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MAGNANI: “CAVALCARE L’ONDA DEL CAMBIAMENTO È L’UNICO MODO PER NON ESSERNE TRAVOLTI”

MAGNANI: “CAVALCARE L’ONDA DEL CAMBIAMENTO È L’UNICO MODO PER NON ESSERNE TRAVOLTI”

Di Francesco Subiaco

Dai conflitti internazionali all’avvento del digitale, dall’obsolescenza professionale portata dall’AI alla costruzione di estese catene globali del valore. In ogni sua manifestazione il cambiamento ha ridefinito le regole, le convinzioni e le sovrastrutture della contemporaneità in maniera radicale e ravvicinata. Un cambiamento che si è caratterizzato come dirompente e continuo che ha ridefinito in maniera radicale e permanente il tessuto economico e il contesto sociale, come mai è stato possibile nel passato. Di fronte al cambiamento continuo, tsunami minaccioso e pronto a travolgerci, subirne senza reazione gli effetti equivale ad esserne travolti. È necessario quindi conoscerne le caratteristiche ed imparare ad affrontarne le possibilità ed opportunità al fine di cavalcare “l’onda perfetta”, seguendo come bussola due concetti: “learn” and “adapt”, imparare ed adattarsi. Una tesi che è alla base dell’ultimo libro del Professor Marco Magnani, “L’Onda Perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti” (IlSole24Ore Editore, 2022) con cui l’autore indaga le metamorfosi del presente con uno sguardo attento su come trasformare le sfide del presente di opportunità per l’avvenire.

Un libro che come il precedente “Fatti non foste a viver come robot. Crescita, lavoro, sostenibilità: sopravvivere alla rivoluzione tecnologica (e alla pandemia)”(Utet, 2020) indaga le contraddizioni, i cambiamenti, le mutazioni che caratterizzano l’innominabile attuale sia sul piano economico sia sul piano etico e culturale. Dalla robotica all’emergenza, dalle sfide della transizione digitale alle necessità di un ripensamento delle regole del welfare capaci di tenere il passo con i cambiamenti dell’infosfera. Opere che non vogliono solo descrivere le sfide del futuro, ma rivelarne i meccanismi profondi che ne causeranno il destino. Per approfondire queste tematiche abbiamo intervistato il Professor Magnani, economista e docente di International Economics presso Luiss Guido Carli a Roma e presso Università Cattolica a Milano, oltre che Senior Research Fellow presso Harvard Kennedy School.

L’Onda Perfetta
Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti
IlSole24Ore Editore, 2022



Come nasce “L’ onda perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti”?
Il mio libro nasce dalla constatazione che oggi viviamo in un’epoca che ha un livello ed una rapidità di cambiamenti che non ha precedenti nel corso della storia. Un cambiamento continuo che si compone di mutamenti di diversa tipologia, ma che si presentano soprattutto come “cambiamenti dirompenti“, nell’accezione che a questo termine diede il grande economista Joseph Schumpeter. Una tipologia di stravolgimenti che dal punto di vista economico, sociale ed individuale con la loro manifestazione obbligano a ripensare completamente il modo di produrre, consumare, lavorare. Se pensiamo, infatti, agli ultimi anni, e guardiamo lo scenario economico e geopolitico, si sono susseguiti rapidamente, in un lasso di tempo molto breve, una sequenza di “disruptive changes”. Dall’11 settembre alla crisi finanziaria negli USA del 2008, passando per quella del debito sovrano in Europa del 2015, a cui si sono aggiunti poi la pandemia e la guerra in Ucraina, il cambiamento ha ridefinito il mondo degli ultimi anni in una maniera che mai era stata pensata prima. Nell’epoca caratterizzata da una delle maggiori intensità di cambiamento nel corso della storia, imparare a gestirlo è una questione di sopravvivenza. Cavalcare l’onda è l’unico modo per non esserne travolti.

Quanto la necessità di adattamento ai cambiamenti tecnici ha modificato il modo di concepire le imprese e il loro ruolo nel contesto sociale?
Naturalmente l’innovazione tecnologica da sempre cambia e ridefinisce il business model, il rapporto con i dipendenti, con i clienti e con il mercato conformandosi come una delle principali variabili del cambiamento. Di fronte all’innovazione tecnologica i business model subiscono radicali cambiamenti, come abbiamo visto per esempio con l’economia digitale. L’innovazione tecnologica produce sia delle criticità, sia delle nuove opportunità. Generalmente aumentano la produttività, trasformano i luoghi di lavoro, modificano la sensibilità dei consumatori così come il ruolo dell’impresa nel contesto sociale. Una mutazione che investe tutta la supply chain, dalla produzione al marketing, causando cambiamenti profondi in tutto il sistema economico.


