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Onore a Lino Capolicchio, artista libero in un cinema di burattini

– Tommaso De Brabant

La prima scelta di Dario Argento per il ruolo del pianista e, suo malgrado, investigatore protagonista di “Profondo Rosso”, girato nell’autunno del 1974 e diffuso nei cinema l’anno seguente, era Lino Capolicchio; l’attore alto-atesino però, uno dei più richiesti del momento, si era infortunato a causa di un incidente in auto. Cavallerescamente, il regista romano propose di rinviare le riprese in attesa della guarigione di Capolicchio; il quale però, generosamente, insistette perché il film cominciasse senza di lui. “Profondo rosso”, pur maltrattato dalla critica, si impose come “cult”; Capolicchio però non ebbe però troppo tempo per rimpiangerlo, dato che nella primavera del 1976 girò un’altra pietra miliare dell’orrore: “La casa dalle finestre che ridono”, la cui uscita agostana salvò Pupi Avati (il quale, mentre Argento girava “Profondo Rosso”, sceneggiava per Pier Paolo Pasolini “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, e per Lucio Fulci “Il cav. Costante Nicosia demoniaco, ovvero Dracula in Brianza”) dai guai che si era recentissimamente procurato con “Bordella”, un musical grottesco che gli attirò le ire della censura (e di Al Lettieri, noto al grande pubblico come il vile Virgil Sollozzo di “Il padrino”, che provò a uccidere il regista bolognese perché infastidito dallo spazio lasciato alle improvvisazioni di Gigi Proietti). Con un sofismo si potrebbe notare che, come “Profondo rosso”, il film di Avati non è propriamente un horror, ma un thriller: non vi è alcun intervento sovrannaturale (eccezion fatta forse per la seduta medianica fatale alla sensitiva Ulmann), le efferatezze sono interamente affidate a dei “serial killer”; eppure, l’opus magnum di Argento e “La casa dalle finestre che ridono” restano dei superclassici del cinema dell’orrore, grazie alle loro trovate spaventose e a un finale ad effetto. Se “Profondo rosso” scade facilmente nella macelleria compiaciuta e nel raccapriccio fine a se stesso (come tutta la filmografia di Argento), “La casa dalle finestre che ridono” (scritto dal regista assieme al fratello Antonio e a Maurizio Costanzo) che pure è tutt’altro che un film raffinato, non offre soltanto sequenze da Grand Guignol, ma è anche l’esplorazione d’un mondo a sé: quel Gotico Padano che di Pupi Avati è creazione esclusiva. Il regista-sceneggiatore-produttore emiliano sceglierà, nel 1983, uno degli attori di “Profondo rosso” (Gabriele Lavia, nel ruolo di Carlo, amico fragile del protagonista Marc) quale protagonista d’un altro dei suoi film migliori, “Zeder” (storia di zombie con spettacolare finale a Milano Marittima, di gran successo negli USA): tuttora il film di maggior successo di cui l’attore milanese (assai più attivo a teatro) sia stato protagonista, nonché la sua sola collaborazione con Avati. Lavia è stato uno dei pochi attori a recitare più volte per Argento (che, a parte la figlia Asia, non ha sviluppato sodalizi con “attori feticcio”): dopo “Profondo rosso”, si sono ritrovati per “Inferno” (1980, fascinoso ma pasticciato secondo episodio della trilogia delle Madri inaugurata da “Suspiria”) e “Non ho sonno” (2001, scialbo remake di “Profondo rosso”). Diversamente dal collega romano, Pupi Avati ha cresciuto, fin dai suoi primi film, una sua compagnia di attori: Lavia non si è trattenuto, Capolicchio sì. Tra il ’75 e il ’76, travolto dallo scandalo di “Bordella” (il film fu sequestrato per nove mesi, precludendo al regista – già sposato e padre di tre figli – qualsiasi guadagno dal suo lavoro), Pupi Avati decise di trarre un film da una delle storie dell’orrore che la madre raccontava a lui e al fratello Antonio ancora da bambini tra il ’75 e il ’76. Oltre al film dello scandalo e alle sceneggiature per Pasolini e Fulci, Avati aveva all’attivo i primi due film del Gotico Padano (“Balsamus l’uomo di Satana”, presentato a Bologna come un kolossal, e “Thomas e gli indemoniati”) e un film grottesco con Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio e Lucio Dalla, “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”: film nei quali i cultori possono cercare i primi volti ricorrenti del cinema avatiano (Pina Borione, Ines Ciaschetti, Bob Tonelli, Giulio Pizzirani, Pietro Brambilla). Per quanto fosse ambizioso, pur avendo da poco potuto dirigere due attori già celeberrimi (Tognazzi – che tornerà con Avati in “Ultimo minuto” – e Villaggio) e credendo fortemente nel nuovo film, Avati sapeva di non potersi permettere guai anche più lievi di “Bordella”: quasi quarantenne, con una famiglia da crescere, aveva già accantonato la carriera da clarinettista jazz e un impiego (soffertissimo) alla Findus. Ingaggiato il grande amico d’una vita, il concittadino Gianni Cavina, presente in tutti i film avatiani precedenti e in gran parte di quelli che seguiranno (e che negli anni ’90 ritroverà popolarità con gli spot televisivi, con dispetto di Avati, della Findus), oltre a Eugene Walter (uno scrittore trasferitosi dall’Alabama a Parigi e poi a Roma, dove Fellini lo farà recitare in “8 e ½”, il film la cui visione farà decidere ad Avati di diventare regista), i fratelli Avati provarono il colpaccio: contattare uno degli attori più famosi del momento, Lino Capolicchio. Il divo di Merano, attirato dalla speranza di compensare la rinuncia a “Profondo rosso”, lasciò alla moglie la sceneggiatura: stava partendo per una trasferta di lavoro, al ritorno le avrebbe chiesto un parere. La sventurata gli telefonò in albergo, rimproverandolo: come poteva lasciarla sola la notte, dopo averle fatto leggere una storia così terrificante? Di fronte a tale prova del grande potenziale di “La casa dalle finestre che ridono”, l’attore accettò, facendo intravedere ai fratelli Avati il concretizzarsi della loro riscossa: Capolicchio era un nome parecchio pesante da scrivere sulla locandina d’un film. Tuttora ricordato come il classico horror di Avati, “La casa dalle finestre che ridono” fu presentato come il primo film dell’orrore interpretato da Capolicchio, accolto sul set con timore reverenziale: la sua esperienza surclassava quella di chiunque altro fosse impegnato con le riprese, sia per quantità che per qualità. Allievo di Strehler e D’Amico, aveva recitato Goldoni e Shakespeare al Piccolo di Milano e al cinema, dove aveva debuttato con Zeffirelli. Già al suo secondo film (“Escalation” di Roberto Faenza, 1968, dove è un hippy che si innamora della sua psicoterapeuta – Claudine Auger, la magnifica Bond-girl di “Thunderball” – per poi rivelarsi più spregiudicato del padre industriale) fu promosso a protagonista; si imporrà quindi come figura di spicco del cinema della contestazione, da “Vergogna, schifosi” di Mauro Severino all’ultimo film di Giuseppe De Santis (già regista di “Riso amaro”), “Un apprezzato professionista di