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L’ECO DELLA LIBERTÀ: ADALBERTO RAVAZZANI ED UN INDIVIDUALISMO ANCORA POSSIBILE

Abbiamo intervistato Adalberto Ravazzani, giornalista, scrittore ed autore di libri, oltre che divulgatore di argomenti e visioni liberali. Infatti, nel complesso momento attraversato dalla nostra nazione, con una prevaricazione dello Stato sull’individuo sempre più evidente, ascoltare analisi di matrice liberale ed individualista è preziosa fonte d’ossigeno.

In che modo valuti l’attuale scenario politico italiano?

Lo scenario politico italiano è l’immagine tangibile della decadenza culturale dell’Italia. Il popolo italiano ha scelto una classe politica miserrima, inefficiente e rinchiusa nella torre d’avorio dei propri privilegi, perché ha perso completamente il proprio baricentro morale. Per anni si è parlato solo e solamente di diritti, inebriati dalla retorica sessantottina dei diritti separati dai doveri. Non dobbiamo stupirci se poi vengono eletti politici privi di scrupoli o responsabilità. Quello che bisogna tenere a mente è che la rinascita politica può avvenire solamente attraverso una rivoluzione culturale, dominata da sani principi, obblighi, doveri e responsabilità. Max Weber, insuperabile sociologo del ‘900, ne “La politica come professione” distingueva il vivere “di” politica (von die Politik), dal vivere “per la” politica (für die Politik), esercitandola cioè per passione o per responsabilità verso la comunità. Dobbiamo recuperare questo secondo aspetto per sperare contro ogni speranza in una nuova alba istituzionale e politica, contro le rendite parassitarie del parlamentarismo come “professione”.

Di che misure economiche avrebbe bisogno la nostra nazione in tale momento storico?

L’Italia è una delle roccaforti dello statalismo più sfrenato. L’intero impianto accademico, culturale, burocratico e politico è avverso alla libera impresa privata. È passata l’idea che il “fare impresa” sia sinonimo di sfruttamento e schiavitù. Ma non è così. In Italia c’è uno stato che soffoca e opprime gli agenti economici e le imprese private. La pressione fiscale ha toccato punte impressionanti. Se poi aggiungiamo le imposte indirette, il cuneo fiscale o banalmente le imposte sugli immobili, troviamo un terreno arido ove creare ricchezza. Lo sviluppo economico, date queste condizioni, è quasi impossibile. Questa situazione inoltre danneggia i lavoratori dipendenti privati, i quali si ritrovano con meno liquidità in busta paga per far fronte ai consumi e agli imprevisti. Ogni risorsa che viene sottratta ai cittadini tramite “la spoliazione legale” (per citare Bastiat) serve per finanziare servizi pubblici scadenti e obsoleti, per non parlare di un esercito di dipendenti pubblici alle spese del libro paga della burocrazia centrale, quindi a carico dei contribuenti. L’Italia ha bisogno, a mio avviso, di un’unica manovra economica: quella del laissez faire; del lasciare fare al mercato e alle imprese private. Solo in questo modo si può raggiungere un optimum, un tale livello di ricchezza da far prosperare l’intera nazione. Come diceva Adam Smith, padre del liberismo economico, nel cercare il proprio interesse personale, l’individuo aumenta la ricchezza ed il benessere generale.

Ritieni che la classe giornalistica italiana abbia svolto un buon lavoro informativo durante l’emergenza pandemica?

I giornalisti sono complici di un sistema di informazione che si è contraddistinto per l’utilizzo di un linguaggio del terrore o apocalittico. A causa dei giornalisti o, banalmente, dei virologi televisivi, molte persone hanno perso completamente fiducia nella scienza. Tutto questo è imperdonabile. Io credo che un giornalista debba essere il più obiettivo possibile. Tutta la sfera dell’irrazionale, come le emozioni negative, il panico, la paura, il terrorismo psicologico, devono essere espulsi dal vocabolario giornalistico. Le armi concettuali devono essere la chiarezza e l’amore per la verità. Il giornalista deve essere come un ragioniere e deve utilizzare il metodo del raziocinio e della compostezza. Tutto il resto è demagogia giornalistica che alimenta odio e disinformazione.

In che modo è possibile cambiare la nostra cultura sociale, che vede quasi sempre inserirsi lo Stato in economia ed in ogni ambito individuale?

Bisogna intervenire nel mondo dell’istruzione. Javier Milei, economista libertario argentino, rifacendosi alla grande tradizione liberale, ha affermato che la nostra società è malata di collettivismo proprio a causa dell’ideologia distorta che viene inculcata nei giovani dagli apparati dell’istruzione pubblica, come scuole e università. Non è un caso che giovani studenti delle scuole o delle università siano accecati dall’ideologia progressista. Io sono un antiaccademico per definizione come Schopenhauer e non tollero nessun tipo di educazione basata sulla sottomissione, sullo statalismo e sui residui del marxismo. Non è un caso che gli interi programmi scolastici e accademici siano basati sull’astio e su una montagna di falsità per esempio sul periodo storico della Rivoluzione Industriale. Come se ciò non bastasse, nelle aule passa quasi sempre il messaggio che la libera impresa sia un male da affossare dialetticamente e moralmente. Se fossimo capaci di privatizzare totalmente l’istruzione saremmo in grado di limitare anche la sfera di intervento dello stato nella vita degli individui. Dobbiamo tutelare i diritti inalienabili della persona: la proprietà privata, la libertà e la sicurezza. Il resto sono chiacchiere. Per questo va limitato il monopolio pubblico dell’istruzione.

