fisco si rischiano nelle prossime settimane nuovi incidenti più gravi di quello avvenuto recentemente. Eventualità che potrebbe comportare anche una crisi di governo vera e propria.

Crede che in vista delle prossime elezioni politiche sarà varata una nuova legge elettorale?

Abitudine politica italiana ben assodata è quella di varare le leggi elettorali sul finire della legislatura. Pertanto, è possibile che nei prossimi mesi si assista ad un dibattito politico in tal senso. Dipenderà però molto dal momento del ritorno alle urne, dato che in caso di elezioni anticipate non ci sarebbe il tempo tecnico per applicare una riforma simile. Con l’andata a scadenza naturale della legislatura si potrebbe arrivare ad una nuova legge elettorale, anche se nei mesi finali dell’anno c’è da varare la legge di bilancio che sottrae non poco tempo ai parlamentari. Inoltre, l’ipotesi di un ritorno al proporzionale vede l’opposizione netta di gran parte del centrodestra ed anche di una fetta dei centristi, che non desiderano assolutamente uno sbarramento alzato al 5%.

L’immagine di istituzioni, partiti e parlamento così divisi e distanti internamente, all’apparenza distanti dalle reali esigenze popolari, rischia di amplificare il malcontento dei cittadini che si tramuta poi in astensionismo elettorale?

Dipende. Io credo che una larga fetta di cittadini, in particolar modo i più giovani, sia oggi maggiormente attenta ai temi politici nazionali. Ad esempio, osserviamo spesso le nuove generazioni impegnate in manifestazioni, proposte ed iniziative che denotano interesse verso lo scenario istituzionale ed i temi che spetta alla politica affrontare. Certo, la problematica della distanza tra rappresentanti delle istituzioni e cittadini è una vecchia storia, ma io sono fiducioso per il futuro e ritengo che le prossime elezioni nazionali abbiano una grande importanza, che il popolo italiano saprà cogliere.

In chiusura, le chiedo di descrivermi le sue impressioni da giornalista e le difficoltà lavorative incontrate con l’avvento dell’emergenza pandemica..

Riguardo la tematica pandemica non ritengo di potermi esprimere, dato che non l’ho seguita ed analizzata lavorativamente. Credo che su alcune emittenti televisive si sia dato spazio ad esponenti e figure che metto al pari dei terrapiattisti, con convinzioni antiscientifiche e folkloristiche che non ho condiviso assolutamente. Quanto alle mie sensazioni professionali, devo dire che sofferto come tutti la situazione emergenziale, perchè svolgere il ruolo di cronista politico senza dialogare di persona con parlamentari e non vivendo i palazzi del potere dall’interno è piuttosto complesso. Mi auguro la pandemia possa volgere presto al termine e permetterci di tornare ad uno scenario di vita lavorativa normale.

PROF. NATALINO IRTI: “MI AUGURO IL RITORNO DI UNA CULTURA POLITICA IN ITALIA”

– Tommaso Alessandro De Filippo

Il prof. Natalino Irti è nato ad Avezzano il 5 aprile 1936. Ha frequentato il Ginnasio – Liceo Torlonia nella città nativa. Allievo del grande giurista Emilio Betti, – dopo aver conseguito la libera docenza universitaria nel 1965 –  vince, nel 1967, il concorso per professore ordinario. Ha insegnato, sempre come titolare di cattedra, nelle Università di Sassari, Parma, Torino, e, dal 1975, nell’Università di Roma ‘La Sapienza’, dove ora è professore emerito di diritto civile. E’ socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, e membro di altri sodalizî scientifici. Presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, fondato da Benedetto Croce. Ha pubblicato monografie, corsi di lezioni e libri di cultura filosofico-giuridica, che hanno suscitato larghi dibattiti e sono stati tradotti in molte lingue straniere. Intenso il suo rapporto con i filosofi: ne sono nati due volumi: Dialogo su diritto e tecnica, con Emanuele Severino; e Elogio del diritto, con Massimo Cacciari. Discontinua, ma ininterrotta, è stata, ed è, la sua collaborazione a quotidiani italiani (Corriere della Sera, il Sole/24 Ore). Ha ricoperto numerosi incarichi nel sistema finanziario, tenendo per sette anni (1987 – 1994) la presidenza del Credito Italiano. Svolge la professione forense in ispecie dinanzi alla Corte di Cassazione, ed è tra gli arbitri più richiesti nel nostro Paese. Pertanto, averlo intervistato rappresenta per noi una preziosa opportunità di formazione.

 

Prof. Irti, in che modo valuta le scelte del governo italiano in materia di restrizioni e prolungamento dello stato d’emergenza, che di fatto si è tramutato in uno stato d’eccezione?

L’emergenza appartiene alla ‘normalità’ della storia, che conosce inattesi eventi umani e naturali. Ma, reiterandosi nel tempo, assume il grave carattere di ‘eccezione’, e segna la crisi di un sistema.

Può esprimerci un suo parere sulle decisioni della consulta in merito alle 8 proposte referendarie, incentrate su giustizia, cannabis ed eutanasia legale?

C’è un limite di sistema, oltre il quale il diritto vigente può soltanto tacere. ‘Rimane silenzioso, senza parole’, diceva l’acutissimo Carl Schmitt. Allora irrompono altre forze politiche, e si ricompone un nuovo ordine di rapporti.

Dal suo punto di vista quale sarebbe la riforma di ambito giudiziario di cui l’Italia ha urgente bisogno?

La riforma più grave riguarda il diritto penale. L’asse del sistema sanzionatorio deve spostarsi dalla reclusione al risarcimento del danno, o ad altri rimedî di carattere civilistico e amministrativo. La sanzione restrittiva della libertà fisica deve giungere come estrema ed eccezionale risposta del diritto.

Si augura una nuova stagione di riforme costituzionali in Italia che possano favorire maggiore rappresentanza dei cittadini e più equilibrio istituzionale?

Prima delle riforme costituzionali, c’è da promuovere o augurarsi una nuova cultura politica, un fervore di idee, capace di identificare i partiti e di rafforzarne la scelta.