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Oltre la Giudea: Maurizio Grossi tra racconti del mare, pinse napoletane, tradizioni e amor di patria

– Francesco Latilla, Francesco Subiaco

“La cucina è amore, passione verso cui bisogna dedicare sé stessi fino alla fine, utilizzando delle ottime materie prime e studiando moltissimo. Poi, quando i clienti arrivano in una serata addirittura a divorare più di tre pizze capisci che questo mestiere, se fatto bene, è qualcosa di magico. È un’arte a tutti gli effetti. Una volta addirittura un mio amico americano che lavora come produttore televisivo mi ha soprannominato: dottore di cucina. Quest’ultimo ogni anno passa tutto il tempo a sognare il nostro tiramisù per venirselo poi a gustare durante l’estate.”

Su Maurizio Grossi non c’è che dire. È un fuoriclasse della pizza. Napoletano doc, fondano acquisito, l’artista Maurizio porta avanti la propria attività “La Giudea” da oltre vent’anni nel celebre quartiere ebraico all’interno del centro storico di Fondi. Sull’originalità e il buon gusto che lo caratterizzano non vi sono dubbi, come non sorge alcun dubbio quando presenta sé stesso e l’arte culinaria italica in questo modo: “Mi ritengo un tradizionalista, un nazionalista. Sono convinto che sul cibo non ci supera nessuno in tutto il mondo.” Conosciuto ormai da tempo per i piatti e soprattutto per le leggendarie pizze che lo hanno portato a grandi trionfi nazionali, egli è anche e soprattutto un esperto di vino tant’è vero che possiede un’enoteca proprio di fronte al ristorante. Un’enoteca in cui una volta entrati ci si immerge in una moltitudine di vini provenienti da tutta Italia. “La passione per il vino mi ha spinto a creare un’enoteca proprio qui di fronte in cui conserviamo vini e bollicine esclusivamente italiani. Poi mi sono interessato anche al mondo della birra, sempre italiana, prodotta da ragazzi italiani che in diverse zone della penisola producono dei prodotti davvero molto buoni. Devo ammettere che i bordeaux, i vini rossi francesi, possiedono una marcia in più ai nostri ma riguardo alle bollicine siamo noi italiani a dare le sberle ai francesi a suon di Franciacorta e non solo.” Per l’intervista ci ospita di pomeriggio, quando nel vicolo non si ode alcun rumore e le pietre delle antiche case lì accanto donano un senso arcaico e di pace. Appena entrati veniamo accolti da Maurizio che brandisce del pane caldo appena sfornato, del prosciutto crudo e dell’ottimo vino. Ci sediamo a tavola e comincia la sua immersione nei ricordi, partendo dagli albori e facendoci innamorare delle immagini che la nostra mente delinea grazie al minuzioso e articolato racconto.