Come la retorica del cambiamento è diventata uno strumento ideologico propagandistico e che conseguenze ha avuto nella politica moderna?
I politici sono maestri nell’utilizzare la retorica e il mito del cambiamento come strumento di propaganda politico, a volte per fare paura e per poi rassicurare guadagnando consenso elettorale, oppure per dare speranza e guidare lo sviluppo, riuscendo ad aggregare le forze sociali ottenendo legittimazione da parte della società. “Cambiamento” è una parola che il mondo politico padroneggia con grande abilità, ma non sempre ne sa controllare le potenzialità, infatti gli stessi politici non sempre sono bravi a gestire il cambiamento ed a volte ne sono travolti.

Le due crisi della pandemia e della guerra in Ucraina hanno ridefinito i confini della “catena globale del valore”?
Abbiamo capito che le catene globali del valore sono profondamente fragili e che quindi la stessa globalizzazione è vulnerabile. Dopo 30 anni di continua espansione, con tantissimi benefici, la globalizzazione ha mostrato limiti profondi e pericolose distorsioni. Le catene globali del valore si sono rivelate spesso troppo lunghe, vulnerabili e lontane dai mercati di sbocco. A fronte di shock esterni quali la pandemie e la guerra, hanno mostrato la loro intrinseca fragilità. Ora la tendenza è quella di accorciarle. La Apple, ad esempio, per produrre un iPad realizza componenti in più di 40 paesi diversi, al fine di massimizzare l’efficienza. Nel mondo globalizzato in cui non ci sono barriere tariffarie, problemi internazionali, guerre e pandemie, si può attingere a fornitori di paesi diversi e lontani e massimizzare l’efficienza, minimizzando i costi e ampliando i margini di profitto delle imprese coinvolte in tali cicli produttivi. Ma nel momento in cui sorgono delle emergenze (una pandemia, una guerra o una catastrofe naturale), questa catena così lunga ed efficiente va in frantumi. Ci siamo concentrati in questi anni a massimizzare l’efficienza rinunciando alla resilienza, ovvero alla capacità di reagire con successo agli shock esterni. Adesso il trend è esattamente l’opposto, si accorciano le catene del valore minimizzando l’efficienza al fine di valorizzare la resilienza.

Come possono le piccole e medie imprese affrontare i cambiamenti dirompenti senza esserne travolte?
Lo potranno fare se seguiranno queste due indicazioni di fondo, (che sono descritte anche nella quarta di copertina del mio libro): learn e adapt, imparare ed adattarsi.
Se le piccole e medie imprese punteranno su questo binomio non solo potranno sopravvivere ai cambiamenti prodotti dallo sviluppo tecnico, ma riusciranno, anche, ad avere un vantaggio competitivo rispetto alle grandi imprese dominanti nel mercato.
Infatti, la maggiore flessibilità, combinata con la minore complessità organizzativa e burocratica, permetterà alle piccole imprese di adattarsi meglio e più velocemente rispetto alle grandi strutture complesse e rigide delle grandi corporates. Le piccole e medie imprese se seguiranno il learn e adapt, riusciranno a governare il cambiamento e a non esserne travolte.

Lo sviluppo ipertrofico di “infomi”, come smartphone ad esempio, in che modo ha cambiato l’ossatura della nostra società?
Se analizziamo gli sviluppi del metaverso nei campi dell’intrattenimento e dei giochi possiamo dire che ci troviamo già in un mondo immersivo, cioè capace di fondere mondo virtuale e fisico. La cui applicazione produrrà un mutamento totale nei diversi ambiti economici. Ciò mi fa ripensare ad un libro di Vittorino Andreoli: “Il cervello in tasca”. Un testo dove si affronta il grande rischio che all’aumentare dei mezzi tecnici ci sia una tendenza a delegare le nostre capacità di approfondimento, calcolo e analisi ai mezzi tecnici impoverendoci drasticamente. Producendo il rischio di vivere in un mondo sdoppiato, tra reale e virtuale, che non ci metterebbe più nella condizione di riuscire a cogliere le differenze tra i due.

