Archivi tag: FRANCESCO SUBIACO

Oltre la Giudea: Maurizio Grossi tra racconti del mare, pinse napoletane, tradizioni e amor di patria

– Francesco Latilla, Francesco Subiaco

“La cucina è amore, passione verso cui bisogna dedicare sé stessi fino alla fine, utilizzando delle ottime materie prime e studiando moltissimo. Poi, quando i clienti arrivano in una serata addirittura a divorare più di tre pizze capisci che questo mestiere, se fatto bene, è qualcosa di magico. È un’arte a tutti gli effetti. Una volta addirittura un mio amico americano che lavora come produttore televisivo mi ha soprannominato: dottore di cucina. Quest’ultimo ogni anno passa tutto il tempo a sognare il nostro tiramisù per venirselo poi a gustare durante l’estate.”

Su Maurizio Grossi non c’è che dire. È un fuoriclasse della pizza. Napoletano doc, fondano acquisito, l’artista Maurizio porta avanti la propria attività “La Giudea” da oltre vent’anni nel celebre quartiere ebraico all’interno del centro storico di Fondi. Sull’originalità e il buon gusto che lo caratterizzano non vi sono dubbi, come non sorge alcun dubbio quando presenta sé stesso e l’arte culinaria italica in questo modo: “Mi ritengo un tradizionalista, un nazionalista. Sono convinto che sul cibo non ci supera nessuno in tutto il mondo.” Conosciuto ormai da tempo per i piatti e soprattutto per le leggendarie pizze che lo hanno portato a grandi trionfi nazionali, egli è anche e soprattutto un esperto di vino tant’è vero che possiede un’enoteca proprio di fronte al ristorante. Un’enoteca in cui una volta entrati ci si immerge in una moltitudine di vini provenienti da tutta Italia. “La passione per il vino mi ha spinto a creare un’enoteca proprio qui di fronte in cui conserviamo vini e bollicine esclusivamente italiani. Poi mi sono interessato anche al mondo della birra, sempre italiana, prodotta da ragazzi italiani che in diverse zone della penisola producono dei prodotti davvero molto buoni. Devo ammettere che i bordeaux, i vini rossi francesi, possiedono una marcia in più ai nostri ma riguardo alle bollicine siamo noi italiani a dare le sberle ai francesi a suon di Franciacorta e non solo.” Per l’intervista ci ospita di pomeriggio, quando nel vicolo non si ode alcun rumore e le pietre delle antiche case lì accanto donano un senso arcaico e di pace. Appena entrati veniamo accolti da Maurizio che brandisce del pane caldo appena sfornato, del prosciutto crudo e dell’ottimo vino. Ci sediamo a tavola e comincia la sua immersione nei ricordi, partendo dagli albori e facendoci innamorare delle immagini che la nostra mente delinea grazie al minuzioso e articolato racconto.

“La passione l’ho avuta sin da bambino per via di alcuni parenti che lavoravano già nel campo, uno zio a Latina e un altro in Liguria e ricordo che l’estate partivo con la mia famiglia e andavo ad aiutarli e così credo sia nata l’infarinatura di quel che poi si è rivelato il mio percorso, il mio mestiere. Una volta conclusi gli studi nelle scuole medie decisi di intraprendere l’Istituto Alberghiero in quel di Napoli, ad Ottaviano per essere esatti. Così scelsi il corso di sala bar e dato che avevo la passione per la pizza venni fortunatamente richiesto come pizzaiolo presso il lago di Bolsena, avevo quindici anni, era il mio primo lavoro e il fatto che a differenza dei miei compagni io gudagnavo un milione era una cosa bella perché si trattava di un bel budget per un ragazzo dell’epoca e sicuramente potevi usufruirne durante l’inverno. L’anno successivo, il proprietario mi richiamò aggiungendo altri soldi alla mia paga facendo maturare in me la gioia nel tornare a lavorare. Qualche tempo dopo vennero a scuola gli ispettori del famoso Club Méditerranée   per selezionare dei ragazzi da far lavorare in uno dei loro villaggi sparsi in tutto il mondo. Io fui scelto e andai a Corfù, in Grecia, dovendomi abbassare un po’ lo stipendio ma tanto ero affascinato dall’esperienza all’estero che non mi importava molto di guadagnare di meno e poi era magnifico il fatto di poter incontrare culture diverse e parlare lingue che non mi appartenevano. Fu un’esperienza strepitosa, ebbi la fortuna di confrontarmi con persone provenienti da tutta Europa. Voglio precisare che a pranzo mi occupavo di cucinare la pasta italiana da servire ai tavoli, un piatto molto semplice ma efficace per la bontà, e la sera ero nominato responsabile dell’angolo ristorante dove servivamo carpaccio, spaghetti al pomodoro e pizza. Il quarto anno invece capitai a Roccaraso, ero già maggiorenne, poi fece un’esperienza al centro di Parma adiacente il Teatro Regio e poi tra la fine dell’89 e l’inizio del ’90 mi trovai a Fondi per via di situazioni sentimentali e decisi di restare in questa splendida cittadina. Dopo qualche esperienza da dipendente, nel giro di pochissimo riuscii ad aprire con alcuni amici un American Bar. Creammo questo locale con il forno a legna e io lo gestii fino al 1997 ed infine, dopo alcuni anni di pausa, ebbi un’illuminazione. Ero tra i vicoli del centro storico fondano e capii che avrei potuto aprire un ristorante proprio tra questi scorci e donando così anche qualcosa di buono alla città. Adesso sono passati tanti anni dall’apertura avvenuta nel novembre 2001, pochi mesi prima che entrasse l’euro, e adesso siamo nella bella stagione del 2022 e nonostante i due anni sofferti per la pandemia siamo ancora qui e credo proprio di aver vinto la scommessa che assieme alla mia compagna mi ero preposto sin dall’inizio. Poi sono sempre aperto a nuove sfide, frequento diverse manifestazioni e gare legate al mio ambito proprio perché mi permettono conoscere gente nuova e di proporre i miei prodotti artigianali. Sottolineo l’artigianalità verso cui siamo estremamente legati in virtù del fatto che secondo il mio pensiero acqua, farina, sale e lievito sono la base per creare qualcosa di buono, come la semplicità della pasta aglio olio e peperoncino. Semplicità, ricerche delle materie prime sempre accurata, attenzione metodica ad ogni impasto sono fondamentali per questo mestiere. Non sono interessato a produrre delle pizze “commerciali” legate solo al guadagno ma voglio invece pensare alla salute dei miei clienti e quindi cerco di stare al passo coi tempi trovando il modo di poter accontentarli nonostante le diverse problematiche alimentari di molti.” L’arte di Maurizio è frammentata dai sapori della terra italiana, la storia locale e il desiderio di portare in alto il nome di questa città che ha dato i natali a grandi figure della cultura del ‘900 come il poeta Libero De Libero, il pittore Domenico Purificato, il produttore cinematografico Giovanni Addessi e i fratelli Giuseppe e Pasqualino De Santis, rispettivamente regista e autore della fotografia. Frequentata da turisti provenienti da ogni parte del mondo, “La Giudea” è un luogo caratteristico perfetto se si ha voglia di provare una pizza che abbia le caratteristiche a metà tra Napoli e Roma, proprio come la città stessa, che prende il nome di “Pinsa napoletana”. Inoltre, questo per il nostro pizzaiolo è un periodo importante grazie alle sue apparizioni in importanti manifestazioni come quella organizzata sulla nave da crociera MSC dal titolo “Navigando con gusto” attraverso cui ha girato il Mediterraneo partendo da Napoli e passando per Genova, Marsiglia e così via. Maurizio in quell’ occasione   ha seguito dei corsi sulla pizza assieme a degli altri concorrenti e poi, a Genova, ognuno di loro ha presentato una propria pizza con i condimenti che erano stati messi a disposizione per l’evento e si è classificato quarto su 59 partecipanti. Poi ha partecipato ad un format televisivo dal titolo “Piazza talent show” dove è stato selezionato tra le 10 pizzerie migliori del centro Italia, così come vi erano 10 del sud e 10 del nord, un programma ad eliminazione in cui si è posizionato sesto in classifica. Infine, un’ulteriore prova dell’ormai irrefrenabile successo che sta ottenendo la troviamo grazie a “Mistery box pizza” un format che si tiene in Campania e che è molto seguito. 