“La passione l’ho avuta sin da bambino per via di alcuni parenti che lavoravano già nel campo, uno zio a Latina e un altro in Liguria e ricordo che l’estate partivo con la mia famiglia e andavo ad aiutarli e così credo sia nata l’infarinatura di quel che poi si è rivelato il mio percorso, il mio mestiere. Una volta conclusi gli studi nelle scuole medie decisi di intraprendere l’Istituto Alberghiero in quel di Napoli, ad Ottaviano per essere esatti. Così scelsi il corso di sala bar e dato che avevo la passione per la pizza venni fortunatamente richiesto come pizzaiolo presso il lago di Bolsena, avevo quindici anni, era il mio primo lavoro e il fatto che a differenza dei miei compagni io gudagnavo un milione era una cosa bella perché si trattava di un bel budget per un ragazzo dell’epoca e sicuramente potevi usufruirne durante l’inverno. L’anno successivo, il proprietario mi richiamò aggiungendo altri soldi alla mia paga facendo maturare in me la gioia nel tornare a lavorare. Qualche tempo dopo vennero a scuola gli ispettori del famoso Club Méditerranée   per selezionare dei ragazzi da far lavorare in uno dei loro villaggi sparsi in tutto il mondo. Io fui scelto e andai a Corfù, in Grecia, dovendomi abbassare un po’ lo stipendio ma tanto ero affascinato dall’esperienza all’estero che non mi importava molto di guadagnare di meno e poi era magnifico il fatto di poter incontrare culture diverse e parlare lingue che non mi appartenevano. Fu un’esperienza strepitosa, ebbi la fortuna di confrontarmi con persone provenienti da tutta Europa. Voglio precisare che a pranzo mi occupavo di cucinare la pasta italiana da servire ai tavoli, un piatto molto semplice ma efficace per la bontà, e la sera ero nominato responsabile dell’angolo ristorante dove servivamo carpaccio, spaghetti al pomodoro e pizza. Il quarto anno invece capitai a Roccaraso, ero già maggiorenne, poi fece un’esperienza al centro di Parma adiacente il Teatro Regio e poi tra la fine dell’89 e l’inizio del ’90 mi trovai a Fondi per via di situazioni sentimentali e decisi di restare in questa splendida cittadina. Dopo qualche esperienza da dipendente, nel giro di pochissimo riuscii ad aprire con alcuni amici un American Bar. Creammo questo locale con il forno a legna e io lo gestii fino al 1997 ed infine, dopo alcuni anni di pausa, ebbi un’illuminazione. Ero tra i vicoli del centro storico fondano e capii che avrei potuto aprire un ristorante proprio tra questi scorci e donando così anche qualcosa di buono alla città. Adesso sono passati tanti anni dall’apertura avvenuta nel novembre 2001, pochi mesi prima che entrasse l’euro, e adesso siamo nella bella stagione del 2022 e nonostante i due anni sofferti per la pandemia siamo ancora qui e credo proprio di aver vinto la scommessa che assieme alla mia compagna mi ero preposto sin dall’inizio. Poi sono sempre aperto a nuove sfide, frequento diverse manifestazioni e gare legate al mio ambito proprio perché mi permettono conoscere gente nuova e di proporre i miei prodotti artigianali. Sottolineo l’artigianalità verso cui siamo estremamente legati in virtù del fatto che secondo il mio pensiero acqua, farina, sale e lievito sono la base per creare qualcosa di buono, come la semplicità della pasta aglio olio e peperoncino. Semplicità, ricerche delle materie prime sempre accurata, attenzione metodica ad ogni impasto sono fondamentali per questo mestiere. Non sono interessato a produrre delle pizze “commerciali” legate solo al guadagno ma voglio invece pensare alla salute dei miei clienti e quindi cerco di stare al passo coi tempi trovando il modo di poter accontentarli nonostante le diverse problematiche alimentari di molti.” L’arte di Maurizio è frammentata dai sapori della terra italiana, la storia locale e il desiderio di portare in alto il nome di questa città che ha dato i natali a grandi figure della cultura del ‘900 come il poeta Libero De Libero, il pittore Domenico Purificato, il produttore cinematografico Giovanni Addessi e i fratelli Giuseppe e Pasqualino De Santis, rispettivamente regista e autore della fotografia. Frequentata da turisti provenienti da ogni parte del mondo, “La Giudea” è un luogo caratteristico perfetto se si ha voglia di provare una pizza che abbia le caratteristiche a metà tra Napoli e Roma, proprio come la città stessa, che prende il nome di “Pinsa napoletana”. Inoltre, questo per il nostro pizzaiolo è un periodo importante grazie alle sue apparizioni in importanti manifestazioni come quella organizzata sulla nave da crociera MSC dal titolo “Navigando con gusto” attraverso cui ha girato il Mediterraneo partendo da Napoli e passando per Genova, Marsiglia e così via. Maurizio in quell’ occasione   ha seguito dei corsi sulla pizza assieme a degli altri concorrenti e poi, a Genova, ognuno di loro ha presentato una propria pizza con i condimenti che erano stati messi a disposizione per l’evento e si è classificato quarto su 59 partecipanti. Poi ha partecipato ad un format televisivo dal titolo “Piazza talent show” dove è stato selezionato tra le 10 pizzerie migliori del centro Italia, così come vi erano 10 del sud e 10 del nord, un programma ad eliminazione in cui si è posizionato sesto in classifica. Infine, un’ulteriore prova dell’ormai irrefrenabile successo che sta ottenendo la troviamo grazie a “Mistery box pizza” un format che si tiene in Campania e che è molto seguito. 

Maurizio, alla domanda: Cosa pensi dell’idea di alcuni paesi dell’UE riguardo ai prodotti alimentari da controllare mediante un semaforo che possa rilevare il grado di nocività alla salute? Risponde da buon intenditore che più di qualunque cosa ama il proprio mestiere e le proprie pietanze che tratta come opere sacre.

“Su queste dinamiche mi incazzo tantissimo. Come dicevo, io sono per il made in Italy totale e quindi per me queste assurdità non hanno senso, soprattutto perché non hanno fondamenta. Il mio motto è: Mangia italiano, bevi italiano, ama l’Italia. Sono più che nazionalista e sul cibo non ammetto che venga imposta qualcosa che non combacia con la nostra cultura, tradizione solo per accordi. Penso che ogni paese debba occuparsi del proprio cibo valorizzandolo al massimo, così come qualunque altro aspetto della propria identità nazionale. Ad esempio, in Olanda sono bravi a coltivare i fiori e continuino a fare questo senza provare a distruggere la mozzarella, i prosciutti o il pomodoro. Stessa cosa vale per altri paesi come la Cina. L’eccellenza del cibo l’abbiamo noi e che ci lasciassero produrre il nostro cibo come vogliamo, alla nostra maniera.”

Insomma, la chiacchierata con lui sembra essere più un’intervista un racconto narrato come nell’antichità da figure chiavi dei borghi e probabilmente, in questo maledetto tempo in cui stiamo percorrendo quel viaggio chiamato vita, le parole di quest’artista della cucina suonano come un esempio per riprendere confidenza con la semplicità e con la bellezza del quotidiano. “Nulla è più importante di vivere una bella vita tranquilla e gustando i piatti di una sana cucina accompagnati con del buon vino e un dolce a fine pasto condito di risate, chiacchiere tra amici e nulla più.”