Perché mai oggi gestire il cambiamento è ancora più complesso?
Il cambiamento dirompente, c’è sempre stato nella storia dell’uomo. Oggi però ha tre caratteristiche differenti che ne causano la maggiore complessità rispetto al passato: è più frequente e ravvicinato a causa della moltiplicazione e combinazione delle sue conseguenze in tutti gli ambiti in cui esso si manifesta; il mondo di oggi è molto più interdipendente rispetto al passato, avendo come conseguenza che il cambiamento influenza tutte le parti in gioco; anche se non si è influenzati direttamente dal cambiamento, ne siamo comunque a conoscenza (pensiamo al disastro di Fukushima), e questo genera un senso di ansia diffuso. Per questo sia a livello politico che a livello manageriale oggi è molto più difficile governare e confrontarsi con il cambiamento.

Oggi il digitale e la specializzazione tecnica prefigurano l’alba di una nuova ridefinizione del concetto elaborato da John K. Galbraith di tecnostruttura?
Così come negli anni ‘50-‘60 i grandi gruppi industriali e commerciali avevano un grande potere, attraverso le lobby, i media di massa e il mercato con capacità di influenza e condizionamento pari a quelle degli stati, oggi il peso delle big tech è ancora più rilevante nella società globale rispetto al passato. Dalla AI alla robotica fino alle tecnologie di ultima generazione, (caratterizzate dal forte impiego di capitali), c’è un forte squilibrio nei processi produttivi tra il peso della forza lavoro e quello del capitale.

Lei per esempio in alcuni suoi saggi parla di una ristrutturazione della piramide del lavoro. Cosa intende?
Oggi la piramide del lavoro è caratterizzata da un forte divario tra l’oligarchia tecnologica, composta da pochi operatori altamente specializzati e remunerati all’apice della piramide, contro una base composta da “in-person servers” (servitori personali), cioè coloro che svolgono mestieri al servizio dell’oligarchia tecnologica (per esempio rider, giardinieri, camerieri, etc.). Tra questi due estremi esiste un gap molto profondo, causato dalle conseguenze sia della sostituzione tecnologica sia dalla crisi della classe media di fronte al cambiamento.

Fatti non foste a viver come robot
Crescita, lavoro, sostenibilità: sopravvivere alla rivoluzione tecnologica (e alla pandemia)
Utet, 2020


E invece riguardo al tema della tecnostruttura, ovvero di una classe burocratico organizzativa che rappresenta il vero centro della corporate, pensa sia ancora attuale?
Galbraith diceva che per le grandi aziende del sistema industriale il vero obiettivo non erano più i profitti bensì la sopravvivenza e l’espansione. Una riflessione che è più che mai valida rispetto alle big tech, in cui la logica priorità è quella dell’espansione e della maggiore diffusione.

-Siamo passati da una tecnostruttura industriale ad una tecnostruttura high tech?
Si perché da una parte c’è la necessità di avere sia grandi capacità organizzative e tecniche, caratterizzate da un maggiore primato tecnico dovuto ad una tecnostruttura di esperti, sia a grandi disponibilità di capitali e mezzi capaci di investire nell’innovazione.

Rispetto al testo di Galbraith in cui c’era un maggior peso della componente della forza lavoro, dai quadri agli operai, ora c’è invece un primato del capitale?
C’è uno sbilanciamento rispetto al capitale che è dovuto dall’orientamento all’innovazione di mezzi tecnici. L’automazione delle produzioni porta a premiare gli investimenti del capitale e a ridurre la parte di ricchezza prodotta che viene destinata al lavoro. Ma il lavoro è stato negli ultimi due secoli il maggiore strumento di redistribuzione della ricchezza prodotta.