Maurizio, alla domanda: Cosa pensi dell’idea di alcuni paesi dell’UE riguardo ai prodotti alimentari da controllare mediante un semaforo che possa rilevare il grado di nocività alla salute? Risponde da buon intenditore che più di qualunque cosa ama il proprio mestiere e le proprie pietanze che tratta come opere sacre.

“Su queste dinamiche mi incazzo tantissimo. Come dicevo, io sono per il made in Italy totale e quindi per me queste assurdità non hanno senso, soprattutto perché non hanno fondamenta. Il mio motto è: Mangia italiano, bevi italiano, ama l’Italia. Sono più che nazionalista e sul cibo non ammetto che venga imposta qualcosa che non combacia con la nostra cultura, tradizione solo per accordi. Penso che ogni paese debba occuparsi del proprio cibo valorizzandolo al massimo, così come qualunque altro aspetto della propria identità nazionale. Ad esempio, in Olanda sono bravi a coltivare i fiori e continuino a fare questo senza provare a distruggere la mozzarella, i prosciutti o il pomodoro. Stessa cosa vale per altri paesi come la Cina. L’eccellenza del cibo l’abbiamo noi e che ci lasciassero produrre il nostro cibo come vogliamo, alla nostra maniera.”

Insomma, la chiacchierata con lui sembra essere più un’intervista un racconto narrato come nell’antichità da figure chiavi dei borghi e probabilmente, in questo maledetto tempo in cui stiamo percorrendo quel viaggio chiamato vita, le parole di quest’artista della cucina suonano come un esempio per riprendere confidenza con la semplicità e con la bellezza del quotidiano. “Nulla è più importante di vivere una bella vita tranquilla e gustando i piatti di una sana cucina accompagnati con del buon vino e un dolce a fine pasto condito di risate, chiacchiere tra amici e nulla più.”

L’educazione senti/mentale di Bianca Bellova

– Francesco Subiaco

La letteratura ceca non è solo il fantasma asburgico e cupo del genio di Franz Kafka, che peraltro scriveva in tedesco. È il languore, la banalità del male che avvolge il protagonista de Il bruciacadaveri, il genio faustiano e proibito dello scienziato alchimista Prokop nato dalla penna del Dostoevskij della fantascienza Karel Capek, sono i dolciumi raminghi che si scambiano famiglie separate prima di riscoprire la propria lontananza ne “I tedeschi”. Un’idea di letteratura visionaria capace di fondere umorismo nero e dolore autentico, gli abissi dell’animo umano ed un gusto grottesco e surreale che seduce il lettore e gli dà l’incanto di aver trovato un continente di sogni, pane per secoli di letteratura ancora da consumare. È la genialità che accompagna i testi che compongono la collana Novalna della Miraggi edizioni di Fabio Mendolicchio. Una collana nata per raccontare i maestri segreti della letteratura ceca, che prende il nome da quella Nouvelle vague permanente che fu la “nuova onda” che colpì la cultura del blocco orientale dopo la primavera di Praga, e che vuole mostrare i migliori frutti di quelle innovazioni, visioni e suggestioni che accompagnano le opere dei vari Capek, Katalpa e soprattutto dei testi di una grande scrittrice contemporanea come Bianca Bellova. Bianca Bellova non è una scrittrice convenzionale, che si nutre di storie banali e stereotipate, che consolano e lusingano il lettore con uno stile standard, insignificante e pavido, come molti altri scrittori nati negli anni 70. La Bellova è un’autrice che ha una voce, un groviglio di simboli, parole, descrizioni che rendono ogni sua pagina unica, autentica, personale e che riesce a realizzare anche in una descrizione comune ciò che tanti scrittori cercano di straordinario in anni di lavoro e carriera. Per questo lode a Miraggi per aver presentato al lettore italiano tre perle della produzione di questa scrittrice ceca: “Il lago”, “Mona” e soprattutto “Romanzo senti/mentale”. Tre testi che indagano la durezza dell’esistenza, la solitudine, gli abissi inesplorati dell’animo umano con l’ intensità di chi sa trasformare un minuto estremamente intenso in una fugace eternità. Romanzi sospesi, di deserti sentimentali e storie grottesche. Tra questi Romanzo senti/mentale si presenta come un testo profondamente diverso dai successivi, un esordio che già mantiene le aspettative che garantiranno il successo dei testi successivi della Bellova, nonostante alcune divergenze ed originalità. Questa storia, che non ha nulla di melenso e sentimentale nel senso spicciolo, è la storia di due ragazzi cechi Eda e Nina, che vivono in un mondo che si è risvegliato durante la rivoluzione di velluto che ha portato la fine del regime comunista, rappresentato dalla figura sciagurata del padre di Eda. Eda e Nina non sono però innamorati, sono uniti da un legame diverso segnato e consolidato dall’assenza di quella che può essere definita la vera protagonista di questo romanzo:Elitska. Elitska è una di quelle donne che non sembrano persone, bensì atmosfere, la cui assenza ingombrante contamina le vite di questi personaggi, come uno spettro infesta una casa stregata. Sorella di Nina e amata di Eda, la sua morte, comunicata fin dalle prime pagine del romanzo, sarà il motore di questo lungo racconto a due voci dove la sorella e l’amato la ricorderanno, alluderanno e mostreranno in quelle splendide ventiquattro ore che copriranno l’arco della narrazione. Dalla casa mausoleo in cui le tazze e i cimeli della defunta vengono tenuti come oggetti sacri, un po villa stregata un po reliquiario, al difficile rapporto tra Eda ed il padre, stupratore perverso e insensibile, fino al ritrovamento del diario perduto ma centrale nelle vicende dei protagonisti, della defunta Elitska, Bianca Bellova ricostruisce un abisso luminoso in cui anche le dense centotrenta pagine del suo romanzo sembrano fughe letterarie da migliaia di pagine, come sottolinea la traduttrice Laura Angeloni, formando un testo straordinario che permette di iniziare un viaggio verso il mondo della sua autrice, da cui non si vorrebbe tornare mai più.