“Intervistare gli irregolari è fondamentale per ragionare meglio”: Gianmarco Aimi e il valore dell’intervista

– Francesco Latilla

Gianmarco Aimi, tra le giovani firme più interessanti del giornalismo nostrano, è lo sguardo che fortunatamente ancora esiste in questo campo. Una penna che non si accontenta del semplice chiacchiericcio in forma d’intervista ma invece tenta di riportare alla luce la galassia interna a determinate figure strane e dalle mille contraddizioni che rispondono al sacro nome di “artisti”. Aimi si tuffa nelle storie da raccontare con la cultura e il modo di intendere l’intervista come nel passato, partendo dalla concezione di mestiere che è alla base di un lavoro artigianale come quello del giornalista, ma con uno sguardo verso il futuro e a volte anticipando i tempi. Dopo la collaborazione con Il Fatto Quotidiano arriva a scrivere per Rolling Stone e Mow. In questo nostro dialogo abbiamo cercato di cogliere gli aspetti fondamentali di una sana intervista e cosa davvero significa oggi essere un giornalista.

Perché qualcuno dovrebbe voler diventare un giornalista al giorno d’oggi?

Questa è una bella domanda. Parto col dire che sconsiglierei a tutti di fare il giornalista se non ci credono davvero, se non pensano che questo possa essere il loro lavoro, anche perché a volte diviene una missione personale. Non si tratta soltanto di un lavoro, preferisco la definizione di “mestiere” come si usava un tempo chiamare gli antichi mestieri e quindi sono legato ad una visione artigianale. Oggi tutti provano a mascherarsi da giornalista, anche coloro che in realtà non vogliono fare questo nella vita ed infatti la macchina del giornalismo la trovo ingolfata di tantissima gente e questo è dovuto anche al fatto che le testate pagano sempre meno e tutti ci provano, anche per farsi conoscere. C’è anche chi svolge un altro lavoro nella vita e per passione si dedica alla scrittura giornalistica. Diciamo che i veri giornalisti sono coloro che cercano di andare oltre lo scrivere semplicemente per esserci, per apparire, insomma si tratta più di un lavoro di ricerca che tenta di fornire diverse chiavi di lettura al pubblico. È un lavoro che non ha a che fare col marketing e lo sconsiglio perché oggi è abbastanza difficile riuscire ad avere una retribuzione che possa mantenere te ed una eventuale famiglia ma dall’altro lato per me si tratta del lavoro più bello del mondo.

Scrivi per testate importanti e hai intervistato personalità influenti e diverse tra loro. Qual è stata l’intervista che più ti ha reso soddisfatto?

Sicuramente quella a Piergiorgio Bellocchio per “L’inchiesta” che risale ad alcuni anni fa. Prendo questa come riferimento perché trovo che ci sia proprio tutto ciò che io desidero da un’intervista ossia un personaggio da (ri)scoprire, una figura non appartenente al mainstream e che magari è stato accantonato per tanti motivi. Poi facendola dal vivo ed essendo entrambi piacentini ho potuto scavare meglio proprio perché ci siamo trovati su una stessa linea d’onda. Infine, dato che si tratta di una delle prime interviste svolte in uno stile approfondito, senza tener conto del numero di battute, riportando il dialogo come un flusso di coscienza tra me e lui, è sicuramente quella che ricordo con più affetto.

Cosa ricerchi attraverso un’intervista?

Ad un certo punto della mia vita mi sono trovato senza lavoro perché ha chiuso la radio per cui lavoravo e si è interrotta la mia collaborazione con “Il Fatto Quotidiano”. Siccome era tanto forte la mia voglia di tornare nel giornalismo ho incontrato dei personaggi e partendo da semplici chiacchierate sono venute fuori delle nuove interviste. Per cui mi sono accorto che non si diventa artisti per caso o perché lo si vuole ma invece lo si è a causa di vite particolari, di scelte che sono state fatte prima di creare un’opera e quindi la mia ambizione sta nel tirare fuori dalla loro memoria la genesi della loro creatività e delle relative opere. Cerco di scavare nella personalità dell’intervistato, artisti per la maggior parte, per tirare fuori quel che davvero sono queste figure da un punto di vista personale. Un tempo si cercava di fare delle interviste per mostrare qualcosa di originale della figura in questione studiandola a fondo prima di tutto, sia la vita che le opere. Oggi si è perso un po’ questo modo di concepire le interviste, forse per il fatto che ormai tutto deve essere veloce e pronto per il giorno dopo o addirittura un’ora dopo. Per quanto mi riguarda posso dire di aver recuperato lo spirito del passato e quindi di valorizzare l’intervista come genere giornalistico.

Spesso i personaggi da te intervistati sono degli irregolari, dei politicamente scorretti come il già citato Massimo Fini ma anche Morgan, Isabella Santacroce, Stefano Bonaga, Enrico Ruggeri, Giovanni Lindo Ferretti. In un’era stracolma di presunti buoni, quanto serve invece essere dalla parte sbagliata?