Parlaci delle tue ultime pubblicazioni letterarie e giornalistiche.
A cosa ti stai dedicando principalmente?

Il primo articolo l’ho pubblicato a quindici anni, sulla Provincia Pavese. Ora ho 26 anni e collaboro con “Il Settimanale Pavese della mia città”. Ho collaborato (come articolista)con Istituto Liberale e con il centro studi della Libreria Del Ponte di Bologna, edificio del sapere fondato da uno dei miei maestri liberali: Guglielmo Piombini. Ho appena pubblicato due libri: Il primo volume dal titolo: Cavalieri d’Italia a Pavia dal 2010, Per solidarietà e cultura, contiene una disanima di quali sono le benemerenze ed i titoli onorifici civili, del sistema premiale che sta alla base del loro conferimento, nonché una rassegna stampa a testimoniare i numerosi riconoscimenti che la stampa del territorio ha voluto significativamente elargire all’Unione Nazionale Cavalieri d’Italia della provincia di Pavia. Il libro contiene numerosi articoli di cultura che ho pubblicato nel corso della mia consolidata carriera. Il secondo volume dal titolo: Cavalieri d’Italia a Pavia dal 2010, Un patrimonio di valore e di valori, contiene un breve ma significativo profilo dei soci che hanno inteso partecipare al progetto, offendo una significativa descrizione delle persone. Tra poco pubblicherò un terzo libro che è la raccolta divulgativa dei miei articoli pubblicati nel corso del tempo, con una particolare attenzione alle dinamiche liberali, libertarie e conservatrici.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?


Continuare l’impegno nella divulgazione, nel giornalismo e nella scrittura. Sono la mia motivazione di vita. Nella mia vita privata sono un instancabile lavoratore nell’impresa di famiglia. Con dedizione e impegno porto avanti con passione una mission, incominciata tanti anni fa, da quei grandi uomini che hanno reso insuperabile il nostro paese. Nella mia esistenza non c’è spazio per le cose esteriori e banali: disciplina, scrittura e lavoro sono la mia linfa vitale. Per questo devo ringraziare la mia famiglia che mi ha insegnato la responsabilità, la laboriosità e la tenacia. Ed è la famiglia il nucleo centrale, oggi, da salvaguardare con tutte le nostre forze.

Francesco Latilla trionfa al Festival Dantesco per la migliore interpretazione

Ieri, mercoledì 26 ottobre 2021, si è svolta al Teatro Palladium Università Roma Tre la cerimonia di premiazione del Festival Dantesco, un importante concorso legato al Sommo Poeta. La giuria, costituita da numerosi esperti di fama nazionale, ha premiato il giovane Francesco Latilla come miglior interprete per la lettura del  XXVI Canto dell’Inferno della Divina Commedia, un filmato dal titolo Ad ammirar… le stelle con la regia dei fratelli Latilla, girato mesi addietro per l’iniziativa Il maggio dei libri. I Latilla hanno sempre descritto la loro iniziativa come un totale viaggio nella propria (in)coscienza, un’immersione catartica per il pubblico grazie soprattutto all’atmosfera data da un connubio di luce e musica. Inoltre, la profondità del microfono che eleva la voce a suono, secondo Francesco, corrisponde al mistero della parola, della voce di Dio. La lettura si avvale di importantissimi brani d’opera dei prestigiosi compositori che hanno segnato la storia della musica, brani dirompenti ed inquietanti come il Requiem di W. A. Mozart, proprio per risuonare nello spettatore come una tempesta infernale. “Voglio ringraziare mio fratello Gianmarco per aver curato assieme a me l’adattamento e la regia di questo importante canto” queste sono state le affermazioni di Francesco non appena salito sul placo, concludendo poi con i ringraziamenti: “Vorrei anche ringraziare il nostro mentore, il Maestro Lino Capolicchio, una figura per noi fondamentale che si è palesata dal giorno zero, quando non c’era nessun altro e questo va sempre detto perché quando si è giovani si fa fatica ad emergere. Questo mondo, lo spettacolo, è molto duro e quando si ha un’ importante guida, come Virgilio per Dante, sicuramente viene fornita una luce per il cuore e l’anima. Grazie a tutti.

Intervista a Davide Giacalone

Direttore de La Ragione

INTERVISTA GIACALONE

Nella nostra società così acciecata dai fantasmi dei totalitarismi, dalle prospettive annientanti di un mondo che vede tutto in una ottica binaria, in un aut aut tra il tifo da stadio e lo snobismo dogmatico è necessario riuscire a guardare con uno sguardo oggettivo, razionale, mite, ma allo stesso tempo deciso ai fatti e alle loro interpretazioni. Privilegiando quello che dovrebbe essere il primo valore di ogni intellettuale: la lucidità. Una lucidità concreta, nel senso britannico di commontouch, ma anche basata sugli strumenti inalienabili della virtù umana, prima fra tutte la ragione. La Ragione che è anche il nome della testata di cui è direttore Davide Giacalone, campione di una visione di lucidità di analisi e razionalità dei giudizi. Fondendo la tradizione liberale con i riferimenti del mondo repubblicano, in cui ha militato giovanilmente. Dalle teorie einaudiane del ruolo della politica e delle istituzioni nel mercato e nella società alla concezione della politica come professione e vocazione, senza sfociare in derive parassitarie, ma nemmeno in un ingenuo dilettantismo. Facendosi testimone acuto dei grandi cambiamenti sociali e delle mistificazioni che cercano di mistificare i piccoli cambiamenti come solenni rivoluzioni. Giacalone con un lavoro fatto di articoli e saggi, riesce a disinnescare le menzogne della demagogia politica e mediatica, mostrandone le parole vuote, gli interessi, i raggiri. 