EDWARD LUTTWAK E LA LOGICA PARADOSSALE DELLA GUERRA

– Francesco Subiaco

La guerra non è un pranzo di gala o un sistema matematico, razionale e coerente, ma è il regno del paradosso, dell’imprevisto, dell’irrazionale. Per questo l’unica logica lungimirante e capace di concepire una visione strategica coerente e concreta è quella paradossale, quella che nell’assurdo che infesta i campi di battaglia è capace di cogliere le regole contraddittorie della guerra. È la visione portata avanti da Edward Luttwak, consigliere strategico per la politica estera della Casa Bianca ed economista di fama mondiale, che nei suoi saggi sulla strategia, sulle logiche delle grandi potenze della storia ha esposto una visione della geopolitica unica capace di spiegare ed interpretare il cambiamento degli equilibri dopo la fine della guerra fredda, la crisi e le sfide degli stati nazionali, l’analisi geoeconomica di un mondo complesso che dalla ritirata della globalizzazione alle tensioni tra Occidente ed autocrazie sta facendo saltare tutte le categorie “corrette” della scienza strategica. Una visione che non smette di ricordarci che la politica non è altro che una sublimazione della guerra con altri mezzi.

Professor Luttwak, l’Europa in questi anni si è dimostrata un continente ” erbivoro” e gli Stati Uniti ancora riescono nel loro tentativo di rimanere la “Republique imperiale” descritta da Aron?

Raymond Aron scrisse la Republique imperiale ai tempi della prima guerra fredda, di fronte alla crisi degli Stati europei dopo la seconda guerra mondiale, in un contesto in cui gli Stati Uniti svolgevano una funzione di sostegno e aiuto ad essi, massimizzando lo sviluppo economico di questi paesi assicurando delle possibilità di sviluppo, come l’accesso al petrolio a prezzi favorevoli, per garantire la ricostruzione dell’Europa. Permettendo agli europei di passare da essere sudditi delle autocrazie a alleati delle democrazie e dell’Occidente. Un processo che l’Italia, a differenza di alcuni Stati europei come la Francia, ha faticato ad intraprendere, per una certa vicinanza ad ideologie totalitarie presenti al suo interno, e che ha difficoltà ad intraprendere tuttora, come mostra la vicinanza e il sostegno di alcune frange del paese alla Russia di Putin. La visione statunitense però non è una visione colonialr poiché ha sempre favorito il passaggio dalla sudditanza delle autocrazie alla visione di libertà dell’alleanza atlantica, che è il contrario dell’imperialismo e che ha visto sempre nell’ottica imperiale una debolezza, mentre gli americani hanno una vocazione verso l’autonomia e la libertà dei popoli che è poi lo spirito della Nato

La guerra in Ucraina sta facendo riscoprire all’occidente i suoi valori e come valuta la gestione degli Stati europei di questa crisi internazionale?

La guerra in Ucraina ha mostrato la profonda differenza tra la guerra in paesi del terzo mondo, sottosviluppati e divisi in tribù, e quella verso un paese europeo, armato e difeso da patrioti che vogliono combattere per la propria nazione, una differenza che ha caratterizzato le profonde difficoltà dei russi durante l’invasione dell’Ucraina. Oggi l’Ucraina sta ricordando agli ufficiali russi, che forse se lo sono dimenticato, che le nazioni europee di fronte ad una guerra reagiscono in maniera opposta di stati come l’Afghanistan, combattendo e reagendo unitariamente ad un conflitto, come è sempre accaduto nella storia europea.

La guerra è secondo lei una costante della storia dei popoli?