Credo sia fondamentale per riuscire a ragionare bene. Anni fa mi sono accorto che leggere i giornali o le testate online che la pensavano come me, seguire soltanto i personaggi che erano del mio mondo non mi dava più nulla e allora ho cominciato a cercare figure che potevano pensarla diversamente da me e con i quali potevo anche trovarmi in disaccordo e devo dire che tutto ciò mi ha arricchito. Ho cercato personaggi scorretti, controversi, controcorrente che dessero a me e soprattutto al lettore delle chiavi di lettura originali sul mondo e credo sia stata una grossa crescita dal mio punto di vista.  MI hanno anche portato molta fortuna facendomi ritornare nel giornalismo. Insomma, posso dire che uscire dai soliti schemi ha pagato sia per un mio interesse personale, tornare a divertirmi con quello che era il mio lavoro primario, e anche per i lettori che sono rimasti stupiti ed hanno apprezzato il mio modo di introdursi nelle storie. La mia ricerca è nel riscoprire coloro che sono usciti dal grande mercato oppure portare alla luce qualcuno di nuovo, anticipando i tempi, come la filosofa Ilaria Gasparri la cui intervista è stata la più letta di Rolling Stone per vari giorni o Mattia Tarantino, un poeta giovanissimo che ho paragonato a Rimbaud. Il contemporaneo è importante per me però sento che è già troppo abusato da chi giornalmente fa un lavoro standard.

Quali sono i lampi di genio che possono venir fuori dal dialogo con uno di questi personaggi?

Guarda, io in realtà non li definirei neanche personaggi perché altrimenti li confonderei con quelli televisivi che puntano solo all’immagine. Invece li chiamo per quello che sono, artisti. Dialogando con loro ti accorgi che non riuscirai mai a delineare un vero profilo, sono come un fiume che scorre, li incontri un giorno e credi che in trentamila battute riesci a coglierne tutte le sfumature ma poi li ritrovi l’anno dopo e cambiano tutto. Sono in completa trasformazione, certe volte non sono neanche d’accordo con quanto hanno detto qualche mese prima addirittura. Per quanto riguarda Morgan, credo sia uno degli artisti più originali non solo dal punto di vista musicale ma anche perché ad ogni domanda di qualunque argomento riesce a spiazzati per la sua cultura, infatti penso anche che sia molto sottovalutato. Devo dire che gli artisti veri sono persone scoperte, perché si spogliano completamente a differenza delle star televisive e non hanno paura di raccontare determinati passaggi della loro vita. Citando Aurelio Picca, un grande scrittore che ho intervistato, è come se gli artisti avessero una ferita che tutti possono vedere ma che li nobilita e non li rende fragili ma più veri.

Un tuo ricordo di Antonio Pennacchi?

Quando ho saputo della sua scomparsa mi sono davvero commosso perché l’intervista che gli feci fu molto particolare. Nel lavoro del giornalista servono tanti fattori tra cui l’intuito nel capire quando scrivere di una determina cosa o di una persona. Non appena venni a sapere che sarebbe uscito il suo nuovo libro “La strada del mare” proposi un’intervista e il suo ufficio stampa non mi fece sapere nulla e non so perché. Allora sono andato sulle pagine bianche, ho trovato il numero del telefono di casa sua e l’ho chiamato. Di questa storia mi ha stupito il fatto che ho sentito di dovergli fare quell’intervista e dopo un mese è scomparso e quello che mi ha toccato di più è che lui dopo tanti anni di successi nella letteratura, dopo il Premio Strega, sognava ancora di notte i suoi compagni di fabbrica. In fondo è rimasto fino alla fine quell’operaio lì, incazzato.

 

La Svizzera, il teatro, il covid: Simone Ganser e la sua satira tagliente

– Francesco Latilla

Simone Ganser è un giovane attore svizzero di origini italo-tedesche. Diplomatosi all’accademia Teatro Dimitri, il nostro Ganser ha intrapreso la via della recitazione come atto fisico associata al movimento clownesco e alla danza  e così è cominciato il suo interessante percorso nel nuovo teatro di matrice svizzera coronato già da importanti traguardi. Egli però deve la sua notorietà alla serie di video a sfondo satirico sulle contraddizioni della gestione dell’emergenza covid nel mondo ed in particolar modo in Italia, riprendendo così le sue radici tricolori.

Cos’ha rappresentato il teatro nella tua vita?