Cosa ne pensa della polemica sulla mancata espulsione del fascismo e del comunismo, come ideologie, da parte di alcuni partiti della scena politica?

Fascismo e Comunismo sono le due pestilenze del secolo scorso. Due pestilenze che si equivalgono per la loro portata nociva, sarebbe assurdo fare una gara a quale sia migliore dell’altra, e che hanno una matrice comune. Nonostante l’enorme differenza, storica, che il fascismo è nato in Italia al contrario del comunismo. Anche se guardandoli dal punto di vista morale di cittadini europei, dobbiamo constatare che coloro i quali furono fascisti e comunisti nel dopoguerra hanno una comune tendenza a non voler dimenticare, né analizzare. E lo fanno sia perché se ne vergognano, e fanno bene a vergognarsene, sia perché i nostalgici sono un serbatoio elettorale. Un serbatoio con cui questi partiti si riforniscono. Ciò non è da condannare quando lo si fa per proposte o idee, ma lo è quando si strizza l’occhio a queste pestilenze, tramite giudizi storici ed ambiguità con esse.

Che giudizio trae dal risultato delle elezioni amministrative? Chi sono i vincitori e chi i vinti?

La cosa singolare è che, riducendo la vicenda allo scontro tra centro destra e centro sinistra, da una parte ciascuna coalizione aveva come principale avversario un partito interno alla propria coalizione. È evidente che c’è una gara tra Fratelli d’Italia e Lega e tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle. Dall’altro, per mascherare tale dissidio interno, si è provato ad alzare il livello dello scontro, proiettando la sfida tra coalizioni. Dimenticando che l’avversario in questione è l’alleato sia interno alla propria coalizione sia al governo. Dimostrando che da una parte c’è la politica delle cose concrete fatta dal governo e dall’altra la conflittualità virtuale e propagandistica dei partiti. 

Cosa ne pensa dei referendum sulla giustizia e sull’eutanasia?

I referendum hanno un senso pulito quando a raccogliere le firme sono forze che non hanno una rappresentanza politica in parlamento. Quando, invece, sono forze che compongono la maggioranza, avviene un raggiro dell’elettore. Se poi analizziamo il contenuto di essi io credo che sarebbe preferibile ampliare la Riforma Cartabia piuttosto che lacerarne parti tramite l’azione referendaria, che sicuramente porterebbero ottime cose, ma non risolutive. Sul referendum della giustizia poi, bisogna analizzare il comportamento della Lega che con questa campagna pone una visione garantista. Una visione che è in antitesi con il voto per la cancellazione della prescrizione che ha fatto ai tempi del Conte 1. Mostrandosi ad inizio legislatura giustizialista e a fine garantista, un atteggiamento che forse è un po’ troppo pure per un paese trasformista come il nostro. Anche sull’eutanasia credo sarebbe più opportuno fare una legge per regolare l’eutanasia piuttosto che tagliare parti di legge che lascerebbero scoperti buona parte del regolamento.

Lei è attualmente il presidente della Fondazione Einaudi, secondo lei quale pensa debba essere il ruolo del pensiero liberale in un contesto caotico come quello post pandemico? E quanto nello specifico quello di Einaudi?

L’attualità del pensiero di Einaudi è sicuramente nell’insegnamento del “conoscere per deliberare”. Ovvero non ha importanza il prendere posizione su un tema in quanto tale, per schierarsi e mostrare una scelta di campo, ma è necessaria la reale conoscenza dell’oggetto delle proprie scelte. Per questo le forze liberali, di diversa estrazione, devono conoscere il reale argomento delle proprie tesi. Per esempio una riforma fiscale che abbassa il carico fiscale, facendo alzare il peso verso quelle parti che non pagano il fisco. Il tema della regolazione del mercato  e della concorrenza. Perché si vogliono più assunti deve essere reso più facile fare più licenziamenti, ma d’altro canto se vuoi più profitto devi rendere più facili i fallimenti. Non si possono salvare tutti. Tali temi sono la base del metodo del mondo liberale

Per lei quindi il governo deve prediligere il lavoro come professione?

La politica necessita di una alta specializzazione, ma non deve essere un mestiere. Perché chi dipende, per reddito e professione, dalla politica non può essere libero. Aveva ragione Visentini dicendo che per fare politica in maniera libera bisogna avere un mestiere, contro ogni visione parassitaria della politica. È una attività che al tempo stesso necessita di una specializzazione talmente alta da essere inevitabilmente una vocazione per la vita, nonostante lo stesso Ugo la Malfa, che vedeva la politica come militanza totale, abbia avuto un mestiere aldilà da essa.

Come si pone nei confronti della raccolta firme per la legalizzazione delle droghe e la lotta per sottrare le droghe leggere dai mercati sommersi della malavita?

Nel primo caso posso dire che, come detto in precedenza, essa non elimina il problema semmai elimina il reato, in parte. Poi per quanto riguarda l’argomentazione, sempre evocata da chi è a favore della legalizzazione, è che la legalizzazione delle cosiddette droghe leggere, che poi non sono leggere nemmeno per niente, elimini lo spazio dei mercati illegali della malavita. Considerando che il mercato è principalmente fatto da anfetamine, quindi essa non ridurrebbe il mercato delle droghe principali, dovremmo quindi legalizzare allora tutte le droghe pesanti come le anfetamine? Parlando poi nello specifico della cannabis, la si distribuisce in qualsiasi quantità o anche ai minorenni? Allora si ricostruisce il mercato nero e clandestino. 