sicuro avvenire”, passando per alcuni dei film più importanti dell’epoca: “Metti, una sera a cena” (1969, adattamento cinematografico di Giuseppe Patroni Griffi dal suo stesso dramma per il teatro), dove è uno studente gigolò coinvolto negli scambi erotici fra la Bolkan, Trintignant e Musante; “Mussolini, ultimo atto” (Carlo Lizzani, 1974: con Rod Steiger nel ruolo del Duce, Lisa Gastoni nella parte della Petacci, Franco Nero in quella di Walter Audisio ed Henry Fonda in quella del cardinale Schuster: una delle scelte più assurde della storia del cinema), dove è Pier Luigi Bellini delle Stelle, il partigiano aristocratico e comunista che avrebbe preferito consegnare vivo Mussolini agli angloamericani; ma fu “Il giardino dei Finzi Contini” (Vittorio De Sica, 1970, dal romanzo di Giorgio Bassani – che ebbe col regista disaccordi riguardo la sceneggiatura, tanto gravi che lo scrittore chiese di non essere menzionato nei titoli – di otto anni prima) a rendere Capolicchio (che interpreta Giorgio, il laureando ebreo che a Ferrara, tra le leggi razziali e la guerra incombente, è innamorato non corrisposto di Micol – Dominique Sanda, che gli preferisce Giampiero – Fabio Testi) una star internazionale: il fotogramma di Giorgio-Capolicchio in bicicletta accanto a Micol-Sanda è tuttora l’immagine più celebre della gloriosissima tradizione del cinema ferrarese. Scaraventato di fronte all’attenzione del cinema mondiale, Capolicchio divenne ritroso: rifiutò la proposta, danarosissima, di diventare il volto delle pubblicità per la Coca-Cola (dopo aver scoperto quanti soldi aveva rifiutato, la madre rimase in stato catatonico per diverse ore) e si rifugiò nell’insegnamento dell’arte recitativa, oltre che in una fitta attività da attore e regista a teatro. L’incontro con Avati fu la salvezza per entrambi: avere per protagonista uno dei divi più adorati dell’epoca garantì a “La casa dalle finestre che ridono” un degno successo, rilanciando la carriera del regista; e l’incontro con Pupi (pur di soli cinque anni più anziano) offrì a Capolicchio una nuova figura paterna (negli ultimi anni di vita l’attore ha più volte esternato il dolore provocatogli dall’inimicizia col padre) e un regista di riferimento. Pur non onnipresente come Gianni Cavina, Capolicchio parteciperà a buona parte dei film di Avati: il sottovalutatissimo “Le strelle nel fosso” (1979), “Noi tre” (1984) dove è Leopold Mozart, padre di Wolfgang Amadeus in un loro passaggio italiano, “Ultimo minuto” (1987) dove è il neo-presidente che prova a esautorare Walter-Ugo Tognazzi, maniacale direttore sportivo d’una squadra di calcio ispirata al Lanerossi Vicenza; poi “Fratelli e sorelle” (1992), “Una sconfinata giovinezza” (2010), sino a “Il signor Diavolo” (2019), il grande ritorno del Gotico Padano, dove è don Dario, il parroco tisico connivente col culto satanico di cui è gran sacerdote Gino, il suo sagrestano fanatico, interpretato da Cavina. Un ritorno alle atmosfere, alle inquietudini, ai misteri di “La casa dalle finestre che ridono”: e quanto fosse stato armonioso e felice l’incontro tra Avati e Capolicchio è testimoniato dagli sceneggiati televisivi che i due girarono tra “La casa dalle finestre che ridono” e “Le strelle nel fosso”: “Cinema!!!” e soprattutto l’adorabile “Jazz Band”, dove Capolicchio impersona l’alter ego dello stesso Pupi Avati, ritraendone sogni, passioni, progetti e ambizioni. Ho incontrato il cinema di Avati nell’agosto del 2019, proprio con l’ultimo suo film interpretato da Capolicchio, “Il signor Diavolo”, rimanendone conquistato. Fu grazie a un mio articolo su quel film meraviglioso, che incontrai Avati stesso a settembre, per un’intervista (portai, per farlo firmare, il libro scritto da Andrea Maioli sul cinema di Pupi, con in copertina proprio Capolicchio che, nel ruolo dell’esperto d’arte Stefano, studia il terrificante affresco del martirio di San Sebastiano dipinto dal “pittore d’agonie”, Buono Legnani). Ho poi partecipato da comparsa e cronista, tra l’agosto e il settembre del 2020, a un altro recentissimo film di Pupi, “Lei mi parla ancora”, ambientato in quella Ferrara nella quale, tra negozi di libri e dischi usati, è frequente vedere l’immagine di Capolicchio in bici con la Sanda in “Il giardino dei Finzi Contini”: eppure, “Lei mi parla ancora” è uno dei pochissimi film di Pupi nel quale non compaiano né Capolicchio né Cavina. Durante le riprese mi recai in pellegrinaggio da Comacchio a Minerbio: dalla “villa delle sorelle Legnani” alla chiesa di San Giovanni in Triario, due dei luoghi di sventura di Stefano-Capolicchio, capostipite dei personaggi avatiani che pur sapendo che si stanno cacciando nei guai sono tanti curiosi da dannarsi. Ho comunque incontrato dal vivo Capolicchio nel febbraio 2020, pochi giorni prima delle chiusure dovute al Covid (ma se ne parlava già: un tale si presentò all’evento con una mascherina elaboratissima): era ospite della cineteca di Milano, per presentare “La casa dalle finestre che ridono” e il suo libro autobiografico, “D’amore non si muore”. Era un uomo bellissimo: tanto esile da sembrare fragilissimo, gentilissimo, con un sorriso meraviglioso. Comprai il libro per farglielo firmare, quando si trattò di scriverci la dedica restò sorpreso, come Pupi pochi mesi prima, dal constatare che sono omonimo dei loro figli. Il capriccio delle circostanze fece sì che in sala finissi in prima fila, per non separare una coppia dove invece sarei dovuto stare: potei così assistere da vicino a una bella intervista, durante la quale Capolicchio raccontò cosa fosse fare cinema negli anni Settanta, un periodo tanto controverso, tragico eppure entusiasmante. Sapeva che “La casa dalle finestre che ridono” è un importante tassello di storia (del cinema, italiana, locale, del folklore…), e trasmetteva la felicità di averne partecipato. “La casa dalle finestre che ridono” era già uno dei miei film preferiti, aver assistito a quella proiezione me lo rese tanto più caro, e questo spiega il mio viaggio sui luoghi delle sue riprese. Lino Capolicchio non era soltanto un volto sullo schermo: era un attore completo, un grande uomo di cultura (prima che di spettacolo). Era coltissimo (il suo incontro con Pupi Avati è stato propiziato anche dai loro interessi librari), sceglieva i film da interpretare anteponendo ciò che potevano trasmettergli al ritorno che ne avrebbe avuto in termini di notorietà; fu, colpevolmente, emarginato da un cinema italiano che, terminate le follie degli anni ’70, si sarebbe poi rinchiuso nella mediocrità dei film da salotto pariolino. Bel volto del Sessantotto, quando scoprì che gli era stata apposta questa etichetta la rifiutò, assieme alla convenienza di mettersi una divisa e, come il suo regista preferito, rimase libero: messo all’angolo, ma libero. Lode a te, Lino Capolicchio, artista intelligente e libero in un cinema di burattini. Mancavi già, mancherai sempre più.