Come si può sopperire a questa seconda emergenza?
Una proposta potrebbe essere il reddito universale, ma la storia ci insegna quanto sia dannoso ed inefficiente un tale provvedimento. Ciò non toglie che lo sviluppo di nuove tecnologie e di frontiere come l’e-commerce portano ad una “disintermediazione” del mercato, la cui conseguenza è la distruzione di categorie come commercianti, prestatori di servizi e impiegati a favore dei mercati digitali dove la componente lavorativa si concentra o sull’oligarchia tecnica o sui servitori personali. Un problema politico che non va sottovalutato. Facciamo un esempio. Un tempo una banca aveva molte figure, il cassiere, l’impiegato, il direttore di filiale che componevano la classe media. Oggi negli Usa, ad esempio, non esistono più grandi filiali in tutte le città, ma punti di distribuzione Atm, quindi mezzi tecnici, in cui ci sono degli operatori che non svolgono un ruolo da quadro o da intermediario, ma servono solo come punto di collegamento col servizio clienti e con i tecnici. Soggetti che in sostanza svolgono un lavoro non qualificato e con pagamenti molto bassi, da servitori personali appunto, il cui ruolo è relegato alla mera assistenza. Non esistono più i corpi intermedi come erano nel testo di Galbraith, ma solo la polarizzazione tra queste due classi sociali tra loro molto sbilanciate.

Nel suo libro “Fatti non foste a viver come robot” (Utet) propone in alternativa a modelli come il reddito di cittadinanza un sistema di “pre-distribuzione” in alternativa alla redistribuzione. Cosa intende?
La transizione digitale genera una ricchezza che investe e riguarda la collettività intera. Tale ricchezza, a mio avviso, non va però erogata come assegno o sussidio ma va pensata in un’ottica di “pre-distribuzione“. La proposta che esprimevo nel mio libro era, in estrema sintesi, l’istituzione di un fondo del 1% di tutte le società nel digitale, che dava delle quote ad ogni bambino nato un investimento di base dovuto ad una condivisione dell’allargamento “della torta” tramite dei fondi di investimento sull’istruzione in vista di una formazione maggiore. L’ipotesi formulata nel mio libro è che per rispondere alle sfide della transizione digitale sia necessaria la combinazione di tre misure che mirano non a distribuire, bensì a pre-distribuire i mezzi necessari per generare ricchezza. Ognuna di queste tre misure è pensata per sostenere il cittadino in una diversa fase della sua vita: istruzione di base e gratuita (per la scuola), prestito universale (per formazione universitaria o professionale) e capitale di dotazione (per il periodo lavorativo e della pensione). Un’idea che propone un’evoluzione del welfare, da una definizione dei bisogni in cui diritti sociali standardizzati sono sostituiti da diritti ritagliati sui bisogni effettivi delle persone, capace di tenere il passo con la transizione tecnologica.

James Galbraith e l’attualità del “Nuovo stato industriale”

James Galbraith e l’attualità del “Nuovo stato industriale”

Di Francesco Subiaco


“Il nuovo stato industriale” di John Kenneth Galbraith è uno dei testi cardine del novecento americano. Esso infatti non svolse solo una lunga analisi e disamina delle forze e delle mutazioni prodotte dall’affermazione del sistema industriale, ma anche una lente chiara e limpida per comprendere l’evoluzione delle istituzioni sociali che hanno caratterizzato la società americana. Per riflettere sull’attualità di questo testo visionario del 1967 abbiamo intervistato il Professor James Galbraith, studioso, economista ed accademico, la cui visione progressista e istituzionalizza ha ripreso e interpretato le istanze della visione economica del New industrial state, partendo dal ruolo predatorio delle grandi corporate nell’economia americane, e la loro applicazione nel settore militare racchiusa nel saggio “The predator state”.
James K. Galbraith detiene la Lloyd M. Bentsen Jr. Chair in Government/Business Relations presso la Lyndon B. Johnson School of Public Affairs e una cattedra di Government presso l’Università del Texas ad Austin. È stato direttore esecutivo del Joint Economic Committee del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni ’80 e, prima ancora, economista per il House Banking Committee. Ha presieduto il consiglio degli economisti per la pace e la sicurezza dal 1996 al 2016 e dirige il progetto di disuguaglianza dell’Università del Texas . È caporedattore di Structural Change and Economic Dynamics .
Dal 1993 al 1997 Galbraith è stato consulente tecnico capo per la riforma macroeconomica della Commissione per la pianificazione statale della Repubblica popolare cinese. Nel 2010 è stato eletto all’Accademia Nazionale dei Lincei . Nel 2014 è stato co-vincitore del Leontief Prize for Advancing the Frontiers of Economics . Nel 2020 ha ricevuto il Veblen-Commons Award dell’Association for Evolutionary Economics. Ha conseguito lauree presso l’Università di Harvard (AB, magna cum laude), in economia presso l’Università di Yale (MA, M.Phil, Ph.D.) e onori accademici presso università in Ecuador, Francia e Federazione Russa . È un Marshall Scholar; membro a vita del Council on Foreign Relationse la Texas Philosophical Society.