Certamente, infatti, l’Europa, per restare in tema, è sempre stata caratterizzata dalla guerra nella sua storia, ed il ciclo di distruzione creatrice che la accompagna è insita nello sviluppo dei popoli. Gli UOMINI  “amano” la guerra COME LE DONNE AMANO I GUERRIERI , non è un caso che tutte LE GUERRE DELLA STORIA , escluse le due guerre mondiali FENOMENI DI STATALISMO, , siano state fatte da volontari, che hanno aderito ad esse, che hanno spontaneamente deciso di partecipare ad esse. La distruzione portata dai campi di battaglia ha sempre portato ad una risposta  demografica su cui si è articolata la ricostruzione accelerata delle nazioni coinvolte nei conflitti bellici. Dal 1945 in poi questa dinamica di guerra e ricostruzione, è stata interrotta per varie ragioni. Il nucleare, ad esempio, ha cambiato per sempre il volto della guerra convenzionale e la presenza di questo stravolgimento è un fenomeno fondamentale anche nella guerra in Ucraina. Il nucleare in Ucraina pregiudica profondamente le possibilità degli eserciti in gioco limitando profondamente le opzioni dei paesi belligeranti. Oltre al nucleare un altro elemento di cambiamento introdotto dopo il 45 è l’emersione di una cultura post bellica che è insostenibile. Tutti i gruppi sociali ed individuali orientati al pacifismo sono demograficamente deboli e culturalmente stanno scomparendo, come possono mostrare le statistiche sulla fertilità nei paesi più orientati al conflitto e non. Dobbiamo capire che la civiltà occidentale è stata orientata alla guerra come fenomeno incidentale, in cui piccoli stati tra loro rivali hanno generato un fenomeno di concorrenza e conflitti che ha segnato lo sviluppo dei popoli europei, mentre nei paesi orientali, dominati da grandi spazi caratterizzati da imperi secolari si è sviluppato un fenomeno di “grande letargia”. Gli Stati europei invece erano più bellicosi ed energicamente più fertili, affinati dallo scontro e dalla concorrenza hanno invece creato un dominio planetario nell’ottocento derivato dal loro spirito concorrenziale e belligerante, opposto all’immobilismo ottomano o cinese, che ne ha garantito la potenza e lo sviluppo. Quelle energie possono essere orientare solo dalla libertà e non dall’immobilismo di un dittatore.

La crisi internazionale portata dalla guerra in Ucraina segna la fine della globalizzazione e della mondialità occidentale ?

È sicuro che anche nel momento in cui stiamo registrando questa intervista tutti i paesi, di fronte alla crisi del modello di commercio globale, gli agenti economici e statali stanno cercando di ridurre la loro interdipendenza, causando una ritirata della globalizzazione. Come sta accadendo con la Russia e con la Cina, dove sta avvenendo una evacuazione delle grandi aziende dalle loro economie, poiché si è capito che è irresponsabile proiettare grandi investimenti in paesi autocratici guidati da amministrazioni arbitrarie che un giorno parlano, pensiamo alla Cina ad esempio, di una MEGA AZIENDA  del calibro di Alibaba, come una minaccia ed il giorno seguente come una risorsa

Secondo lei la Cina lancia una sfida, molto più sottile di quella dell’URSS all’occidente, l’egemonia invisibile di Pechino e il suo neoimperialismo come stanno cambiando il volto dei rapporti di forza nell’occidente?

No no la Cina lancia all’occidente una sfida molto naif, provincialissima ed antiquata, pregiudicata da una ideologia storica che li illude di essere una grande potenza strategica, quando invece sono una nazione che nonostante l’ampia mitografia nazionale, ha subito sempre le conseguenze delle proprie scelte sbagliate in politica estera e che se non ci fossero stati gli americani oggi sarebbe ancora sotto la dittatura militare giapponese. Essi sono capacissimi in ogni settore meno che la guerra, infatti con l’Ucraina, hanno mostrato la loro totale dipendenza commerciale dalle altre nazioni. Mentre i russi e gli americani sono autosufficienti sia dal punto di vista energetico sia dal punto di vista alimentare, infatti dopo il G7, hanno smesso di parlare di invadere Taiwan.

In questo scenario la Turchia che ruolo chiave sta svolgendo?

I turchi sono un popolo che è in parte europeo ed in parte imperialista, che sta subendo con Erdogan una lunga fase di arretratezza fatta di chiusure e proclami assurdi, come quando hanno provato ad intimidire Israele e poi sono dovuti andare a Canossa per le loro pessime scelte. Credo che invece i turchi con una guida diversa, determinata da una amministrazione più “europea” potranno invece riscattare anni di errori strategici e strutturali, tornando protagonisti, dopo le farse degli esperimenti diplomatici di Erdogan di questi mesi.

Che libro consiglierebbe per comprendere il presente?

Consiglio il mio libro sulla logica della strategia poiché la vera logica della guerra è la logica paradossale. La guerra è implicitamente paradosso. Pensiamo al presente: la Nato è debole e per questo le autocrazie la attaccano, ma questo attacco non fa altro che consolidarne le fondamenta. Uno dei tanti paradossi tipici della guerra.

 

 

 

IL 2 GIUGNO, LA NOSTRA DATA STORICA

– Francesco Subiaco

Il 2 giugno è una data storica per la tradizione mazziniana, poiché non segna solo il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, come sancito a seguito del referendum del 1946, ma rappresenta, soprattutto, l’inizio di una educazione nazionale, di una pedagogia morale basata sulla democrazia e sui valori della Costituzione, l’inizio di un cammino democratico e popolare che è il cuore pulsante del repubblicanesimo. Una ricorrenza che i repubblicani romani hanno voluto celebrare sulla terrazza del Gianicolo di fronte al muro della Costituzione della Repubblica Romana. All’evento, organizzato dall’unione Romana del Partito Repubblicano Italiano e dal segretario Michele Polini, erano presenti, Andrea d’Angelo (Responsabile relazioni Esterne PRI Roma),  Marco Cappa (Coordinatore Romano Italia Viva), Francesca Leoncini (Consigliere Comunale Italia Viva), l’Ambasciatore Bulgaro in Italia Todor Stoyanov ed una delegazione dei repubblicani romani e dell’ambasciata bulgara. Durante la celebrazione della festa della Repubblica il segretario Polini ha ribadito l’importanza dei valori costituzionali e la centralità del ruolo dei principi repubblicani per lo sviluppo democratico del paese. Il segretario ha poi aggiunto che: “L’iniziativa di oggi sancisce ancora una volta la volontà e l’impegno del popolo italiano nel perseguire e mantenere vivi i valori della Costituzione e della Repubblica, che affondano i loro principi nelle idee della Repubblica Romana. Celebrando il 2 giugno gli italiani mostrano di voler onorare quei principi sui cui si fonda la nostra Costituzione e che sono il cardine della Repubblica”. Dopo la celebrazione dei valori patriottici costituzionali la delegazione repubblicana in collaborazione con l’ambasciatore bulgaro Todor Stoyanov, hanno ricordato, di fronte alla statua del rivoluzionario laico bulgaro Petko Kirjakov Vojvoda, i combattenti garibaldini per l’indipendenza dei popoli, unendosi nella comune vicinanza negli ideali fondati su democrazia e libertà, che hanno una comune radice nelle visioni del risorgimento. Ideali universali che a distanza di anni da quel fatidico 1849, fanno ancora sventolare la bandiera dell’edera u un’Italia unitamente repubblicana