Bella domanda. Il teatro nella mia vita ha rappresentato inizialmente una valvola di sfogo ed ho cominciato a studiare recitazione piuttosto tardi. Il mio sogno sin da bambino era fare il pilota di aerei, ho sempre voluto fare quello, poi per un problema alla vista ho dovuto abbandonare l’idea di poter continuare a livello professionale. Sicuramente diventerò pilota ma più di brevetti privati, tra poco inizierò il corso di brevetto di volo a vela. Il teatro invece mi accompagna da quando ho quattordici anni, quando mi iscrissi  a dei corsi serali più che altro per divertirmi e lavorare su me stesso. Intanto facevo la maturità artistica come pittore di scenari in cui ho studiato quattro anni per dipingere scenografie teatrali e quindi lavorare già sul palcoscenico, anche se dietro le quinte, mi aveva già fatto capire come funzionava quel mondo ma la cosa che più mi affascinava era il rapporto dell’attore col personaggio. Così ho capito che questo era ciò che volevo davvero fare nella vita e non appena ho finito gli studi scolastici ho progettato una lista di accademie di teatro con i relativi esami d’ammissione e la prima all’appello, per una questione di date, era l’Accademia Teatro Dimitri che inizialmente avevo addirittura snobbato per la sua natura di teatralità corporea, diciamo molto legata al clownesco e alla danza. Sono stato scelto ed una volta entrato me ne sono perdutamente innamorato, sono rimasto folgorato da quella concezione di teatro basato sulla fisicità, sul corpo. Così ho preferito continuare a studiare teatro attraverso questa visione così anti-realistica e lavorare sulla recitazione meno enfatica e alla ricerca della naturalezza e del realismo attraverso la macchina da presa e avendo così due poli totalmente diversi e che non si incontrano per niente. Sono stati i tre anni più belli della mia vita e mi hanno permesso di innamorarmi totalmente del mio lavoro, grazie anche al fatto che ho partecipato per due anni di fila ad un concorso internazionale di teatro a Zurigo ed ho vinto in entrambi i casi dove mi sono state date delle borse di studio ed è stato un bel riconoscimento per tutto il percorso che ho fatto. Ho concluso il mio percorso formativo col massimo dei voti e ne sono uscito nel migliore dei modi. Poi è arrivato il covid…

Comunque, voglio precisare una cosa. Sono  sempre stato empaticamente vicino alla figura di Fabrizio De André, tant’è vero che la mia tesi di fine accademia la feci proprio su di lui dato che bisognava scegliere un personaggio a piacere. Però non ho rappresentato sue canzoni ma ho preso invece ispirazione su ciò che di lui più mi affascinava di più, il suo avvicinamento all’emarginato, al mal visto. Quello che amo di lui è il contrasto che si crea tra il ritmo apparentemente allegro delle sue ballate e il dramma del testo che portava su carta, spostando così  il punto di vista e mostrando coloro che meno vengono rappresentati attraverso la musica. Allora ho agito come lui, ho preso un fatto di cronaca di una donna che era stata sgozzata incinta di gemelli ed ho basato tutto il mio atto unico teatrale sul punto di vista dei gemelli nella pancia, raccontando  come hanno vissuto questo passaggio dalla non-vita, ma che cos’è poi la vita?, alla morte assoluta. Quindi i gemelli sono passati direttamente ad un altro mondo senza accedere per l’intervallo della cosiddetta vita vissuta.

Attraverso l’arte è possibile raccontare i dilemmi dell’uomo nella società. A tal proposito, quando hai avvertito l’esigenza di dedicarti alla satira?

In realtà nasce per caso. Ero arrivato al limite e avevo voglia di denunciare la situazione sull’emergenza covid facendo dei video nel mio piccolo, poi però mi sono chiesto: “Come posso utilizzare le mie capacità attoriali per fornire un piccolo contributo agli altri, per far ragionare le persone?” e così ho cominciato ed il mio profilo instagram improvvisamente è cambiato e dai pochi più di mille follower che avevo sono arrivato oltre i diecimila. Il mio scopo, se così lo posso definire, è semplicemente quello di far fare delle domande agli altri, dare un punto su cui porsi un quesito senza cercare di dare risposte precise anche perché non sono un medico e non ho competenze scientifiche, voglio soltanto che le persone si chiedano cosa stia succedendo. Non ho mai aderito alla campagna d’odio verso cui ci hanno portato, con questo disgusto per il prossimo in base alle sue scelte mediche, creando cittadini di serie A e cittadini di serie B. Direi che dopo due anni di martellamento mediatico continuo, sia arrivato il momento che qualcuno si esponga e ci metta la faccia, e siccome io ho la faccia come il culo mi sono detto che non mi interessa il giudizio negativo che sicuramente arriverà da qualcuno, non m’importa delle critiche, e se le mie tesi dovessero risultare sbagliate sarò il primo a constatarlo ma finora il mio pensiero mi ha condotto alla conclusione che vi sia un problema di fondo ed è il seguire ciò che ci viene detto senza farci due domande prima. Il fatto che questi miei semplici video mi abbiamo portato a fare quest’intervista con te, come altre che sto facendo, sta a significare che non sono l’unico a porsi queste domande ma semplicemente sono uno di quei qualcuno che hanno coraggio a mostrarsi.

Da giovane lavoratore dello spettacolo come valuti la situazione culturale che sta trapassando, negli ultimi anni, la tanto amata penisola?

È una tragedia greca. Chiaramente è tra i settori più colpiti e poi il teatro vive di pubblico e senza di esso è difficile andare in scena. Qui in Svizzera i teatri hanno riaperto già alcuni mesi fa però nell’aria c’è un’ostinata paura del contagio che fa in modo che il pubblico vada a vedere soltanto i grandi nomi, dove improvvisamente il covid cessa di esistere, e invece coloro che ci rimettono sono sempre le piccole produzioni di nicchia. Poi io parlo soprattutto per quanto riguarda la mia esperienza svizzera, per l’Italia non saprei dire cose certe.