OLTRE LE MASCHERE DEL QUOTIDIANO, GIOVANNI BALDUCCI PRESENTA IL SUO LIBRO A FONDI

– Redazione

Domenica 15 maggio alle ore 18:00 all’interno del Castello Caetani a Fondi si terrà la presentazione del libro «La vita quotidiana come gioco di ruolo» di Giovanni Balducci (MIMESIS EDIZIONI). Un testo che riprendendo gli sviluppi della Labeling theory e delle tesi del sociologo Irving Goffman, vuole analizzare i meccanismi delle realtà sociale occupandosi principalmente dell’Io umano immerso nella vita di tutti i giorni e colto nella sua duplice opera di co-creatore di sé stesso e della realtà sociale circostante, intrappolato nella “metafora teatrale” che fa di lui un attore sulla scena delle finzioni sociali, ma allo stesso tempo un personaggio di tale messa in scena, partecipando ad una mascherata volontaria o involontaria di pirandelliana memoria, in cui l’esistenza della persona si tramuta in un gioco di ruolo, in cui si è l’avatar e il giocatore della storia. L’evento organizzato da “La cinearte produzioni” sarà svolto in collaborazione con l’accademia Internazionale Maurizia, l’associazione culturale Musicinecultura, l’associazione fotografichementi e casa della cultura, l’evento è patrocinato dal Comune di Fondi, media partner Radio Antenna Musica. Durante l’evento, moderato da Francesco Subiaco ( La civiltà delle macchine, Dissipatio) interverranno l’autore Giovanni Balducci e l’analista de Il giornale off e Il borghese Francesco Latilla.

“Intervistare gli irregolari è fondamentale per ragionare meglio”: Gianmarco Aimi e il valore dell’intervista

– Francesco Latilla

Gianmarco Aimi, tra le giovani firme più interessanti del giornalismo nostrano, è lo sguardo che fortunatamente ancora esiste in questo campo. Una penna che non si accontenta del semplice chiacchiericcio in forma d’intervista ma invece tenta di riportare alla luce la galassia interna a determinate figure strane e dalle mille contraddizioni che rispondono al sacro nome di “artisti”. Aimi si tuffa nelle storie da raccontare con la cultura e il modo di intendere l’intervista come nel passato, partendo dalla concezione di mestiere che è alla base di un lavoro artigianale come quello del giornalista, ma con uno sguardo verso il futuro e a volte anticipando i tempi. Dopo la collaborazione con Il Fatto Quotidiano arriva a scrivere per Rolling Stone e Mow. In questo nostro dialogo abbiamo cercato di cogliere gli aspetti fondamentali di una sana intervista e cosa davvero significa oggi essere un giornalista.