Che ruolo ha avuto Il Nuovo Stato Industriale nel lavoro e nel pensiero di tuo padre?
Poiché la domanda si riferisce al titolo del libro di mio padre del 1967, l’ho interpretata come riferita specificamente a quel libro, e non come una domanda generale sul concetto di un nuovo stato industriale.
Il libro di mio padre del 1967 “The New Industrial State” è stato per molti versi il culmine del suo lavoro di economista teorico e dei suoi sforzi per portare l’intera disciplina dell’economia in contatto con il mondo così com’è – un mondo di grandi organizzazioni, di tecnologie complesse e di progettazione. Il suo lavoro immediatamente precedente, The Affluent Society, era in parte una rassegna ed una critica del pensiero economico classico, e in parte un ritratto del panorama sociale della ricchezza del dopoguerra e di un’economia non basata sulla scarsità fondamentale. Il “New Industrial State”, quindi, riguardava le corporazioni industriali, l’istituzione economica americana allora dominante, e i loro sforzi per modellare l’intero universo economico – dalla progettazione alla produzione, dalla finanza al marketing – secondo le loro specifiche.
Mio padre considerava il “Nuovo stato industriale” come la seconda parte di una trilogia, la terza era Economics and the Public Purpose, di cui dei tre libri, era lo sforzo dominante e il libro principale. All’epoca ebbe un formidabile impatto sul pubblico – nella lista dei bestseller del New York Times per oltre un anno – e generò la reazione più feroce tra gli economisti accademici. In seguito, il tempo di mio padre fu occupato dal movimento contro la guerra del Vietnam, dalle campagne politiche nel 1968 (McCarthy) e nel 1972 (McGovern), dai traumi del dipartimento di economia di Harvard, e successivamente negli anni ’70 dal progetto della BBC “L’Età dell’incertezza”. Quindi il “TNIS” ha rappresentato anche un punto di svolta nella sua traiettoria professionale; i suoi scritti sull’economia in seguito furono per lo più più brevi, e in seguito dedicò anche tempo alla narrativa, alle memorie e ad altre forme letterarie.
A differenza di “The Affluent Society” o (soprattutto) “The Great Crash”, 1929, “The New Industrial State” sparì dalla scena a partire dalla fine degli anni ’80, ed era fuori stampa da diversi decenni quando mio padre morì nel 2006. Era contento di lasciarlo andare; Io non lo ero. Mi sono quindi impegnato a riportarlo in stampa, e ci sono riuscito con le edizioni della Princeton University Press e della Library of America.

Pensa che oggi, come il blocco comunista e quello liberaldemocratico, avevano come tendenza di fondo la pianificazione, oggi le big tech occidentali e il big state cinese hanno una tendenza di fondo del loro sistema economico che li accomuna?

Sì e no. I parallelismi tra il capitalismo manageriale e l’industrializzazione statale dell’URSS nelle sue fasi di maggior successo erano governati dal loro scopo comune, che era quello di padroneggiare le complesse tecnologie della produzione industriale avanzata e di pianificare il funzionamento del sistema economico più ampio in modo da garantire una serie di obiettivi sociali: stabilità, piena occupazione, controllo dell’inflazione, stato sociale.
Nella misura in cui “Big Tech” e lo stato cinese hanno uno scopo comune, è l’applicazione delle tecnologie digitali alle comunicazioni, all’informazione, alla sorveglianza e al controllo sociale. Inoltre, “Big Tech” è nel business privato della riduzione dei costi, eliminando gran parte del lavoro umano e irreggimentando il resto, e concentrando la ricchezza di capitale associata alle tecnologie dell’informazione avanzate in poche mani oligarchiche. Gran parte di questo funziona per minare le istituzioni del “nuovo stato industriale”, creando precarietà dove in precedenza la sicurezza era un obiettivo sociale primario. Mentre l’economia cinese ha le sue versioni di “Big Tech”, con alcune delle stesse caratteristiche generali, lo stato cinese ha una serie di obiettivi molto più ampia e conserva in misura maggiore un impegno per la stabilità sociale come parte dei suoi obiettivi fondamentali. Al giorno d’oggi è lo stato più affine allo studio galbraithiano è quello cinese rispetto a quello americano.