Quali sono i suoi principali riferimenti culturali?

La cultura è tutto. Noi siamo per il rispetto umano, la libertà, la tolleranza. Includendo nella nostra biblioteca anche Celine, e come potrebbe non esserci, anche i filosofi e scrittori che hanno avuto rapporti con i totalitarismi. Ma se parliamo della visione politica e del tipo di società che si vuole realizzare certamente direi: Ugo La Malfa.

INTERVISTA FRANCESCO PEIRCE

Abbiamo intervistato Francesco Peirce, giovane intellettuale napoletano, esperto di tematiche occidentali, in particolar modo americane. L’ascolto delle sue prospettive ed analisi rappresenta opportunità di notevole valore, data la convinzione con cui riteniamo fondamentale la conoscenza delle nuove generazioni per la rinascita nazionale.

Quali sono i tuoi principali riferimenti culturali e ideologici? 

Non è facile delineare una precisa cornice ideologica nella quale identificarsi, specie in un’epoca come la nostra caratterizzata da uno stravolgimento delle ideologie tradizionali. Dal punto di vista filosofico ho sempre creduto nella validità del liberalismo, i cui ideali – a parer mio – non si identificano esclusivamente con il liberismo economico, ma anche con la presa di consapevolezza delle potenzialità dell’essere umano all’interno della comunità nella quale agisce. Per intenderci, la rivendicazione della libertà di pensiero, di stampa, l’autodeterminazione dell’individuo, la facoltà da parte del cittadino di contestare l’autorità, quando questa diventa illegittima, sono tutti aspetti che caratterizzano lo sviluppo del pensiero europeo e americano (anche se con diverse discontinuità cronologiche) e che quindi hanno radici profonde nella storia dell’Occidente. 

Per quanto riguarda i riferimenti culturali ho avuto modo, nel corso degli anni, di approfondire varie correnti di pensiero: dall’empirismo inglese all’idealismo tedesco, dall’umanesimo italiano al romanticismo fino ad approdare al trascendentalismo americano, oggetto quest’ultimo delle mie attuali ricerche. Aldilà dei movimenti culturali, due sono le figure intellettuali a cui mi sento particolarmente legato; la prima è quella di Giordano Bruno, il cui panteismo e naturalismo costituiscono l’impianto della sua visione metapolitica dell’uomo, improntata non alla negazione della spiritualità, bensì alla lotta contro i dogmatismi del suo tempo. La seconda è Maximilian Weber, filosofo della razionalizzazione (in ted. Rationalisierung) del quale condivido l’analisi sociologica del capitalismo (che permise di correggere alcuni degli errori compiuti da Marx), nonché il suo realismo politico che riflette il riformismo tipico degli anni della Repubblica di Weimar.

Come valuti l’attuale scenario politico nazionale italiano? 

In Italia attualmente viviamo una situazione politica disastrosa, basti pensare che alcuni dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni non sono stati eletti democraticamente dal popolo. Si potrebbero fare numerose considerazioni in merito, ma ciò richiederebbe una riflessione troppo ampia del ruolo politico dell’Italia sia sul piano nazionale che internazionale. 

A differenza degli altri paesi occidentali, l’Italia vanta una ricca cultura politica e tuttavia ci troviamo in una situazione paradossale, in cui assistiamo allo scollamento integrale di ogni legittima rappresentanza politica: da un lato ci sono quei governanti che non rispondono ai reali bisogni dei cittadini, dall’altro abbiamo una popolazione sempre più restia alla partecipazione attiva della vita politica. Diciamo che quest’ ultimo aspetto è una diretta conseguenza del primo, ma non credo sia sempre così. Spesso è anche l’indifferenza e il pressapochismo della gente che incidono gravemente sulla resa effettiva della classe politica. Ad ogni modo, ciò che è accaduto ultimamente con le elezioni amministrative, dove si è registrato uno tra i più bassi livelli di affluenza alle urne degli ultimi anni, è particolarmente significativo; i cittadini hanno capito per l’ennesima volta di non essere rappresentati dalle istituzioni e hanno preferito l’astensione. Allo stesso tempo, buona parte di questi hanno iniziato a organizzarsi autonomamente per dare vita a numerosi movimenti di protesta. È la naturale conseguenza che scaturisce da un disagio sociale preesistente (aggravato ulteriormente dalla crisi pandemica), un esempio che testimonia come in Italia sia necessario recuperare una cultura del civismo e del coraggio civile. D’ora in poi i politici dovranno tener conto di queste problematiche, se intendono riacquistare la credibilità dei loro elettori. 

Detto questo, bisogna però fare i conti con quello che ritengo essere uno dei punti deboli della politica italiana, ovvero il multipartitismo. Sicuramente si tratta di un’impostazione consolidata (ereditata dalla Prima Repubblica), che aveva le sue logiche e meccanismi di funzionamento, e che garantiva un certo pluralismo democratico. Su questo non c’è dubbio. Ma a lungo andare questo sistema ha innescato tutta una serie di fenomeni politici incontrollati, generando crisi di governo, coalizioni instabili e larghe intese, ed è così che poi il paese diventa ingovernabile.  Quando i partiti di una stessa coalizione entrano in competizione tra loro, a venir meno è il sistema politico nel suo complesso, perché l’unione si indebolisce e di rimando anche l’elettorato finisce col sgretolarsi.  