Perché qualcuno dovrebbe voler diventare un giornalista al giorno d’oggi?

Questa è una bella domanda. Parto col dire che sconsiglierei a tutti di fare il giornalista se non ci credono davvero, se non pensano che questo possa essere il loro lavoro, anche perché a volte diviene una missione personale. Non si tratta soltanto di un lavoro, preferisco la definizione di “mestiere” come si usava un tempo chiamare gli antichi mestieri e quindi sono legato ad una visione artigianale. Oggi tutti provano a mascherarsi da giornalista, anche coloro che in realtà non vogliono fare questo nella vita ed infatti la macchina del giornalismo la trovo ingolfata di tantissima gente e questo è dovuto anche al fatto che le testate pagano sempre meno e tutti ci provano, anche per farsi conoscere. C’è anche chi svolge un altro lavoro nella vita e per passione si dedica alla scrittura giornalistica. Diciamo che i veri giornalisti sono coloro che cercano di andare oltre lo scrivere semplicemente per esserci, per apparire, insomma si tratta più di un lavoro di ricerca che tenta di fornire diverse chiavi di lettura al pubblico. È un lavoro che non ha a che fare col marketing e lo sconsiglio perché oggi è abbastanza difficile riuscire ad avere una retribuzione che possa mantenere te ed una eventuale famiglia ma dall’altro lato per me si tratta del lavoro più bello del mondo.

Scrivi per testate importanti e hai intervistato personalità influenti e diverse tra loro. Qual è stata l’intervista che più ti ha reso soddisfatto?

Sicuramente quella a Piergiorgio Bellocchio per “L’inchiesta” che risale ad alcuni anni fa. Prendo questa come riferimento perché trovo che ci sia proprio tutto ciò che io desidero da un’intervista ossia un personaggio da (ri)scoprire, una figura non appartenente al mainstream e che magari è stato accantonato per tanti motivi. Poi facendola dal vivo ed essendo entrambi piacentini ho potuto scavare meglio proprio perché ci siamo trovati su una stessa linea d’onda. Infine, dato che si tratta di una delle prime interviste svolte in uno stile approfondito, senza tener conto del numero di battute, riportando il dialogo come un flusso di coscienza tra me e lui, è sicuramente quella che ricordo con più affetto.

Cosa ricerchi attraverso un’intervista?

Ad un certo punto della mia vita mi sono trovato senza lavoro perché ha chiuso la radio per cui lavoravo e si è interrotta la mia collaborazione con “Il Fatto Quotidiano”. Siccome era tanto forte la mia voglia di tornare nel giornalismo ho incontrato dei personaggi e partendo da semplici chiacchierate sono venute fuori delle nuove interviste. Per cui mi sono accorto che non si diventa artisti per caso o perché lo si vuole ma invece lo si è a causa di vite particolari, di scelte che sono state fatte prima di creare un’opera e quindi la mia ambizione sta nel tirare fuori dalla loro memoria la genesi della loro creatività e delle relative opere. Cerco di scavare nella personalità dell’intervistato, artisti per la maggior parte, per tirare fuori quel che davvero sono queste figure da un punto di vista personale. Un tempo si cercava di fare delle interviste per mostrare qualcosa di originale della figura in questione studiandola a fondo prima di tutto, sia la vita che le opere. Oggi si è perso un po’ questo modo di concepire le interviste, forse per il fatto che ormai tutto deve essere veloce e pronto per il giorno dopo o addirittura un’ora dopo. Per quanto mi riguarda posso dire di aver recuperato lo spirito del passato e quindi di valorizzare l’intervista come genere giornalistico.

Spesso i personaggi da te intervistati sono degli irregolari, dei politicamente scorretti come il già citato Massimo Fini ma anche Morgan, Isabella Santacroce, Stefano Bonaga, Enrico Ruggeri, Giovanni Lindo Ferretti. In un’era stracolma di presunti buoni, quanto serve invece essere dalla parte sbagliata?

Credo sia fondamentale per riuscire a ragionare bene. Anni fa mi sono accorto che leggere i giornali o le testate online che la pensavano come me, seguire soltanto i personaggi che erano del mio mondo non mi dava più nulla e allora ho cominciato a cercare figure che potevano pensarla diversamente da me e con i quali potevo anche trovarmi in disaccordo e devo dire che tutto ciò mi ha arricchito. Ho cercato personaggi scorretti, controversi, controcorrente che dessero a me e soprattutto al lettore delle chiavi di lettura originali sul mondo e credo sia stata una grossa crescita dal mio punto di vista.  MI hanno anche portato molta fortuna facendomi ritornare nel giornalismo. Insomma, posso dire che uscire dai soliti schemi ha pagato sia per un mio interesse personale, tornare a divertirmi con quello che era il mio lavoro primario, e anche per i lettori che sono rimasti stupiti ed hanno apprezzato il mio modo di introdursi nelle storie. La mia ricerca è nel riscoprire coloro che sono usciti dal grande mercato oppure portare alla luce qualcuno di nuovo, anticipando i tempi, come la filosofa Ilaria Gasparri la cui intervista è stata la più letta di Rolling Stone per vari giorni o Mattia Tarantino, un poeta giovanissimo che ho paragonato a Rimbaud. Il contemporaneo è importante per me però sento che è già troppo abusato da chi giornalmente fa un lavoro standard.