Che ruolo ha oggi la finanza rispetto al sistema industriale e se secondo lei figure come quelle dei manager della Silicon Valley dimostrano la fine della gestione collegiale delle imprese?

Una caratteristica fondamentale del sistema industriale nei primi tre decenni del secondo dopoguerra fu il ruolo subordinato della Grande Finanza alla corporazione industriale. La maggior parte delle grandi società americane erano redditizie e finanziavano i loro nuovi progetti in gran parte con gli utili non distribuiti. Questo comportamento è stato fortemente favorito dal codice tributario, che tassava pesantemente gli utili distribuiti ma consentiva ampie detrazioni per gli investimenti. L’attività scientifica aziendale è stata svolta da professionisti stipendiati. Anche le elevate aliquote marginali dell’imposta sul reddito delle persone fisiche hanno tenuto sotto controllo la remunerazione dei dirigenti aziendali. Non è un caso che questa fosse un’epoca di costruzione iconica delle sedi aziendali (lo skyline di Manhattan, in particolare, prima che fosse rovinato dai condomini a molti piani).
Le grandi banche americane erano generalmente limitate nelle loro operazioni, i tassi di interesse erano regolamentati, il finanziamento ipotecario era in gran parte separato dalle banche commerciali e c’era una netta separazione tra banche commerciali e di investimento. Quindi le dimensioni e il potere del settore bancario all’interno degli Stati Uniti erano di gran lunga inferiori a quelli che sono diventati da allora.
La grande finanza iniziò a sfuggire alla regolamentazione con il crollo di Bretton Woods nel 1971, il riciclaggio globale dei petrodollari dopo il 1973, l’uso di alti tassi di interesse per “combattere l’inflazione” a metà e alla fine degli anni ’70 e una spinta concertata per abrogare il New Deal. Questi provvedimenti sono culminati in una sostanziale deregolamentazione del settore finanziario negli anni ’80, ’90 e negli anni 2000, con anche una riduzione dei fondi e del personale delle agenzie di applicazione della regolamentazione.
Il settore tecnologico si separò dalla società industriale negli anni ’80, quando quest’ultima iniziò a fallire a causa degli alti tassi di interesse, del dollaro sopravvalutato e della concorrenza estera. La grande finanza lo ha reso possibile e ha reso possibile alla tecnostruttura delle aziende di tecnologia dell’informazione di catturare le valutazioni del capitale delle loro tecnologie. Ha trasformato i laboratori aziendali in iniziative speculative, estremamente ben pagate ma estremamente instabili. Ne ho scritto in due libri: “Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future” (1989) e “Created Unequal” (1998).
L’ampio contrasto che vorrei tracciare con l’era della società industriale è che, in quell’epoca, c’erano criteri ragionevoli su ciò che avrebbe costituito un buon investimento. Non perfetto, ma ragionevole. Il design, l’invenzione, l’ingegneria e il marketing giocavano un ruolo, c’erano incertezze in ogni funzione, ma la qualità dei team che svolgevano ogni attività poteva, in modo ragionevole, essere valutata da coloro che prendevano le decisioni per fornire finanziamenti. Nell’era post-industriale, le decisioni vengono prese dagli analisti finanziari – dagli operatori di Wall Street – che mancano di capacità indipendenti, sono vulnerabili all’hype e alle frodi e spesso possono essere loro stessi complici delle frodi. Gli ingegneri finanziari non sono veri ingegneri, ovviamente.
Il risultato non sorprendente furono ondate di speculazioni finanziarie: risparmi e prestiti, Internet, il boom dei mutui subprime. Ognuno ha portato a un incidente nel giro di un decennio. Senza regolatori aggressivi, indipendenti e competenti, sostenuti dalle forze dell’ordine, i problemi continuano a ripresentarsi. I risparmi e i prestiti erano massicciamente fraudolenti. Molte società del digitale negli anni ’90 erano basate su modelli di business ridicoli. L’intero settore dei mutui subprime, insieme ai rating e alle cartolarizzazioni, avevano una impostazione fallace.
Siamo ormai entrati nella prossima ondata di questo tipo di attività. Nel caso più recente, abbiamo ad esempio broker di criptovalute, che hanno esasperato le pericolosità del sistema finanziario rispetto ai già disastrosi precedenti che avevamo potuto osservare. Diventa abbastanza chiaro che il sistema, così com’è, manca di controlli sia interni che esterni. È improbabile che tali controlli possano essere ripristinati, anche se la classe politica si muove in questo orizzonte.