“Raccontare il paradosso del contemporaneo”: Pubble e la satira controcorrente

– Francesco Latilla, Francesco Subiaco, Gianmarco Latilla

 “La satira ci rende fieri, come se ci riconoscesse uno stato civile artistico, un diploma che ci sollevi dalla mediocrità e dal grigiore delle parti secondarie.” E. Flaiano

Da sempre la satira ha dimostrato di essere uno degli antidoti contro il potere egemone della politica e per questo osteggiato dalle forze dominanti, le quali tendono ad offuscare la totalità delle cose proprio per condurre l’opinione pubblica verso il proprio fronte e potenziando il proprio consenso. Nei nostri giorni non è da considerarsi facile  voler dissacrare la realtà che viviamo dato l’eccessiva crescita di un avversione nei confronti dell’ironia e del paradosso. Per questo le figure come “Pubble”, pseudonimo di Paola Ceccantoni, sono necessarie. La sua visione artistica nasce dall’amore per i grandi autori dell’antichità,  come Giovenale e Marziale, e dal voler analizzare gli aspetti più profondi del contemporaneo attraverso una pungente ironia che tende sempre ad un’altra trincea, senza mai cadere nel banale compiacimento partitico.

Le tue vignette riescono a cogliere il paradosso delle vicende odierne, mostrando una cruda realtà a colpi di satira. Da dove credi che nascano le contraddizioni dei nostri tempi?

Allora, le contraddizioni del nostro tempo nascono dalla tecnologia sicuramente. Il fatto di essere estremamente esposti su un piano tecnologico che è evidente che non sappiamo gestire sicuramente mette in luce l’incapacità di saper comunicare attraverso questo sistema. Insomma, non abbiamo più una sana comunicazione perché effettivamente comunichiamo soltanto attraverso i social e per cui diviene sempre più difficile confrontarsi di persona ed ecco quindi che i toni dei dibattiti online sono eccessivamente esaltati. Inoltre vi è l’enorme problema dell’essere convinti di voler fare tutto nel bene e nel giusto, quando in realtà la nostra via per la giustizia è lastricata di una moltitudine di contraddizioni. La politica in tutto ciò dimostra ormai di essere un sistema morto e ciò crea nell’individuo confusione perché non vi sono più figure che possano dare sicurezza ed infatti questo genera anche la diffidenza da parte dei giovani.

Eppure, se un tempo vi erano degli artisti come Flaiano, Kafka, Pirandello o altri che attraverso situazioni paradossali mostravano i lati nascosti dell’uomo, oggi paradossalmente neanche più un Woody Allen potrebbe giocare secondo quelle regole perché la società stessa è divenuta una barzelletta..

Esatto. Credo che ad ogni modo, come detto poc’anzi, il problema sorga dalla comunicazione. Il fatto è che se uno volesse, attraverso il paradosso, instaurare un rapporto comunicativo efficace cadrebbe vittima di censure, banner, ciò che si può dire o non dire ed è per questo che diventa sempre più difficile in virtù delle regole che determinano la comunicazione delle cose. Quindi bisognerebbe esprimere il paradosso di una società nei termini che sono imposti da quella stessa società. Ad esempio, spesso mi viene detto che la mia critica avviene comunque attraverso uno strumento del potere, Facebook ad esempio, ma il problema è proprio quello di non poter uscire da determinati schemi imposti e al massimo ci si può infilare nei buchi neri di questo sistema. Probabilmente solo quando avremo la forza di creare una frattura con l’arte e la comunicazione di questo tempo, probabilmente riusciremo a fare qualcosa e a creare una nuova realtà.

Cosa ne pensi dell’applicazione del politicamente corretto nella satira e secondo te quest’arte ha dei limiti? Anche quelli del buon gusto?

No. Io ho studiato archeologia e per cui sono molto impregnata della cultura classica in generale con i testi antichi e ho basato tutta la mia struttura della satira studiando Marziale, Giovenale, il Satyricon di Petronio. Quindi sono totalmente legata ad una concezione di satira priva di idoli e che quindi possa scagliarsi tranquillamente contro tutti. Se leggessimo Marziale noteremmo che egli critica la società ma prendendo per il culo il vicino di casa e quindi non vi è quel falso scrupolo perbenista del dire: “Non posso farlo perché sto attaccando una minoranza, una determinata categoria di persone ”, quindi non esiste nulla che la satira non possa dissacrare. Ad esempio, molti si scandalizzano davanti a Charlie Hebdo ma in realtà è l’unico rappresentante della satira reale in questo momento. È ovvio che io a volte non comprendo determinate scelte che vanno ben oltre il buon gusto però continuo a prenderle secondo lo schema satirico e per cui credo che il politicamente corretto applicato al linguaggio sia la morte della buona satira.

 Credi si possa essere crudeli ma divertenti oppure certe volte il divertimento deve dosare la crudeltà?

Si può essere divertenti anche essendo molto crudeli, altrimenti non esisterebbe il Black humor per esempio. Quindi credo che si importante essere ironici anche su tematiche forti ma è tutto nelle mani dell’artista e della sua sensibilità.