IL’IN L’ANIMA NERA DEL NEOZARISMO

– Francesco Subiaco

Ripreso da “Il Borghese Giovani”

Ivan Il’in è il compagno segreto della Russia post-sovietica, l’ideologo postumo dell’era neozarista che incarna e anticipa le idee e le strategie di una delle più importanti autocrazie del 21°secolo. Ma chi è Il’in e perché viene considerato dai media il maestro oscuro di Putin? Per rispondere a questa domanda occorre leggere e rileggere più volte il saggio dello storico americano Timothy Snyder: “Ivan Il’in. Il filosofo del neozarismo di Putin”. Un testo breve, ma denso di spunti, di illuminazioni sul presente e sull’eresia controrivoluzionaria di questo filosofo irregolare del Novecento che oggi sta diventando la verità di una nuova Russia, autocratica ed imperiale, che sta riscrivendo il nostro presente. Il testo, portato per la prima volta in Italia grazie ad Andrea Lombardi ed alla sua ITALIA STORICA, è un’analisi delle idee del pensatore moscovita e della sua influenza, certificata e dichiarata più volte, nella dottrina dell’amministrazione Putin. Snyder analizza il pensiero iliniano mostrandone l’evoluzione e i riferimenti, ricostruendo una genealogia della nuova morale russa. Il’in, infatti, non è un filosofo riassumibile in facili etichette, ma è il frutto più anomalo dell’idealismo tedesco, della teologia ortodossa e delle idee dei maestri del sospetto, Freud soprattutto, che si combinano in una visione che si prefigura come il massimo compimento dello spirito delle truppe Bianche, controrivoluzionarie e reazionarie, che hanno animato la guerra civile russa. Mettendo Dio sul lettino della psicanalisi elabora una filosofia della storia apocalittica, dove il vero peccato originale è la creazione del mondo da parte del divino, trasformando la dialettica hegeliana e l’autocoscienza dello Spirito in un cammino di redenzione degli uomini per salvare il proprio creatore. Un cammino riservato solo a pochi data la natura oscura e debole dell’umanità, che sceglie solo pochi uomini eccezionali capaci di guidare un popolo eletto, quello russo, dotato di una santa ingenuità che fornisce la grazia dal peccato originale della creazione. Il mondo per Il’in è una sciagura, un vizio assurdo, creato da un Dio ancora ingenuo, che ha condannato l’uomo ad una esistenza insensata tramite una vita sedotta dal peccato, che più viene conosciuta dall’individuo più lo corrompe. Una visione teologica politica che affida agli eroi il compito di condurre le masse verso un eden terreno, come è stato con il fascismo di Mussolini in Italia secondo il filosofo russo, che attraverso una visione decisionista può superare il baratro della dannazione, portato dalle ideologie moderne e dalla borghesia, riconducendo la società non ad un insieme di classi, o ad una comunità, bensì ad una totalità organica, un organismo spirituale in lotta contro la corruzione delle ideologie sataniche della modernità e le illusioni di un materialismo, soprattutto comunista che ha cacciato Dio dal mondo. Una visione messianica e spiritualista, nettamente autocratica ed antioccidentale, che ha trionfato nella Russia post eltsiniana, diventando l’ideologia russa per eccellenza, avendo influenzato filosofi come Dugin, scrittori come Solzenicyn, politici come Medved e Putin. Questi ultimi che oltre a citare spesso Il’in ne hanno diffuso il pensiero nelle istituzioni della Federazione Russa e nella società civile, trasformandolo in un precursore del putinismo e delle campagne panslaviste che hanno portato alla guerra in Ucraina. Un’influenza che rende necessaria la lettura e la conoscenza di questo filosofo che ha plasmato per sempre le sorti di una Russia che si sente ancora erede di quello spirito Bianco che non si è estinto dopo la nascita dei soviet ed anzi gli è sopravvissuto.  

DIALOGO CON CARLO GALLI SUL ROMANTICISMO POLITICO

– Francesco Subiaco

Confrontarsi col romanticismo in Germania non vuol dire solo indagare un movimento artistico e culturale, o affrontare una tappa fondamentale della propria coscienza nazionale, ma profanare le radici di una identità che nelle figure di Novalis, Holderlin o Schlegel non ha solo dei maestri, dei pilastri, ma degli archetipi culturali. Per questo la critica fatta dal giurista tedesco Carl Schmitt nel suo “Romanticismo politico”, del 1919 da poco ripubblicato per IL MULINO, non è solo una incursione letteraria del pensatore politico più controverso del Novecento, bensì deve essere letta come una resa dei conti filosofica con l’ideologia tedesca per antonomasia e con la patologia europea per eccellenza, poiché nel movimento romantico non si nasconde solo la premessa culturale che ha fatto della Germania l’Amleto d’Europa e che può essere considerata la matrice primigenia del liberalismo, ma il principale sintomo dell’instabilità portata dalla modernità che ha realizzato con la realtà un rapporto poetico e per questo irreale. Una necrologia della morale razionalista e liberale, che ha fatto del romanticismo il suo compagno segreto, dove Carl Schmitt decodifica i lineamenti fondamentali delle nuove ideologie delle lacrime, in cui l’uomo si rifugia incapace di affrontare il baratro dell’eccezione, consolandosi con la parola, a cui l’autore oppone una via nuova, figlia delle riflessioni dei controrivoluzionari, che tramite la decisione vuole indicare la strada per oltrepassare l’abisso del nichilismo, immergendovisi. Un testo capitale da affiancare al Tramonto dell’occidente di Oswald Spengler e alle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, per capire la crisi del paradigma positivista-parlamentarista che ha condizionato il primo Novecento. Per comprendere meglio un testo così controverso e tagliente abbiamo intervistato il professor Carlo Galli, autore della prefazione e della curatela di Romanticismo politico. Carlo Galli, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Si è occupato di storia del pensiero politico, pubblicando articoli e libri tra gli altri su Machiavelli, Hobbes, Platone, Schmitt. È direttore responsabile della rivista “Filosofia Politica”; Dal 2006 al 2012 è stato presidente del consiglio editoriale della casa editrice il Mulino. Dal 2008 al 2012 è stato presidente della classe di Scienze Morali dell’Accademia delle Scienze di Bologna. Dal 2009 al 2022 è stato presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna. Ha ideato e dirige numerose collane scientifiche presso editori come il Mulino e Laterza. Ha partecipato a convegni e seminari in diverse Università europee, statunitensi e sudamericane. Ha diretto l’Enciclopedia del pensiero politico (Roma – Bari, Laterza, 2000, II ed. 2005). Collabora con periodici culturali e politici in Italia e all’estero, ed è editorialista politico per alcuni dei più importanti quotidiani nazionali. Dal 2018 fa parte del Comitato direttivo dell’Associazione di cultura e politica “il Mulino”. Galli, tra i massimi pensatori del nostro tempo, ha scritto pagine straordinarie su Schmitt, indagandone l’opera e l’idea, come nessun altro, attraverso considerazioni definitive che lo rendono la voce più lucida ed acuta della nostra cultura accademica.