Circa sessant’anni dopo, quanto è attuale la visione dell’economia e del sistema economico americano proposta da John K. Galbraith nel suo “Il nuovo stato industriale”?

Come visione dell’economia americana, il ritratto di mio padre del ruolo dominante delle grandi corporazioni industriali è stato superato dagli eventi. La General Motors è fallita alcuni anni fa. General Electric si sta scomponendo in tre società specializzate, nessuna delle quali legata al core business degli elettrodomestici. Molte altre grandi aziende di quell’epoca non esistono più. Invece la finanza ha recuperato il suo ruolo centrale nell’economia americana, insieme ai settori tecnologico e sanitario e militare-industriale. Questa è una situazione squilibrata e instabile.
Tuttavia, esistono ancora aziende del tipo descritto da mio padre: grandi aziende avanzate, ingegneristiche e manifatturiere. Rimangono dominanti in Germania, Giappone, Corea, Cina e probabilmente anche nella Federazione Russa. In tutti questi paesi, mio padre ha goduto di un’influenza diretta o indiretta e la sua eredità intellettuale è ancora riconosciuta. Naturalmente si possono vedere le conseguenze nei modelli del commercio mondiale e nell’equilibrio della forza manifatturiera.

Pensa che oggi siamo passati da una tecnostruttura industriale a una tecnostruttura digitale e high tech? Il ruolo, un tempo del circuito industriale, è stato assunto oggi da big tech e corporate legate ai social network?

Come prevedevo già nel 1989 in un libro intitolato “Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future” – che all’epoca fece poco successo – il settore tecnologico e quello finanziario sono oggi i poli dominanti del sistema economico americano. È lì che si concentrano ricchezza e potere, a parte (di nuovo) le imprese aerospaziali e militare-industriali. Tuttavia, la concentrazione è così estrema che solo una piccolissima parte della popolazione e della superficie del Paese si trova nell’orbita diretta di questi settori. Alcuni anni fa abbiamo calcolato che nel boom tecnologico della fine degli anni ’90, la metà dell’aumento della disparità di reddito misurata tra le 3150 contee degli Stati Uniti era dovuta all’aumento del reddito in sole cinque contee: New York, New York (Manhattan); tre contee nel nord della California (Silicon Valley); e King County Washington, che è Seattle, che è Microsoft. Da allora c’è stata una certa diffusione della ricchezza, ma non così tanto estesa da essere rilevante. La maggior parte del paese vive con l’occupazione nel settore dei servizi. E nel settore immobiliare e dell’edilizia residenziale, che sono sempre stati una parte importante dell’economia americana, i costi delle abitazioni sono ora stimati in oltre il 30% dell’indice dei prezzi al consumo.

Il ruolo del proletariato e della forza lavoro in questo “Nuovo stato digitale” è oggi svolto dal capitale e dai mezzi tecnici che sostituiscono il peso sociale della forza lavoro?
Penso di no. I mezzi tecnici sono cresciuti per esercitare un ampio grado di controllo sulla forza lavoro, in particolare (ad esempio) nella distribuzione di merci (Amazon, Wal-Mart) e nei trasporti (Uber, Lyft) e così via. Ma la forza lavoro in sé è ancora vasta e praticamente tutti i nuovi posti di lavoro negli ultimi decenni sono stati nel settore dei servizi. Quello che sta accadendo ora – dal 2000, più dal 2008 e ancora di più dalla pandemia – è stato un ritiro di un certo numero di persone dalla forza lavoro attiva. Un discreto numero è andato in pensione, spesso alla prima età della previdenza sociale, che è di 62 anni; altri erano lavoratori supplementari nelle loro famiglie che decisero che il lavoro (e le spese associate) non valevano la pena. Questo è il motivo per cui il tasso di disoccupazione è così basso: cattura solo coloro che sono in cerca di lavoro. In termini di “peso sociale” – questa è una grande difficoltà della forza lavoro oggi. I lavoratori dei servizi hanno scarso potere contrattuale ed è molto difficile per loro trovare ed esercitare una voce politica comune.