Quali sono le tue considerazioni sull’Occidente attuale? Come agire per difendere i valori dall’avanzata dell’integralismo islamico e del regime comunista cinese?

L’attuale crisi dell’Occidente, che abbiamo visto acuirsi negli ultimi vent’anni in maniera piuttosto preoccupante, è il frutto di processi economici, culturali e politici negativi che si inseriscono all’interno di fasi ricorrenti, e la cui natura sintomatica riflettono i tratti tipici del parossismo. Non è un caso che lo storico inglese John Burrow parlava di una “crisi della ragione”, riferendosi a quel periodo di transizione della storia europea segnato da tumulti ed eventi drammatici, a cavallo tra i secoli XIX e XX. Di lì a poco, intellettuali come Heidegger e Spengler avrebbero profetizzato il decadimento progressivo dell’uomo occidentale, a causa del materialismo, dell’alienazione e del dominio della tecnica. 

Oggigiorno, l’Occidente è afflitto dal nichilismo tipico della postmodernità; è da po’ di tempo oramai che assistiamo a un vero e proprio ribaltamento culturale. C’è questa malsana idea che i valori tradizionali siano retrogradi e obsoleti, che siano connessi a molti degli aspetti negativi nella nostra società e che vadano rimossi del tutto. Si pensi ad esempio alla cancel culture, il wokeism o il movimento disrupttexts (per citarne solo alcuni), fenomeni provenienti dagli Stati Uniti che hanno già interessato diversi paesi del mondo industrializzato. A tal proposito, bisogna recuperare il senso della storia e dell’identità, e capire che il vero progresso consiste non nel rifiuto dei propri valori, ma nel saper conciliare innovazione e tradizione, in piena antitesi con l’ideologia globalista. Un discorso che abbraccia non solo l’ambito culturale, ma anche quello economico, nel quale bisogna insistere soprattutto per arrestare l’espansione dell’egemonia cinese. In questo senso occorrerebbero interventi volti alla ricostruzione delle economie nazionali, contro le delocalizzazioni e la deregolamentazione delle imprese.    

Infine, quella dell’integralismo islamico è una questione davvero complessa che può essere esaminata sotto diversi aspetti. Anche qui, dal punto di vista dei conflitti ideologici e culturali, le potenze occidentali pagano lo scotto degli errori commessi nella destabilizzazione del Medioriente. In particolare, si è preferito perseguire obiettivi economici e strategici, piuttosto che optare per una concertazione politica degli stati nella lotta al terrorismo. È ovvio che tale fattore non può che causare un inasprimento del rapporto tra il mondo cristiano e quello arabo. 

Di cosa ti occupi e che materie studi e approfondisci nella tua vita privata? Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Ho conseguito la laurea in studi linguistici, specializzandomi nelle letterature anglo-americane e ora mi occupo dell’insegnamento della lingua inglese. Inoltre, mi dedico allo studio della storia e della filosofia, che ritengo i due pilastri fondamentali nel panorama delle discipline umanistiche. Ho intenzione di ampliare il mio percorso di formazione come docente e spero in futuro di portare a termine i miei progetti di ricerca nel campo filosofico e letterario.