Quali sono i lampi di genio che possono venir fuori dal dialogo con uno di questi personaggi?

Guarda, io in realtà non li definirei neanche personaggi perché altrimenti li confonderei con quelli televisivi che puntano solo all’immagine. Invece li chiamo per quello che sono, artisti. Dialogando con loro ti accorgi che non riuscirai mai a delineare un vero profilo, sono come un fiume che scorre, li incontri un giorno e credi che in trentamila battute riesci a coglierne tutte le sfumature ma poi li ritrovi l’anno dopo e cambiano tutto. Sono in completa trasformazione, certe volte non sono neanche d’accordo con quanto hanno detto qualche mese prima addirittura. Per quanto riguarda Morgan, credo sia uno degli artisti più originali non solo dal punto di vista musicale ma anche perché ad ogni domanda di qualunque argomento riesce a spiazzati per la sua cultura, infatti penso anche che sia molto sottovalutato. Devo dire che gli artisti veri sono persone scoperte, perché si spogliano completamente a differenza delle star televisive e non hanno paura di raccontare determinati passaggi della loro vita. Citando Aurelio Picca, un grande scrittore che ho intervistato, è come se gli artisti avessero una ferita che tutti possono vedere ma che li nobilita e non li rende fragili ma più veri.

Un tuo ricordo di Antonio Pennacchi?

Quando ho saputo della sua scomparsa mi sono davvero commosso perché l’intervista che gli feci fu molto particolare. Nel lavoro del giornalista servono tanti fattori tra cui l’intuito nel capire quando scrivere di una determina cosa o di una persona. Non appena venni a sapere che sarebbe uscito il suo nuovo libro “La strada del mare” proposi un’intervista e il suo ufficio stampa non mi fece sapere nulla e non so perché. Allora sono andato sulle pagine bianche, ho trovato il numero del telefono di casa sua e l’ho chiamato. Di questa storia mi ha stupito il fatto che ho sentito di dovergli fare quell’intervista e dopo un mese è scomparso e quello che mi ha toccato di più è che lui dopo tanti anni di successi nella letteratura, dopo il Premio Strega, sognava ancora di notte i suoi compagni di fabbrica. In fondo è rimasto fino alla fine quell’operaio lì, incazzato.

 

La Svizzera, il teatro, il covid: Simone Ganser e la sua satira tagliente

– Francesco Latilla

Simone Ganser è un giovane attore svizzero di origini italo-tedesche. Diplomatosi all’accademia Teatro Dimitri, il nostro Ganser ha intrapreso la via della recitazione come atto fisico associata al movimento clownesco e alla danza  e così è cominciato il suo interessante percorso nel nuovo teatro di matrice svizzera coronato già da importanti traguardi. Egli però deve la sua notorietà alla serie di video a sfondo satirico sulle contraddizioni della gestione dell’emergenza covid nel mondo ed in particolar modo in Italia, riprendendo così le sue radici tricolori.

Cos’ha rappresentato il teatro nella tua vita?

Bella domanda. Il teatro nella mia vita ha rappresentato inizialmente una valvola di sfogo ed ho cominciato a studiare recitazione piuttosto tardi. Il mio sogno sin da bambino era fare il pilota di aerei, ho sempre voluto fare quello, poi per un problema alla vista ho dovuto abbandonare l’idea di poter continuare a livello professionale. Sicuramente diventerò pilota ma più di brevetti privati, tra poco inizierò il corso di brevetto di volo a vela. Il teatro invece mi accompagna da quando ho quattordici anni, quando mi iscrissi  a dei corsi serali più che altro per divertirmi e lavorare su me stesso. Intanto facevo la maturità artistica come pittore di scenari in cui ho studiato quattro anni per dipingere scenografie teatrali e quindi lavorare già sul palcoscenico, anche se dietro le quinte, mi aveva già fatto capire come funzionava quel mondo ma la cosa che più mi affascinava era il rapporto dell’attore col personaggio. Così ho capito che questo era ciò che volevo davvero fare nella vita e non appena ho finito gli studi scolastici ho progettato una lista di accademie di teatro con i relativi esami d’ammissione e la prima all’appello, per una questione di date, era l’Accademia Teatro Dimitri che inizialmente avevo addirittura snobbato per la sua natura di teatralità corporea, diciamo molto legata al clownesco e alla danza. Sono stato scelto ed una volta entrato me ne sono perdutamente innamorato, sono rimasto folgorato da quella concezione di teatro basato sulla fisicità, sul corpo. Così ho preferito continuare a studiare teatro attraverso questa visione così anti-realistica e lavorare sulla recitazione meno enfatica e alla ricerca della naturalezza e del realismo attraverso la macchina da presa e avendo così due poli totalmente diversi e che non si incontrano per niente. Sono stati i tre anni più belli della mia vita e mi hanno permesso di innamorarmi totalmente del mio lavoro, grazie anche al fatto che ho partecipato per due anni di fila ad un concorso internazionale di teatro a Zurigo ed ho vinto in entrambi i casi dove mi sono state date delle borse di studio ed è stato un bel riconoscimento per tutto il percorso che ho fatto. Ho concluso il mio percorso formativo col massimo dei voti e ne sono uscito nel migliore dei modi. Poi è arrivato il covid…

Comunque, voglio precisare una cosa. Sono  sempre stato empaticamente vicino alla figura di Fabrizio De André, tant’è vero che la mia tesi di fine accademia la feci proprio su di lui dato che bisognava scegliere un personaggio a piacere. Però non ho rappresentato sue canzoni ma ho preso invece ispirazione su ciò che di lui più mi affascinava di più, il suo avvicinamento all’emarginato, al mal visto. Quello che amo di lui è il contrasto che si crea tra il ritmo apparentemente allegro delle sue ballate e il dramma del testo che portava su carta, spostando così  il punto di vista e mostrando coloro che meno vengono rappresentati attraverso la musica. Allora ho agito come lui, ho preso un fatto di cronaca di una donna che era stata sgozzata incinta di gemelli ed ho basato tutto il mio atto unico teatrale sul punto di vista dei gemelli nella pancia, raccontando  come hanno vissuto questo passaggio dalla non-vita, ma che cos’è poi la vita?, alla morte assoluta. Quindi i gemelli sono passati direttamente ad un altro mondo senza accedere per l’intervallo della cosiddetta vita vissuta.