Quanto sono attuali le critiche che fa nel suo “The predator state” delle amministrazioni GOP e cosa è cambiato in meglio o in peggio negli ultimi anni?

“The Predator State” è stato scritto durante un’amministrazione (Bush-Cheney) particolarmente aggressiva nell’erodere le assicurazioni sociali al fine di arricchire gli interessi commerciali e industriali, e in un momento in cui la bandiera rossa dei deficit di bilancio (ha creato in parte da ampi tagli fiscali) è stata agitata per promuovere la privatizzazione dei programmi pubblici. È stato anche il momento della deregolamentazione e depenalizzazione della finanza che ha portato a massicce frodi finanziarie; la crisi del 2007-2009 ne è stata la conseguenza. Queste tendenze non sono scomparse, anche se penso che le minacce alla Social Security, Medicare e Medicaid potrebbero non essere così gravi come prima, e i deficit della pandemia hanno mostrato chiaramente quanto si potrebbe fare per sostenere le entrate pubbliche senza danneggiare il credito del governo. Forse l’elemento più aggressivo dello stato predatore al momento è il complesso militare-industriale.

Cosa ne pensa del ruolo delle grandi aziende durante la pandemia e la crisi internazionale?

Durante la pandemia, ingenti prestiti e sovvenzioni sono andati a sostenere la struttura allora esistente del business americano, comprese le compagnie aeree, il settore dell’ospitalità e molto altro che non verrà riportato ai precedenti livelli di attività. È difficile immaginare cosa si sarebbe potuto fare altrimenti nell’emergenza, ma ora che l’emergenza immediata è passata, i cambiamenti strutturali operati dalla pandemia si svilupperanno nel tempo. La transizione più ampia, che potrebbe essere verso un settore degli investimenti focalizzato su risorse (sempre più scarse e costose), in particolare l’energia e comprese le rinnovabili, e lontano dai settori legacy (sempre più non redditizi), sarà dolorosa, indipendentemente da come verrà gestita.
La guerra in Ucraina è una miniera d’oro per le grandi aziende militari-industriali, che continueranno a trarre profitto dagli ordini di sostituzione per le scorte di munizioni esaurite per molti anni dopo la fine della guerra. Penso che la maggior parte dei contratti concessi dal febbraio 2022 non avrà alcun effetto sulla situazione sul campo, perché i tassi di produzione sono troppo bassi e i tassi di utilizzo sono troppo alti per essere compensati da una nuova produzione finché durano i combattimenti. Forse la lezione chiave dell’attuale guerra sarà l’inutilità delle attuali strutture del potere militare statunitense, ma ci sono ancora pochi segnali che questa lezione sia stata appresa.

Quali sono i suoi riferimenti culturali?

Una grande domanda! Tra gli economisti, Thorstein Veblen e John Maynard Keynes sono stati fondamentali nella mia formazione, sebbene io sia diventato più istituzionalista ed evoluzionista nel corso degli anni, e meno keynesiano nel senso comune del termine. Veblen è sempre un piacere rileggerlo. Il mio apprezzamento per Keynes si basa soprattutto sulla sua comprensione del ruolo della psicologia sociale nel più ampio schema della vita economica, e sono orgoglioso di un saggio che ho scritto molti anni fa sull’ispirazione che ha tratto da Einstein. Non sono un gran lettore di testi filosofici, ma allo stesso tempo sono molto attratto dalla comprensione della tradizione pragmatista; suppongo che questo abbia un collegamento con la mia prima carriera nello staff del Congresso. In letteratura, i miei gusti vanno maggiormente verso gli autori dell’età dell’argento sovietica, come Bulgakov per molti anni, Krzhizhanovsky e Tynyanov più recentemente; ciò è dovuto, credo, alla loro combinazione di sensibilità allegorica con un apprezzamento dell’assurdità della vita moderna. Il mio autore italiano preferito, veneziano nello specifico, è ovviamente Casanova. Finora ho letto circa 2.500 pagine dell’edizione in tre volumi LeBorgne/Igalens di “Histoire de ma Vie”, e non c’è una frase che non sia indimenticabile o che sia semplicemente superflua in nessuna di esse.