SURREALISMO CAPITALISTA

di Francesco Subiaco

Come nei Figli degli uomini di Cuaron, per Mark Fisher, gli uomini del mondo post 1989 sono imprigionati in una realtà indifferente ed abulica, dove il thatceriano there is no alternative, è diventata una certezza indissolubile, ideologica, culturale, spirituale. Extra Kapitalismo nulla salus. Una visione che sconfitto il comunismo sovietico ha diffuso il pensiero disturbante che non solo non sono più necessarie le ideologie, ma che esse, esauritesi, non trionferanno più. Che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. In uno sviluppo inarrestabile che non solo non può essere fermato, ma che, nonostante i suoi limiti e le sue aberrazioni, è l’unica idea possibile di vita. Non c’è società possibile oltre alla società di mercato, non esistono più cittadini, ma solo consumatori. La lotta di classe è finita, ma la ha vinta il capitale, che vedendo la metamorfosi della Cina post maoista, può liberarsi di tutto ciò che impedisce la sua evoluzione inarrestabile. Una evoluzione che la porta a calpestare le nazioni, la borghesia, le tradizioni, gli stati, per rendersi globale. Sconfinando in un villaggio global, in cui gli uomini, con l’illusione del politicamente corretto e del multiculturalismo, si illudono di fondare una civiltà quando stanno solo costruendo un supermercato multiuso, multietnico, impersonale e macchinico, con gli slogan rosei e ottimisti della pubblicità green-rainbow-post tutto, pronta per il niente. Questo è il mondo accennato dal visionario filosofo britannico Mark Fisher nel suo “Realismo Capitalista”(NERO). Testo in cui il guru dell’accellerazionismo di sinistra, erede ribelle di Nick Land e del CCRU, fonde cinema, cybernetica, filosofia, storia, cultura pop, per regalare una guida perversa all’ideologia capitalista, tra Zizek, Marx, Guattari e Nietzsche. Pensatore profetico che nelle sue analisi della società scorge l’anima del neocapitalismo, nonostante le soluzioni di una tata neocomunista per sanarlo alquanto discutibili. Fisher è infatti un bravo medico ottimo e acuto nelle diagnosi quanto molto confuso nei rimedi, nella medicina. Il capitalismo è infatti, “quel che resta quando ogni idea è collassata a livello rituale e simbolico, diventando il leitmotiv del consumatore-spettatore che arranca tra i ruderi e le rovine”. Considerato come il male necessario, la catastrofe minore rispetto alle pestilenze della storia, con le sue illusioni di controllo e le libertà confezionate. Attraverso la religioni delle libertà, delle lacrime e la lotta per i diritti civili, che come sottolinea Pasolini, diventano i diritti degli altri. Una ideologia che smantella ogni visione spirituale e comunitaria, ogni forma di unione e aggregazione al di fuori di quella dello shareolder, che come in watchmen non ha tradito il sogno americano, ma lo ha avverato. Che ha come suo mito fondativo il 68, visto come una lotta di liberazione non contro il capitale, ma del capitale contro la borghesia, contro la religione. In virtù di uno spirito solitario e di un desiderio meccanico e irrefrenabile. Che sostituisce l’eros alla pornografia, i diritti ai capricci, le nazioni alle community. Che ha creato una società totalitaria, ma non autoritaria, in cui la prigione, il palazzo, il manicomio vengono interiorizzati. Dove come ai tempi dell’Urss, l’arte diventa il mezzo dell’ortodossia popular. Un realismo capitalista in cui l’uomo è prigioniero di un mondo senza via d’uscita e desolato. Un mondo che era ancora in nuce ai tempi dell’uscita del saggio. Poiché ora si potrebbe parlare di Surrealismo capitalista. Di una trasposizione della realtà in cui il sogno o l’insonnia della ragione deforma e contrae la realtà, in un delirio macchinico, sfondando la finestra di overton attraverso il superamento delle identità personali, l’alienazione e lo smarrimento del mondo sociale, la nevrosi della tolleranza e dell’inclusione, che diventa l’ultima forma di disperazione. Poiché la modernità distrugge più quando costruisce che quando demolisce. Instaurando una morale permissiva e intollerante, bigotta e puritana che sogna un mondo transumano e artificiale, che diventa la sovrastruttura di una struttura selvaggia e anarchica di un mercato che diventa sempre di più l’estensione del dominio della lotta. In cui i lavoratori e i produttori sono solo servi e i consumatori dei dissociati, che vivono l’allucinazione collettiva del Grande altro, di una opinione pubblica polarizzata e benpensante, scientista e settaria, liberal e liberticida. Che si incarna nei suoi idoli radical chic, “comunisti liberali” che creano un individuo smart, monouso, rinchiudono il cittadino nella bolla della open society. Una società mortifera, ma non aperta, illusa di bieco ottimismo e di slogan benpensanti. Un mondo che si avvicina sempre di più al collasso man mano che svuota gli individui dei loro legami essi rendono forti i vecchi sogni, più la società avanza più essa stessa si avvicina verso la sua fine. Accelerando verso il suo strapiombo, disinnescandosi nel suo nichilismo. Poiché nella lunga “ e tenebrosa notte della fine della storia, dove nulla sembra più accadere tutto torna possibile”. Nel finale di realismo capitalista Fisher sembra riscoprire l’epilogo del film “L’odio” che oggi più che mai ci sembra attuale: “È la storia di una società che precipita e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, ma il problema non è la caduta ma l’atterraggio”. Quanto ancora manca all’atterraggio?

ROOSVELT, O IL SOGNO EUROPEO DI UN TOTALITARISMO AMERICANO

Illiberale, mitomane, demagogo, populista, protofascista, manipolatore, spietato. È il Franklin D. Roosvelt ritratto da John T. Flynn ne “Il Mito di Roosvelt”(OAKS EDITORE). Un Roosvelt atipico e calunniato ritratto spietatamente da uno dei più intransigenti giornalisti della Old Right del Gop, che in un inclemente trattato di oltre 600 pagine smonta il mito della sinistra liberal dem, il santo patrono della liberaldemocrazia, il Cristo dell’interventismo statale. Amato, idolatrato, innalzato insieme a Lincoln, Kennedy, Teddy Roosvelt tra i padri della democrazia americana. Ritratto come un pacifista umanitario, un amico del popolo e dell’uguaglianza, nemico del fascismo, delle derive autoritarie del vecchio mondo, della corruzione e della miseria in cui versavano gli states dopo la crisi del 29. Ma come dietro ad ogni idolo si nasconde un sacerdote, dietro ad ogni mito si nasconde una mistificazione. Perché per il giornalista ex membro della corrente socialista del Partito Democratico, Roosvelt è un idolo del crepuscolo, il grande fondatore di un totalitarismo americano, nemico delle imprese e dei mercati, fiancheggiatore, ideologicamente, dei fascismi, e protettore di quel mondo chiuso, arcaico e rurale che i liberal, che lo hanno trasformato in santino, cercano di abbattere con il martello del wokismo e del politically correct. 