Quanto è difficile oggi essere controtendenza nel tuo lavoro?

Allora, la parola difficile credo sia legata soltanto a come uno recepisce il grado di difficoltà. Per me è estremamente semplice, anche perché la mia satira è spontanea, ma il problema potrebbe palesarsi qualora ci fossero degli insulti che è una cosa che mi capita spesso. Ma al di là dell’incassare parole come “bastarda” “ritardata” e così via, credo si debba possedere una fiamma vera per essere davvero controcorrente o ti adatti. Credo nella meritocrazia e credo anche che coloro che la pensano diversamente, nonostante abbiano difficoltà ad emergere, se hanno i contenuti possono farcela. Magari hanno intrapreso un sentiero più lungo ma possono comunque arrivare al traguardo.

C’è una vignetta a cui sei maggiormente legata?

Sicuramente la prima che feci in assoluto, dedicata al carabiniere Mario Cerciello Rega, fu l’inizio del progetto Pubble e la ricordo con grande affetto anche perché da lì in poi non mi sono più fermata.

 

JOSE A. FORTEA E LA SUMMA DAEMONIACA

– Francesco Subiaco – Francesco Latilla

“Il capolavoro di Satana è di aver fatto perdere le sue tracce e di aver convinto gli uomini che egli non esiste”. Si era accorto di questo successo Charles Baudelaire quando nei suoi Fiore del male, mostrò la grazia in fondo all’aberrazione, la luce nell’oscurità più buia. Il diavolo è un tema che, nel contesto di ateismo pratico della società occidentale, è ridotto ad utile trucco per stravolgere la trama di un b movie dell’orrore. Ma per il messaggio cristiano la dimensione demoniaca non è solo una favola medioevale e la possessione non è solo un relitto di un mondo passato, bensì una realtà concreta. Ne abbiamo parlato con padre Jose A. Fortea, tra i massimi teologi spagnoli, con una illustre attività da esorcista e studioso di demonologia. Fortea nel suo saggio “Summa Daemoniaca”(TRE EDITORE) ha esposto le sue tesi tramite una architettura gotica, che risale ai classici della tomistica, raccontando la dimensione di un mondo dietro a quello materiale, in cui la lotta tra il bene e il male è centrale nella vita degli uomini. Di fronte alla lettura del libro e alle parole del religioso spagnolo non possiamo non cercare di misurare i confini che separano questa branca della teologia con altre discipline, rimanendo sospesi su un giudizio definitivo su di essa, pur mantenendo un profondo interesse.

– Francesco Subiaco

Perché la scelta di questo formato “gotico” per il layout della sua “Summa daemoniaca”?

Ho scelto questa forma perché sin dai miei studi teologici sono stato un grande ammiratore di San Tommaso D’Aquino e nella stesura di questo trattato ho deciso di dargli questa forma estetica sia per la sua bellezza, sia in ossequio ai trattati dei teologi medievali della tomistica.

Cosa ne pensa dell’inconscio, il luogo della mente e delle sue voci?

Ogni persona ha delle tentazioni nella propria mente, da sacerdote e da persona credente, ho sempre guardato con scetticismo l’idea che tutte le questioni demoniache siano frutto della propria mente. Seguendo i casi di possessione, con persone di diversa posizione e con convinzioni tra loro differenti, sono sicuro che essa non solo non sia una suggestione personale, ma che soprattutto il Demonio esista. Capisco perfettamente chi non crede ad essa, ma la mia esperienza personale non mi lascia alcun dubbio.

Che confine c’è tra possessione e psichiatria? Molte volte si da una interpretazione prenaturale a fenomeni clinici?

Io credo che tutte le patologie psichiatriche semplicemente lavorino su una dimensione della persona che è distinta da quella su cui si sofferma l’esorcismo. Poiché non si può curare la schizofrenia tramite un esorcista, come non si deve confondere una patologia con una possessione. Nella possessione ci sono elementi anormali che riguardano la dimensione prenaturale dell’uomo, la sua area spirituale non materiale e carnale. Bisogna saper scindere questi due aspetti o si rischia di cadere in una duplice miopia

Cosa ne pensa della crisi spirituale in cui sta sprofondando la chiesa?

Il mio scenario è totalmente pessimista, poiché essa in occidente sta per scomparire. Negli anni 70, 80, io pensavo che i cristiani fossero una minoranza di una società atea. Oggi il cristianesimo è stato estirpato dalla società occidentale. Alla visione cristiana si è sostituita l’idolatria del consumo e del mercato, alle chiese si sostituisce il mercato e di fronte alla radicalità delle confessioni evangeliche sia diffusa una paura e una indifferenza allo spirito, nonostante ci siano molte persone che ancora cercano sinceramente il contatto col divino. Ogni uomo si trova di fronte ad un percorso ontologico che se lo seguiamo ci porterà ad esso, che non confligge con le legge fisiche. Dio è la causa, il motore immobile della realtà.

Dove finisce la demonologia e comincia la parapsicologia?