Attraverso l’arte è possibile raccontare i dilemmi dell’uomo nella società. A tal proposito, quando hai avvertito l’esigenza di dedicarti alla satira?

In realtà nasce per caso. Ero arrivato al limite e avevo voglia di denunciare la situazione sull’emergenza covid facendo dei video nel mio piccolo, poi però mi sono chiesto: “Come posso utilizzare le mie capacità attoriali per fornire un piccolo contributo agli altri, per far ragionare le persone?” e così ho cominciato ed il mio profilo instagram improvvisamente è cambiato e dai pochi più di mille follower che avevo sono arrivato oltre i diecimila. Il mio scopo, se così lo posso definire, è semplicemente quello di far fare delle domande agli altri, dare un punto su cui porsi un quesito senza cercare di dare risposte precise anche perché non sono un medico e non ho competenze scientifiche, voglio soltanto che le persone si chiedano cosa stia succedendo. Non ho mai aderito alla campagna d’odio verso cui ci hanno portato, con questo disgusto per il prossimo in base alle sue scelte mediche, creando cittadini di serie A e cittadini di serie B. Direi che dopo due anni di martellamento mediatico continuo, sia arrivato il momento che qualcuno si esponga e ci metta la faccia, e siccome io ho la faccia come il culo mi sono detto che non mi interessa il giudizio negativo che sicuramente arriverà da qualcuno, non m’importa delle critiche, e se le mie tesi dovessero risultare sbagliate sarò il primo a constatarlo ma finora il mio pensiero mi ha condotto alla conclusione che vi sia un problema di fondo ed è il seguire ciò che ci viene detto senza farci due domande prima. Il fatto che questi miei semplici video mi abbiamo portato a fare quest’intervista con te, come altre che sto facendo, sta a significare che non sono l’unico a porsi queste domande ma semplicemente sono uno di quei qualcuno che hanno coraggio a mostrarsi.

Da giovane lavoratore dello spettacolo come valuti la situazione culturale che sta trapassando, negli ultimi anni, la tanto amata penisola?

È una tragedia greca. Chiaramente è tra i settori più colpiti e poi il teatro vive di pubblico e senza di esso è difficile andare in scena. Qui in Svizzera i teatri hanno riaperto già alcuni mesi fa però nell’aria c’è un’ostinata paura del contagio che fa in modo che il pubblico vada a vedere soltanto i grandi nomi, dove improvvisamente il covid cessa di esistere, e invece coloro che ci rimettono sono sempre le piccole produzioni di nicchia. Poi io parlo soprattutto per quanto riguarda la mia esperienza svizzera, per l’Italia non saprei dire cose certe.

Squartalized: Caldonazzo e Bongiorno tra cuori lacerati

– Francesco Latilla


“Il teatro e la pittura sono le mie arti preferite, perché  ti rendono una persona libera, ti creano un mondo in cui puoi esprimere ciò che è nascosto dentro di te senza i vincoli dell’apparire. Io ad esempio so per certa che attraverso di esse posso esprimere liberamente e a  360° ciò che sono, assolutamente.” Nathaly Caldonazzo è un’esploratrice dei vari mondi dell’arte. Nata showgirl all’età di 25 anni, intraprende la carriera di ballerina, diventando la “primadonna” del Bagaglino, dove rimane a lavorare per circa 4 anni. Successivamente inizia a recitare nel cinema e soprattutto nel teatro, tra classici di Moliere, Goldoni e Shakespeare. Infine, nel 2013 scopre la passione per la pittura e da lì in poi dedica tutta sé stessa a quest’arte che, attraverso uno stile orientato verso la pop-art, le dona l’occasione di parlare con un nuovo linguaggio del tema della violenza sulle donne. A Novembre è tornata sul campo con “Squartalized”, un ambizioso progetto condiviso con uno degli artisti più originali ed influenti dell’odierno panorama italiano, Vito Bongiorno, ormai conosciuto anche in nazioni estere. “Il progetto è nato parlandoci, dopo poche parole ci siamo capiti subito e abbiamo voluto unire le nostre due arti per una bella causa come questa. Un progetto interamente dedicato a quello che vuol dire subire una violenza che sia fisica ma soprattutto emotiva. Sono la stessa stregua. Il progetto racchiude dodici opere molto grandi di cui organizzeremo un’intera mostra a giugno al museo San Salvatore in Lauro a Roma e sarà quello il punto di partenza con cui vogliamo portare questo “Squartalized” in tutto il mondo.” Così la Calzonazzo getta luce sulla prodigiosa collaborazione che si sta dimostrando una delle più importanti dell’anno, sottolineando infine che:  “Quel che cerchiamo di trasmettere su tela o su metallo dipende da quello che udiamo al momento. Si tratta di un’immagine che conduce il proprio ospite nel più profondo senso della violenza, per cui le opere presenteranno toni molto accesi, colori forti e avendo sempre come punto cardine, nonché chiave di lettura primaria, un cuore maltrattato che simbolicamente è potentissimo, anche perché quella ferita si ripercuote sull’anima, sul fisico, sulla psiche. Ci teniamo a precisare che coloro i quali subiscono questo squartalized non saranno più quelli di prima, forse qualcuno ne uscirà con buoni risultati, ma tanti altri ne muoiono.” Vito Bongiorno, dal canto suo non ha di certo estromesso che questa unione ha fortificato entrambi e che l’idea da cui sono partiti è quella giusta: “Narrare lo squarcio avvenuto nell’anima del trafitto, quel dolore paralizzante che si palesa tra una manipolazione mentale, un’aggressione fisica, un’ingiustizia.” Così, Bongiorno ha ribadito che: “Si tratta di un progetto assolutamente autobiografico perché entrambi veniamo da situazioni travagliate ed entrambi abbiamo avuto una storia di violenza, quindi appena ci siamo visti è nato tutto. Io lavoro il carbone, la cenere, adopero quasi un monocolore e sono molto freddo, lei invece è stravagante, adopera molti colori. Quindi abbiamo creato una perfetta simbiosi tra il togliere da parte mia e dell’aggiungere da parte di Nathaly, e questo credo che dia esattamente la forza che vogliamo evocare tramite quel cuore lacerato.”