Il saggio di Flynn è l’autobiografia oscura dello statista americano, descritto come un personaggio conformista e postideologico, un pragmatico e un opportunista, che si è iscritto al partito democratico con la stessa convinzione con cui si fa il battesimo da infanti, o si leggono le note informative dei cookies. Un personaggio artificiale creato in provetta dalla stampa e dalla propaganda del suo governo, il cui culto della personalità è pari soltanto a quella delle dittature del primo novecento. Nel libro di Flynn è infatti centrale la tesi per cui il fenomeno Roosvelt non è stato una alternativa ai criptofascismi,  ma ne è stato la versione americana. Dal culto della personalità e dell’uomo forte e decisionista artefatto dalla propaganda(il fatto che fosse poliomelitico e costretto all’uso delle stampelle o di una sedia a rotelle fu dalla stampa completamente estromesso e mascherato), alle frequentazioni dell’ambiente fascista italo americano. Passando per la promozione di documentari su cui si faceva il paragone tra “il miracolo italiano” di Mussolini e quello del New Deal, dall’utilizzo di politiche stataliste alla presa dei pieni poteri con conseguente sospensione dell’attività parlamentare. Utilizzando un forte sovranismo economico, una vicinanza strategica all’Italia corporativa, promuovendo la traversata oceanica di Balbo, ribadendo l’idea di una nation selfautosuffiency molto simile all’Autarchia degli trenta. Utilizzando una politica invasiva e demagogica capace di catturare l’elettorato dei numerosi disoccupati americani, attraverso manovre assistenziali. Mostrandosi non come un rivoluzionatore del sistema politico americano, ma come un suo ostacolo, bloccando il ruolo del parlamento, intromettendosi nelle attività dei governi federali, ridotti a satelliti del comitato elettorale, in cui figuravano personaggi vicini al mondo fascista italiano ed europeo come Generoso Pope, a Huey Pierce Lang, che cercò di sfidarlo alle primarie democratiche del 35, considerato uno degli “ultimi dittatori americani”. Venendo sostenuto, come del resto tutti i candidati dem fino agli anni 80 dai Dixiecraft, il lato segregazionista e vicino al kkk del partito democratico, che sotto la sua presidenza elesse numerosi governatori. Una collusione col sistema totalitario attenuata dalla sua vicinanza al mondo britannico con cui si riconciliò dopo le sanzioni italiane. Mostrando attraverso il mito di Roosvelt, un lato controverso, sporco, autoritario, artificiale dello statista alfiere della liberaldemocrazia. Riuscendo a mostrare il cambiamento profondo nella società americana che dopo Wilson si è nutrita di personaggi carismatici capace di incarnare lo spirito e le paure dell’elettorato. Populista, demagogo, illiberale, crepuscolo di FDR di Flynn è la testimonianza controcorrente della vita e delle idee del leader dem più amato degli USA.

Colloqui con il dottor Celine

di Francesco Subiaco

Nel 1955 un insoddisfatto e borbottante Louis Ferdinand Celine, dopo il deludente risultato del suo “Normance” arriva all’unica considerazione possibile. Il fiasco del suo ritorno sulle scene letterarie non è dovuto alla fama nefasta che si è fatto dopo il collaborazionismo, né alla cupola ideologica prevenuta contro l’opera di questo domenicano nichilista. È colpa del suo editore pavido e avaro, che incapace di difenderlo lo ha buttato nella fossa leonina dell’oblio e dell’odio della critica. Ma Gaston Gallimard non solo non lo aveva difeso contro i suoi avversari, ma mentre, autori “da compitino” come Mauriac e Gide hanno fiorfiore di testi critici, di monografie  e studi fatti da pedanti e lacchè, con i loro Goncourt sul comodino, lui un genio in un mondo dove sono immortali anche i venditori di aspirine, langue indifeso e incompreso. Alla luce di queste considerazioni più o meno deliranti, Celine decide di scrivere i “Colloqui con il professor Y”(QUODLIBET). I colloqui si presentano come una bizzarra e tragicomica intervista autiogestita in cui l’autore del Voyage viene intervistato dal sedicente colonnello professor Y. Un fantozziano mestierante delle lettere che si è avvicinato all’artigiano delle parole solo per compiacere l’editore Gallimard per poi proporgli un suo romanzetto. Un personaggio inventato da Celine, che riassume tutti i limiti del mondo editoriale. Pavido, scontato, banale, ombra di personaggi vacui come Bourget e Gide, col suo stile impersonale e insignificante è il ritratto di una letteratura sterile e incapace. Una letteratura di compitini, di filosofie, di buone idee, di buoni pensieri. Un personaggio che non regge il confronto con il rivoltoso Dottor Destouches, che prende subito le redini dell’intervista, schernendo ed umiliando il professore(finzione letteraria dell’autore stesso), utilizzandolo come una grande occasione per autorecensirsi. Per spiegarsi per mostrare i sintomi delle sue rivoluzioni letterarie, per far capire ai posteri e ai contemporanei le ragioni del suo stile, delle sue rivolte. Attraverso dialoghi tragicomici, ma serissimi, lundiniani nei suoi grotteschi silenzi, scontrandosi contro il cinema, la letteratura impegnata, i premi, l’editoria. Mostrandosi come uno dei più grandi innovatori stilistici del novecento, grazie all’argot e ai suoi famigerati tre puntini. Celine innanzitutto si presenta come un modesto inventore di due rivoluzioni letterarie epocali. Rivoluzioni che in modi diversi vogliono restituire la naturalezza della parola, che da Stendhal in poi era rimasta orfana, e l’emozione della lingua scritta. Restituendo alla parola una emozione che sta nella voce, nel suono, nel senso della frase, l’emozione del linguaggio parlante nello scritto. Una petite musique che si esprime attraverso l’uso dell’argot, il gergo parigino dei bassi fondi, degradato e iperattivo, espressionista e macabro, e attraverso la seconda rivoluzione dei tre puntini. In cui la punteggiatura e la frase vengono saccheggiati e divorati da essi, i quali rappresentano i binari emotivi su cui viene condotta l’anima( o le viscere) del lettore. Uno stile che nasce nel metrò, nella vivacità anarchica e folle, degradata e volgare della parola viva, l’unica concreta, vera, emozionante. Tramite uno stile che dopo la nascita del cinema, e la degradazione della letteratura in sceneggiatura o peggio giornalismo, crea la sfida contro di essa. Con i suoi tre puntini Celine crea uno stile che sta al cinema come l’impressionismo sta alla fotografia. Di fronte ad una tecnica che rende obsoleta l’arte, lo stile di Celine si prende la sua rivincita contro il cinema facendo parlare una lingua così vivida e concreta, crudele e tattile che nessuna immagine e piano sequenza possono ostacolare. Captando le onde emotive che né i maggiori registi né lo stream of consciousness possono raggiungere. Prendendosi una rivincita contro l’arte contemporanea, la cupola impegnata, il cinema hollywoodiano. Mostrando tutti i rumori che si nascondono nell’uomo, tutte le viscere e gli umori di questo cadavere in animazione sospesa. Facendo suonare quella piccola musica che dal ponte di Londa a Rigodon, iniziata con il Voyage e i pamphlet non solo non ha smesso di ammaliare il lettore, ma non lo ha ancora liberato dal suo sortilegio di parole vive che Un’eternità di silenzio non basterà a consolarli!..