Professor Galli, che cos’è il romanticismo per Schmitt?  Può essere definito spenglerianamente una ideologia delle lacrime che estrania l’uomo dal rapporto con la realtà?

Romanticismo politico è un libro pubblicato nel 1919 che segna il passaggio di Schmitt dalla sua fase giovanile a quella matura: è di poco successivo al saggio su Daübler, e tuttavia prepara sia La dittatura del 1921 sia Teologia politica del 1922. Il romanticismo di cui parla Schmitt non è un termine metaforico né uno qualsiasi dei movimenti che hanno attraversato la storia tedesca, ma per la cultura tedesca è un passaggio decisivo e una bandiera culturale nazionale che ha influenzato artisticamente, filosoficamente e culturalmente l’Ottocento e la prima parte del Novecento, e che si configura come un momento fondamentale per capire l’ideologia tedesca. Il saggio schmittiano prende per oggetto nello specifico Adam Müller, un romantico minore rispetto a un Novalis, a uno Schlegel o un Kleist, e ha come tesi di fondo l’idea che il romanticismo non possa essere capito a partire dall’oggetto romanticizzato, ma può essere decifrato attraverso il soggetto romanticizzante. Per Schmitt il romanticismo è una patologia intellettuale del soggetto moderno che, sradicato dall’ ordine dell’essere, è divenuto, libero e fluttuante, e che oltre ad aver perduto ogni radicamento è incapace di crearne uno nuovo. Il soggetto moderno, nonostante sia caratterizzato dall’autonomia da un ordine tradizionale, è anche segnato dalla pretesa di essere capace di   trovare punti di riferimento solidi che lo rendono in grado di creare un ordine nuovo razionale che abbia al centro il soggetto – singolo o collettivo: individuo, nazione, classe –. Per Schmitt, il soggetto romantico non ha solo ha reciso il suo radicamento con l’ordine tradizionale, ma non è capace di creare un ordine nuovo perché ha perduto per sempre il contatto con la realtà, poiché con essa ha un rapporto “irreale”, ovvero un rapporto “lirico”, “occasionale”, che dissolve la realtà oggettiva trasformandola in emozione. Non è in grado di istituire un rapporto ordinativo concreto tra il soggetto e l’oggetto perché è un soggetto dilatato all’infinito, che in virtù di questa dilatazione, che lo illude di essere un superuomo, è infinitamente passivo perché non tocca mai la realtà: la sua pretesa di essere signore e superiore ad ogni ostacolo reale che faccia resistenza alla capacità poetica del soggetto di trasformando il mondo in poesia, dissolvendolo fa del soggetto romantico il portatore non del Logos, ma di un vaniloquio che fa ruotare la realtà attorno ad esso, parodiandola e distorcendola, che rovescia la sua ambizione in impotenza. Il soggetto moderno è capace solo di creare “emozioni di accompagnamento”, che accompagnano la storia senza vederla o capirla. Esso ha un rapporto occasionale con la realtà, che non vede e concepisce nella sua durezza, potenza, pregnanza, ma solo come un mezzo per la romanticizzazione del mondo e come una occasione per la produzione di una attività lirica. E’ una tesi diversa da quella di Spengler: il problema non è che il soggetto sia in lacrime, ma ciò che è problematico è l’essenza stessa del soggetto e del suo rapporto col mondo.

Quale è il bersaglio e il significato di questa immersione di Schmitt nel romanticismo e quali sono le caratteristiche di questa cecità metafisica che contamina la modernità ed ha nel romanticismo la sua massima rappresentazione?

Questa incursione nel territorio della letteratura ha per Schmitt una valenza giuridica, metafisica e politica, perché il romanticismo è strutturalmente analogo al liberalismo. Schmitt vede nel liberalismo la pretesa che il soggetto libero sia capace di creare ordine politico attraverso “la parola”: non una parola lirica, ma quella delle discussioni parlamentari (a cui dedicherà il suo saggio fortunatissimo sul Parlamentarismo del 1923), ovvero lo stesso errore che compiono i romantici. Tra queste due visioni esiste una identità strutturale, che si basa sull’idea di un soggetto libero che crede di istituire un rapporto con l’oggetto (per il liberalismo, con la politica) tramite una modalità di mediazione “logica”, e per questo non è capace di produrre nessun ordine. La borghesia, cioè i liberali, sono politicamente ineffettuali, una clasa discutidora, come diceva Donoso Cortés, capace solo di discutere. Riprendendo il pensiero controrivoluzionario Schmitt afferma che il romanticismo come il liberalismo non è in grado di afferrare il corso della storia, non ha capacità di porre in collegamento il soggetto e l’oggetto: il soggetto crede di elevarsi sopra l’oggetto, mentre in realtà perde l’oggetto perché non conosce la struttura complessiva dell’essere – che può essere colta solo con l’entrare nell’eccezione attraverso la decisione –. Quella struttura che per i controrivoluzionari è piena (la loro è una metafisica fondativa) per Schmitt è vuota: la modernità ha perso per sempre il fondamento e l’ordine politico può emergere solo dall’abisso della eccezione, attraverso la decisione sovrana orientata a scopi politici concreti, a creare un ordine determinato. I liberali, per Schmitt, non comprendono questo dato strutturale perché vedono il rapporto tra soggetto e oggetto mediato linearmente dalla parola umana, mentre, in realtà, quel rapporto è assolutamente accidentato e scabroso

Quanto nel controrivoluzionario Schmitt è presente un carattere romantico modernista che lo rende il primo vero decostruttore del pensiero giuridico?

