LA CULTURA ED I GIOVANI: DIALOGO CON GIOVANNI BALDUCCI
Abbiamo intervistato Giovanni Balducci, giovane intellettuale e firma di CulturaIdentità e de Il Giornale Off, che ha pubblicato per Mimesis “La vita quotidiana come gioco di ruolo”. Pertanto, l’ascolto delle sue analisi e delle sue prospettive future è per noi importante, data la certezza di dover costruire il futuro culturale della nostra nazione con l’apporto delle nuove generazioni.
In che modo è nata la tua passione per il mondo intellettuale?
Quella per il mondo intellettuale e, dunque, per la cultura, è una passione che coltivo sin da bambino, a partire dal mio rapporto di amore/odio per i libri della libreria del nonno, i quali mi affascinavano, ma che immancabilmente gettavo giù dalla libreria quasi in impeti di precoci papiniane stroncature; poi, alle elementari, la lettura dei miti greci mi proiettava in un “mondo altro”, dove diventavo “contemporaneo”, per citare Dante, de “le donne antiche e’ cavalieri”, ciò che più in là negli anni ho appunto compreso essere il mondo della cultura. Che, per me, è bildung, e dunque non qualcosa di scisso dalla vita quotidiana, esaurendosi quasi in un hobbie fra i tanti, come si tende a fare in una società a “compartimenti stagni” quale è la nostra ma, proprio come appunto lo era all’epoca dei greci e dei romani, formazione, che sedimentandosi, andava a costituire retaggio, usi e costumi: e una buona cultura la riconosci da come una civiltà veste, da come mangia, da come costruisce, dal modo in cui gestisce le sue risorse spirituali, umane, artistiche, economiche. Ad esempio, dinanzi alla parola “religione”, un mio illustre conterraneo, Carmelo Bene, diceva che si sarebbe piuttosto dovuto parlare di “educazione”, ecco, oggi non c’è nemmeno quella. C’è maleducazione.
Come è scaturita in te la voglia di scrivere libri, trovando argomenti meritevoli di esser trattati?
Innanzitutto, ho iniziato scrivendo articoli per varie testate, tra cui il think tank Barbadillo, grazie al quale ho potuto esercitare la mia innata verve polemica (sic!) ed esprimere compiutamente e far conoscere le mie idee, e fondando un sito di notizie e sponsorizzazione di eventi culturali nella mia provincia di appartenenza che e quella di Barletta-Andria-Trani, in seguito ho partecipando alle attività culturali della Federazione Giovanile Repubblicana e di CulturaIdentità, altri progetti in cui mi è stata data un’opportunità di affinare alcune mie qualità e di esprimere una mia certa tensione ribellistica ma del tutto costruttiva. C’e da dire, tuttavia, che ciò, chiaramente, non sarebbe accaduto senza, da parte mia, un preliminare (e tuttora continuo) quasi leopardiano “studio matto e disperatissimo” e, dunque, un certo dongiovannismo cerebrale costellato di conquiste intellettuali e scoperte, soprattutto dei grandi classici della letteratura, della filosofia e del pensiero in generale. Ecco, ora, con la mia attività di scrittore, voglio semplicemente rendere ad altri ciò che “quei giganti sulle cui spalle sono”, a parafrasare stavolta Newton, mi hanno trasmesso.
Ci parli della tua ultima pubblicazione?
La mia ultima pubblicazione, di recente uscita (7 ottobre) per Mimesis, si intitola “La vita quotidiana come gioco di ruolo. Dal concetto di Face in Goffman alla Labeling Theory della Scuola di Chicago”, ed è essenzialmente un testo di sociologia, più nello specifico di “microsociologia”, trattando non già di grandi strutture storico-politiche, ma, appunto, della nostra “vita quotidiana”, dell’Io umano immerso nella sua prosaica dimensione sociale, con tutte le sue convenzioni, idiosincrasie, ritualità e… purtroppo, tragedie, dovute, soprattutto queste ultime, proprio a quell’incultura (non tanto libresca, ma umana) sempre più pervicace al giorno d’oggi, a causa di una concezione della vita di tipo utilitaristico e dell’aprioristico evitamento di ogni profondità nei rapporti umani. Non un ripiego minimalistico dunque, ma la volontà di ri-partire dalle basi su cui si fonda la nostra più vicina esperienza del mondo (come il saluto al vicino di casa, o la chiacchierata al bar, o la tenuta sul luogo di lavoro), peraltro, in un momento di massimo pericolo per la sicurezza e i diritti dei singoli.
Come valuti l’ambiente giornalistico e culturale italiano? Offre sbocchi lavorativi anche alle classi giovanili?
L’ambiente giornalistico e, in genere, culturale dei nostri tempi è – non lo scopriamo certo oggi – un ambiente asfittico e inconcludente sul piano teoretico quanto su quello della prassi, asservito a logiche economico-politche, piuttosto che capace di “illuminarle”. Tutto si risolve nella creazione dei cosiddetti “contenuti”, secondo un’unica spietata e, quel che è peggio, spesso ingiusta legge, quella della domanda e dell’offerta (non sempre errata certo, dipende dalla qualità delle parti contraenti e della “merce”), in cui a farla da padrone sono i triti e ritriti “buoni sentimenti” in scatola ad uso e consumo di masse non qualificate, e la volgare propaganda attuata dagli opposti interessi lobbistici, a scapito di un più alto sentire, che, certo, è sempre stato è e sarà dei pochi; a scapito di uomini e progetti tesi a fare la Storia (non solo in termini di progresso tecnico) e non ad arrestarsi paralizzati come galline dinanzi ad un cerchio di gesso alla semplice constatazione dell’attuale stato delle cose; a scapito della creazione artistica, del “grande stile”, come diceva uno strambo filosofo tedesco dai folti baffoni ricurvi, su cui all’epoca in pochi scommisero, ma i cui vaticinii, evidentemente, ci hanno visto lungo… Quanto agli sbocchi, in tutta franchezza, mi viene da pensare al titolo di un tormentone degli anni ’80: “No tengo dinero”, perchè questa è la risposta che ci si sente dare, poi, immancabilmente, spese folli per manager che fanno i balzeri tra pubblico e privato e denaro (nostro) elargito dai “nostri rappresentanti” (mediante il cosiddetto “reddito di cittadinanza) a completi nullafacenti senza arte (sicuramente) e senza parte (questo è tutto da vedere…).
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Futuro?
Ormai si naviga a vista, il tempo per il lavoro (o per la sua ricerca) ci toglie quello per creare, e viceversa. O si muore di fame, o si muore di noia! Laddove si vive in un mondo in cui difficilmente ci è dato di conciliare arte e vita, se non per i più nel caso sfortunato presentato da Cioran: accedendo alla poesia fallendo la propria vita. Ma, un dono ci lasciarono gli dei, la speranza!