DRIEU, UN EUROPEO

Ribelle e aristocratico, vitalista e decadente. È “Il giovane europeo” di Pierre Drieu La Rochelle(ASPIS). Un’opera ibrida, tra pamphlet, saggio, autobiografia. Una confessione di un figlio del secolo, il diario intimo di un malinconico e iperattivo Baudelaire novecentesco. Tra i fumi carnali e morbosi della guerra e l’omologazione della folla solitaria. Un documento unico in cui Drieu La Rochelle mette il suo cuore a nudo in un testo crudele, spietato, nostalgico, tra l’eterno e l’antico. Attraverso la maschera archetipica del giovane europeo, di una figura  personalissima ed universale, originaria e originale. Il giovane europeo è il reduce della prima guerra mondiale, il deluso della rivoluzione d’ottobre, l’elitista senza elite, il cavaliere decadente, il contrabbandiere tra sogno e azione. Una figura unica e che non sa che farsene di una “patria che non sia promessa di un impero”. Cresciuto all’ombra dei crepuscoli degli idoli di Nietsche e Spengler, cullato dai sogni di Kipling e D’Annunzio, tra estasi e massacro. Che si è scelto come santini il maledetto Rimbaud e il santissimo Pascal, mischiando sensualità e ascesi, carnalità e apoteosi. Una formazione che si si infrange nelle tempeste d’acciaio della prima guerra mondiale che segnano una iniziazione ad una vita in cui sono cadute tutte le vanità. In cui “ogni epoca è una avventura. Io sono un avventuriero e la mia fu un’epoca buona per me. Conoscevo l’alpinismo, la cocaina, le corse d’auto. Trovai nella guerra lo sport d’abisso che da tempo fiutavo”. Uno sport di cui si ingozzava “di quell’ebrezza della terra”, nutrendosi di una giovinezza sfinita e di una vitalità esaltante che portavano l’uomo a “non uscire dalla foresta”. Una guerra ascetica e arcaica che fu vissuta come l’ultima passione dei popoli europei. Popoli che alla sua fine si ritrovarono imprigionati in una quotidianità grigia ed anonima, di un mondo americanizzato e deludente. Moderno e massificato dalla tecnica e dalla società di massa, che non “era riuscito ad uccidere la guerra o il potere, ma a stento la cavalleria”. Un reduce che finita l’iniezione di sogni e vita della sua sopravvivenza vide negli ideali liberaldemocratici, nella rivoluzione d’ottobre, nella prudenza dei ceti conservatori, solo un modo per diventare di nuovo americani. Nel comunismo “un pugno di intellettuali che volevano avere la meglio su Rockfeller ed altri miti atlantici. Creando un capitalismo di stato, dei trust di stato. Governando un popolo selvaggio che come degli schiavi imitavano le belle fabbriche e le belle banche” dell’occidente. Un mondo che abbandonava gli echi dei passati perduti tuffandosi nell’incubo dell’innominabile attuale. Un incubo in cui il decadente è imprigionato nell’annosa controversia tra il vivere e lo scrivere, tra il sogno e l’azione, tra costruire capolavori o essere un capolavoro. Vivendo questo scenario drammatico di un’epoca che non lo comprende, che non vale niente e che porta i suoi frutti rancidi sul petto sfatto come una megera che si orna di sfavillanti preziosi. Che si distrae con arte e illusioni mentre si ricopre di rovine. Il giovane europeo di Drieu è in questo quadro un decadente, un nostalgico che si rallegra nel vedere che nella morte. Nelle moribonde dolcezze del suo tempo, vede il rifiorire della barbarie e della vita, mentre diventa l’uomo che annega, che si dimentica. Sfiorendo “l’europeo ama tutto ciò che fu e che se ne va”. Mentre gli spettri del numero e della civilizzazione rendono quella vita esasperata e solitaria, rinchiusa in una individualità tossica in cui le anime si confondono e gli individui si mescolano in un informe pantano di debolezza e miseria. Impigriti, rassicurati dalla tecnica gli europei attendono la loro fine come l’happy ending delle commedie banali di cui si cibano. Fuggendo nelle religioni delle lacrime, orfani di un destino di riserva. Contro questa deriva, il giovane europeo di Drieu si scaglia in piedi sulle rovine, è l’uomo antico il cavaliere tra la morte e il diavolo, il poeta, il soldato, il sacerdote del mondo eterno. Il figlio terribile del secolo che ne incarna i limiti e le ambizione e da esso non va separato. Che ha fede nell’uomo decadente perché in ogni decadente c’è il primitivo, l’originario. Il santo guerriero che scalpita nelle scuderie d’occidente, prima di smarrirsi nell’innominabile attuale