I romantici perdono il rapporto con l’oggetto perché sono centrati sul soggetto, in una tautologia senza via d’uscita: il soggetto romantico non sa andare oltre se stesso, e pensa che la poeticizzazione del mondo equivalga a controllare il mondo. Schmitt, invece, non pensa che l’ordine politico possa essere il prodotto della parola, ovvero del contratto originario (come nel liberalismo costruttivistico) e della parola del parlamento (come nel liberalismo parlamentaristico). Non crede ciò non perché sia un controrivoluzionario fondamentalista ma anzi perché pensa che la parola non possa superare l’abisso dell’eccezione di cui è costituita la realtà: solo la decisione lo può, non la poesia né la discussione.  Ma il nesso eccezione/decisione può essere efficace ma è privo di intrinseca certezza: è necessariamente contingente, perché non deriva da un razionale rapporto di causa ed effetto. Il soggetto decidente – il sovrano – instaura con l’ordine che crea un rapporto di indeterminatezza oltre che di determinazione. Non è detto che il soggetto A tramite la decisione possa produrre solo l’ordine A, ma può creare anche gli ordini B, C, D, poiché tra il soggetto e l’oggetto non si stende un substrato ontologico fondativo, conoscibile per causas: non esiste nulla. Si può arrivare all’ordine in molti modi tramite la decisione, e sono tutti ordini contingenti: per questo il decisionismo è intrinsecamente nichilista. L’analogia fra Schmitt e i romantici – da lui aborrita e rifiutata, ma subito vista da molti – sta nel fatto che anche per Schmitt fra il soggetto e l’oggetto non esista una relazione basata sul razionalismo. L’ordine non nasce dalla ragione, dalla mediazione razionale, ma dal conflitto, dall’eccezione, cioè dall’abisso dell’inimicizia, dal rapporto amico-nemico. E questa origine non è esterna all’ordine, ma rimane al suo interno, lo destabilizza mentre lo stabilizza. L’ordine contiene la propria negazione e il proprio nemico, perché l’ordine è contenuto nel grande negativo della modernità. Gli ordini non affrancano dal disordine, ma lo portano sempre con sé poiché sono ordini contingenti, e quindi, in sostanza, sono ordini mortali. E soprattutto orientati: e ciò significa che il diritto perde la propria presunta certezza: gli ordini giuridici hanno una opacità originaria al loro interno che li orienta. Il fatto che per lui il diritto sia sempre orientato spiega perché Schmitt fu fedele all’impero, alla repubblica di Weimar, al nazismo e, se glielo avessero permesso, anche alla repubblica federale: il diritto è una costruzione occasionale, e non ha in sé nulla di assoluto e di certo.  Il “romanticismo” di Schmitt sta, quindi, nel fatto che il rapporto tra il soggetto e l’oggetto (l’ordinamento) è non razionale, ma politico ovvero è una decisione attorno all’eccezione, attorno a quella suprema contingenza che è il rapporto amico-nemico contingenza: certo, per i romantici quel rapporto è “lirico” e non ha la mortale serietà che ha per Schmitt, eppure in entrambi i casi quel rapporto non ha fondamento. Come per il romantico ogni cosa è frutto di una romanticizzazione, per Schmitt ogni ordinamento è la conseguenza di una decisione, due idee diverse che producono lo stesso effetto di insicurezza ed instabilità.

Che rapporto c’è tra Schmitt e Benjamin su romanticismo e politica?

Tra la fine degli anni Dieci e l’inizio dei Venti non è un rapporto personale, né di conoscenza reciproca, nonostante ci sia una convergenza strepitosa. La principale affinità tra Benjamin e Schmitt sta nel sostenere che il metodo con cui si pensa sia un metodo estremistico e non di normalità razionalistica: sono entrambi interni al collasso del positivismo. Quando Benjamin scrive, nel 1920, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, pur non conoscendo affatto Schmitt dice cose analoghe, ma con un significato opposto. Mentre per l’autore di Romanticismo politico il romantico nella sua intelligenza fluttuante e nella sua fluidità, capace di vincere le leggi della logica, è un perdente perché crede di essere attivo ma in realtà è passivo perché non riesce a toccare la realtà, per Benjamin proprio la capacità romantica di evadere dalla gabbia del razionalismo rende il romantico portatore di una istanza di rottura, capace di non soggiacere alle regole di questo mondo. Benjamin vede nel romanticismo la capacità di accedere a una ermeneutica assoluta e a una interpretazione infinita della polisemia del reale: il romantico fa esplodere la realtà, non vedendola in modo limitato, determinato, ma anzi facendo emergere le infinite ulteriori possibilità che la ragione moderna ha neutralizzato.  La forza della critica romantica, per Benjamin, destabilizza il reale attraverso la sovrabbondanza dei significati e delle possibilità mentre per Schmitt la debolezza del romanticismo sta proprio nel perdersi in questa pretesa di sovrabbondanza e nel non saper vedere la minacciosa e nichilistica serietà della realtà. E quindi dall’analisi del romanticismo esce per Schmitt un moto ordinativo, mentre da parte di Benjamin esce un moto sovversivo, rivoluzionario.