Il “tornado” vincente: Charlie Risso verso nuove vette“Trovo che lo scrivere sia uno strumento di psicoterapia, perché ti conduce dove non avresti pensato di andare

– Francesco Latilla


Charlie Risso è un’artista dalla grande sensibilità la cui voce, come quella di una fata delle foreste scandinave o le sirene dei mari britannici, ha la potenza devastante di un tornado, proprio come l’omonimo album che sta riscuotendo sempre più successo e che finalmente è approdato dal vivo, in alcuni concerti che hanno visto la musicista genovese nuovamente in scena, col suo pubblico ad acclamarla. Una delle serate fondamentali di questo tour è assolutamente quella avvenuta lo scorso 25 novembre a La Claque di Genova. “È stato un bellissimo ritorno. Giocavamo in casa, il ché non è detto che sia necessariamente più facile perché in verità non hai soltanto tuoi fan o altri musicisti che ti seguono e vengono a vederti suonare, ma anche una buona parte del pubblico con cui hai una grande confidenza, persone che ti conosco meglio, e quindi salire sul palco e condurre il gioco diviene più particolare, strano. Devo però dire che è risultato tutto esplosivo, è stata davvero una serata calda, energetica, alimentata poi da un posto straordinario, La Claque, con una bellezza fuori dal comune che emana un fascino a metà tra il francese e l’inglese, sicuramente il luogo più metropolitano, più underground dove fare musica a Genova. Sapevo che sarebbe stato un ritorno caldo e per questo abbiamo deciso di riprendere il concerto, anche in virtù del fatto che il luogo si presta benissimo.” Durante l’estate 2021 Charlie Risso e la sua band si sono esibiti su importanti palchi come quello del Goa Boa Festival, aprendo il concerto dei Coma Cose, a Cogoleto in un full-live con il loro batterista. Risso sottolinea l’importanza di questi live definendoli il risultato di un lavoro durato un anno e uscito la scorsa stagione durante il lockdown: “Suonare su questi palchi è stato come portare alla luce, in città, tutto il lavoro svolto tempo addietro. Nel live del 25 novembre abbiamo presentato anche due inediti che faranno parte di un EP prodotto da Federico Dragogna(Ministri) che trovo sia una persona, oltre che un’artista, straordinaria con cui mi sono confrontata per diversi giorni nello studio di Mattia Cominotto che è il mio produttore di sempre col quale abbiamo collaborato, nonostante la produzione di questo EP sia affidata esclusivamente a Federico, quindi  era presente nel pubblico de La Claque, il ché fa sempre uno strano effetto, quando i tuoi produttori vengono a sentirti suonare.  Volevamo lanciare qualche chicca al nostro pubblico, finchè non ci sarà un’uscita ufficiale nei primi mesi del 2022. L’EP è composto da quattro brani, la cui produzione è evidente all’ascolto che sia un po’ diversa dalle mie modalità solite compositive e sono felice di questo beat più incalzante che da una forza synth al progetto, fondendosi con il folk-rock e il dream-pop.” Adesso per la Risso è un grande momento e nuove sfide si pongono dinanzi al suo cammino, infatti ha annunciato di essere al lavoro per il terzo disco, lavorando su nuovi elementi legati a scenari internazionali e sulla commistione di vari generi, collaborando con Robin Manzini, uno dei tre chitarristi che suonano con lei, sul piano della scrittura in quanto uno dei quattro brani porta la sua firma. La distribuzione sarà sempre affidata a Sounzone  e Incadenza. Il successo inarrestabile che Charlie Risso sta riscuotendo ovunque l’ha già portata su una nuova via, quella del cinema.  Nel 2022 uscirà nelle sale il film “Tramonto a nord ovest”  e Risso, assieme alla violoncellista Rachele Rebaudengo, anch’essa di genova, dopo aver collaborato diverse volte, è giunta alle orecchie della regista Luisa Porrino, la quale ha voluto espressamente tre brani dell’album “Tornado” all’interno della colonna sonora del suo film, brani(Tornado, Dark, Hollow Town) che sono stati arrangiati mesi fa, sul Lago d’Orta nel Digital lake Studio di Alberto Gallo, creando così le versioni cinematografiche con gli archi. La collaborazione con Porrino si è rivelata molto efficace, tant’è vero che la regista ha proposto alla musicista di incidere un brano in più, una cover di una ballata folk che la riporta alle origini del suo percorso.

“Racconti al calar del mondo”: le fiabe come antidoto alla solitudine

Ripreso da “Il Primato Nazionale”



Si è tenuto ieri sera, nella location dell’auditorium Sergio Preti di Fondi (Lt), lo spettacolo “Racconti al calar del mondo” diretto e ideato dai fratelli Gianmarco e Francesco Latilla. L’evento, che vedrà repliche nelle prossime settimane, ha registrato un sold out testimone del successo locale che il duo artistico sta riscuotendo ad ogni apparizione. Tuttavia, l’argomento di ieri sera diversificava dalla consueta tematica storica, coinvolgente spesso la figura di Dante Alighieri, riadattata sulla base di tematiche attuali. In questo caso si è trattato di un evento incentrato sulla mitologia raccontata attraverso il mondo fiabesco, con protagonista il cavaliere impavido nella sua lotta contro i draghi.

Racconti al calar del mondo, per far sognare i bambini

Pertanto, l’occasione ha potuto attrarre un pubblico di bambini, da avvicinare sempre maggiormente al mondo dello spettacolo, dell’arte e della cultura che l’Italia può vantare. Siamo certi che l’essenza con cui accrescere l’interesse e la passione di spettatori e osservatori sia il mezzo prezioso e gratuito della fantasia, spesso dimenticato o sottovalutato. Un ingrediente popolare che ha storicamente accompagnato il mondo artistico in prossimità della ricorrenza natalizia, dove le famiglie si sarebbero riunite.

Un antidoto contro la solitudine

Eppure, suona come un campanello d’allarme il sempre più ampio sentimento nichilista riscontrato in occasione degli appuntamenti con tradizioni e festività. Sin dall’infanzia la vicinanza alla famiglia rappresenta ormai un optional, scavalcata dalla solitudine drammaticamente accentuata dall’emergenza pandemica. Dunque ogni evento incentrato sulla fantasia e figlio della voglia di alimentare le speranze – siano anche irreali – degli altri, è meritevole di interesse e apprezzamento. Ulteriore motivazione per assistere agli appuntamenti futuri organizzati dai fratelli Latilla, auspicando siano portatori di nuova speranza. Un sentimento che, si è sempre detto, è l’ultimo a morire. Ora più che mai nel tentativo di riportare un clima di normalità nel prossimo futuro, in particolar modo dei bambini.

Tommaso Alessandro De Filippo

L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E L’ALTRE STELLE, STORIA DI UN NUOVO SUCCESSO A FONDI

E i fratelli Latilla apparvero a Fondi
Spettrale e magnifica, evocativa e suggestiva. Una lectura dantis straordinaria tra la preghiera laica e il teatro dei miti. In cui i fratelli Latilla portano in scena nuovamente Dante con il loro ultimo “L’amor che move il sole l’altre stelle”. Un evento teatrale svoltosi nello scenario prestigioso dell’auditorium Sergio Preti nella loro Fondi il 15 dicembre alle ore 20:30. Compiendo quel percorso di valorizzazione ed interpretazione artistica del sommo poeta che riesce a raccontarlo tramite una recitazione soprannaturale, misteriosa e sciamanica. Uno spettacolo che fa suscitare nello spettatore l’estasi del numinoso, ovvero una nostalgia e immersione totale nelle parole immortali della Divina commedia, trasformando le vicende di Ulisse, Virgilio e del Dante Pellegrino non soltanto una re-citazione sterile, che cerca di divulgare o citare pezzi dell’opera dantesca, ma che invece riesce ad evocarlo, a fare di ogni canto una apparizione, una caduta, un’epifania. Riuscendo a mostrare attraverso le letture e i commenti di Francesco Latilla a continuare quel modo di confrontarsi con i classici che non cerca di attualizzarli e quindi banalizzarli, come fanno molti sedicenti curatori, ma che li assalta, li sfida, trascinandoli fuori dall’oblio del tempo, dalle sofisticazioni della critica, facendo tremare e inquietare lo spettatore, che assiste ad una possessione artistica. Ad una apparizione attoriale, degna dei maestri dei fratelli Latilla, da Bene a Capolicchio. Continuando il loro percorso sulle orme di Dante Alighieri che già li ha portati a grandi trionfi, uno dei quali il premio a Francesco come miglior interprete al Festival Dantesco a Roma. “Il fine dello spettacolo” commentano i fratelli : “è quello di rievocare il fantasmagorico universo dantesco, il cui viaggio conduce lo spettatore in un’altra dimensione, verso la luce o addirittura alle stelle.” Inoltre la lettura si avvale di importantissimi brani d’opera dei prestigiosi compositori che hanno segnato la storia della musica, facendo immergere il pubblico tra i tre mondi dell’oltretomba, partendo dall’Inferno per giungere in Paradiso, dove è possibile sostare all’ombra di Dio e passando quindi per una carovana tempestosa fatta di santi, diavoli, eroi, angeli. Una opera lirica in prosa tra i requiem antartici del canto di Ulisse, alle overture sacrali del purgatorio, fino alle elevazioni degli inni sacri a cospetto dell’empireo. L’evento, contenuto nel programma natalizio del comune di “Fondi Restart Christmas Edition”, è organizzato da La Cinearte Produzioni in collaborazione con l’associazione Xenia. A cui ha seguito una degustazione dantesca il cui vino è stato offerto dall’ Azienda agricola D’Ausilio. Il coordinamento dell’evento è stato curato da Michela di Meola. In “L’amor che move il sole l’altre stelle” i fratelli Latilla hanno eseguito un recital apocrifo ed espressionista tra i quattro modi di morire in versi di Carmelo Bene e le suggestioni che hanno animato il crepuscolo degli dei. Mostrando un modo di rinascere in versi, l’aurora del divino.