Lo Zibaldone di Delfini

– Francesco Subiaco

Antonio Delfini è una anomalia italiana, una mina vagante di genialità ed inventiva stupidamente racchiusa nelle misere etichette di “irregolare”, di “imperdonabile”, che non fanno altro che pitturare il volto di questo autore unico di una patina di snobismo che non ne restituisce affatto l’originalità. Delfini fu, infatti, un caleidoscopio artistico di virtuosismi letterari e funamboliche piroette stilistiche, capaci di racchiudere nella sua opera le liriche apocalittiche delle “Poesie della fine del mondo”, con la critica prussica e corrosiva del “Manifesto per un partito conservatore e comunista italiano”, fino agli splendidi “Racconti” in cui le avanguardie e le retroguardie si incontrano in novelle sfavillanti tra surrealismo, malinconia e fantasmagoria. Un corpus che ha come sua vetta massima un testo a metà tra lo Zibaldone ed un subconscio letterario, in cui Delfini dimostra di non essere un autore di riserva capace di esprimere solo emozioni di accompagnamento, ma crea una rapsodia di esperimenti, di inquietudini, di sismografie dell’epoca: I Diari (Einaudi). Con i Diari Delfini realizza il suo capolavoro letterario, una esplosione stilistica di aforismi, appunti, poesie e resoconti che scavano il secolo, entrano nei sotterranei dell’animo umano, e soprattutto di quello del suo autore. Un “giornale” alla maniera di Gide e dei Gouncourt, che diventa anche il compagno segreto della metamorfosi dall’Italia fascista a quella dell’antifascismo, tra le adunate oceaniche di Rossoni e le riflessioni disincantate del 1944 sulla fine del fascismo. Una confessione intima, una cronaca dei tempi, uno Zibaldone visionario e surrealista con cui Delfini lascia un biglietto postumo per entrare nella grande letteratura e che dopo le operazioni della Ginzburg è ora presente in una veste nuova, più autentica e rispettosa dell’originale che può fare immergere il lettore nei miraggi e nelle stoccate di questi “giornali” di un atipico della letteratura che sa essere perfido, spietato, malinconico, umano, inquieto. Un caleidoscopio di umanità che fa emerge in ogni frase e nota il ritratto inimmaginabile degli stati coscienti dell’anima del suo autore (Il pensiero è profezia e ricordo. La vita è avvenire e passato. La vita non è mai presente. Il presente non è mai.), della sua ironia tagliente e impietosa (Sono stato promosso servo della gleba (questo è il progresso)),  della sua voce libera contro le ipocrisie del tempo e le leggende della politica («si sono buttati a togliere dall’interno i vecchi pezzi (Re, Statuto, garanzie umanitarie ottocentesche) e si sono messi a ripulire e raddrizzare le sventole del totalitarismo»). Un personaggio unico che torna dopo anno di assenza a raccontare “che il mistero in realtà è la nostra vita contemporanea”.

Il taccuino segreto di Gombrowicz

– Francesco Subiaco

Il diario è un modo unico di confessarsi, di mostrarsi istrionicamente in tutti i propri mille volti, mischiando ricordi e commenti, annotazioni e pettegolezzi. Tutto in questa forma appare intimo, unico, introspettivo e per questo falso e montato. La maggior parte degli scrittori non sceglie il diario per confessarsi, ma per esporsi, per mostrarsi. Modellando la realtà alla luce di un unico grande personaggio-narratore che diventa poi il protagonista assoluto come autore e maschera delle storie che infestano questi taccuini. Un esempio sono i diari di Renard, di Prezzolini, in cui questi autori esplodono in tutta la loro genialità riuscendo ad essere interessanti, ma non sinceri, a volte. Lo scrittore, anche quando redige un diario, rimane sempre un artefice ed un mentitore, che plasma la realtà per non subirne la scomodità, omettendo peccati, piccolezze e desideri inconfessabili. Così i grandi autori malati di ambizioni liriche, curano e allevano piccole reliquie di carta che venerano e illuminano, di segreti, di paure, di ombre, di pensieri illeciti. È il caso su tutti del tacchino segreto di Pavese, in cui l’impoliticità e le ombre della propria anima si contaminano con una rappresentazione incoffessabile della guerra civile. Ma è soprattutto il caso di Witold Gombrowicz e del suo “Kronos”(Il Saggiatore). Kronos non è solo un taccuino proibito, è un tempo ritrovato proustiano costruito per frammenti, una avventura autobiografica e retrospettiva di immagini, ricordi ed visioni del suo autore protagonista. Gombrowicz m questo testo mostra i suoi lati più intimi e proibiti dalla bisessualità alla politica, dal disincanto verso l’animo umano al backstage della letteratura che ha permesso i suoi libri. Un testo geniali in cui il maestro polacco autore di Ferdydurke e Transatlantico scrive un sotterraneo segreto della sua anima che completa ed integra il Diario precedente, diventandone l compagno segreto ed inconfessabile.Il diario è un modo unico di confessarsi, di mostrarsi istrionicamente in tutti i propri mille volti, mischiando ricordi e commenti, annotazioni e pettegolezzi. Tutto in questa forma appare intimo, unico, introspettivo e per questo falso e montato. La maggior parte degli scrittori non sceglie il diario per confessarsi, ma per esporsi, per mostrarsi. Modellando la realtà alla luce di un unico grande personaggio-narratore che diventa poi il protagonista assoluto come autore e maschera delle storie che infestano questi taccuini. Un esempio sono i diari di Renard, di Prezzolini, in cui questi autori esplodono in tutta la loro genialità riuscendo ad essere interessanti, ma non sinceri, a volte. Lo scrittore, anche quando redige un diario, rimane sempre un artefice ed un mentitore, che plasma la realtà per non subirne la scomodità, omettendo peccati, piccolezze e desideri inconfessabili. Così i grandi autori malati di ambizioni liriche, curano e allevano piccole reliquie di carta che venerano e illuminano, di segreti, di paure, di ombre, di pensieri illeciti. È il caso su tutti del tacchino segreto di Pavese, in cui l’impoliticità e le ombre della propria anima si contaminano con una rappresentazione incoffessabile della guerra civile. Ma è soprattutto il caso di Witold Gombrowicz e del suo “Kronos”(Il Saggiatore). Kronos non è solo un taccuino proibito, è un tempo ritrovato proustiano costruito per frammenti, una avventura autobiografica e retrospettiva di immagini, ricordi ed visioni del suo autore protagonista. Gombrowicz m questo testo mostra i suoi lati più intimi e proibiti dalla bisessualità alla politica, dal disincanto verso l’animo umano al backstage della letteratura che ha permesso i suoi libri. Un testo geniali in cui il maestro polacco autore di Ferdydurke e Transatlantico scrive un sotterraneo segreto della sua anima che completa ed integra il Diario precedente, diventandone l compagno segreto ed inconfessabile.