Non tutti i fenomeni extraordinari dipendono da un intervento demoniaco. Telepatia, sogni premonitori, fantasmi non hanno una causalità demoniaca, ma riguardano la parapsicologia. Il mondo dietro al mondo è abitatissimo ma dove finisce la causalità demoniaca o quella celestiale, lì inizia sempre la parapsicologia.

Perché molti sacerdoti non parlano del Diavolo?

Io li capisco perché preferiscono parlare di una dimensione positiva, capace di unire nella salvezza, ma non si può eludere una dimensione demoniaca. Il vangelo da due mila anni parla dell’esistenza del male, del demonio. Forse non dovremmo dimenticarci di questo aspetto.

Lei è stato uno dei maggiori esorcisti europei, quale caso lo ha principalmente colpita? C’è un caso che ha fatto vacillare la sua fede?

Un caso nello specifico fu quello che mi portò molti anni di attività e la collaborazione di molti sacerdoti, che abbiamo risolto dopo molto tempo nonostante fosse evidente lo stato di possessione. La mia esperienza di esorcista però non mi ha mai portato a vacillare, anzi la visione del male, della dannazione, ha più volte rafforzato la mia fede nel bene, nella salvezza.

Squartalized: Caldonazzo e Bongiorno tra cuori lacerati

– Francesco Latilla


“Il teatro e la pittura sono le mie arti preferite, perché  ti rendono una persona libera, ti creano un mondo in cui puoi esprimere ciò che è nascosto dentro di te senza i vincoli dell’apparire. Io ad esempio so per certa che attraverso di esse posso esprimere liberamente e a  360° ciò che sono, assolutamente.” Nathaly Caldonazzo è un’esploratrice dei vari mondi dell’arte. Nata showgirl all’età di 25 anni, intraprende la carriera di ballerina, diventando la “primadonna” del Bagaglino, dove rimane a lavorare per circa 4 anni. Successivamente inizia a recitare nel cinema e soprattutto nel teatro, tra classici di Moliere, Goldoni e Shakespeare. Infine, nel 2013 scopre la passione per la pittura e da lì in poi dedica tutta sé stessa a quest’arte che, attraverso uno stile orientato verso la pop-art, le dona l’occasione di parlare con un nuovo linguaggio del tema della violenza sulle donne. A Novembre è tornata sul campo con “Squartalized”, un ambizioso progetto condiviso con uno degli artisti più originali ed influenti dell’odierno panorama italiano, Vito Bongiorno, ormai conosciuto anche in nazioni estere. “Il progetto è nato parlandoci, dopo poche parole ci siamo capiti subito e abbiamo voluto unire le nostre due arti per una bella causa come questa. Un progetto interamente dedicato a quello che vuol dire subire una violenza che sia fisica ma soprattutto emotiva. Sono la stessa stregua. Il progetto racchiude dodici opere molto grandi di cui organizzeremo un’intera mostra a giugno al museo San Salvatore in Lauro a Roma e sarà quello il punto di partenza con cui vogliamo portare questo “Squartalized” in tutto il mondo.” Così la Calzonazzo getta luce sulla prodigiosa collaborazione che si sta dimostrando una delle più importanti dell’anno, sottolineando infine che:  “Quel che cerchiamo di trasmettere su tela o su metallo dipende da quello che udiamo al momento. Si tratta di un’immagine che conduce il proprio ospite nel più profondo senso della violenza, per cui le opere presenteranno toni molto accesi, colori forti e avendo sempre come punto cardine, nonché chiave di lettura primaria, un cuore maltrattato che simbolicamente è potentissimo, anche perché quella ferita si ripercuote sull’anima, sul fisico, sulla psiche. Ci teniamo a precisare che coloro i quali subiscono questo squartalized non saranno più quelli di prima, forse qualcuno ne uscirà con buoni risultati, ma tanti altri ne muoiono.” Vito Bongiorno, dal canto suo non ha di certo estromesso che questa unione ha fortificato entrambi e che l’idea da cui sono partiti è quella giusta: “Narrare lo squarcio avvenuto nell’anima del trafitto, quel dolore paralizzante che si palesa tra una manipolazione mentale, un’aggressione fisica, un’ingiustizia.” Così, Bongiorno ha ribadito che: “Si tratta di un progetto assolutamente autobiografico perché entrambi veniamo da situazioni travagliate ed entrambi abbiamo avuto una storia di violenza, quindi appena ci siamo visti è nato tutto. Io lavoro il carbone, la cenere, adopero quasi un monocolore e sono molto freddo, lei invece è stravagante, adopera molti colori. Quindi abbiamo creato una perfetta simbiosi tra il togliere da parte mia e dell’aggiungere da parte di Nathaly, e questo credo che dia esattamente la forza che vogliamo evocare tramite quel cuore lacerato.”

Il simbolismo attraverso i greci: Giovanni Grassi tra passato e futuro

Giovanni Grassi è un giovane pittore che attraverso le proprie opere mostra uno sguardo nuovo sul mito, sul classico. Allievo di un grande artista dei nostri tempi, Roberto Ferri, ha cominciato a disegnare sin da piccolo per poi dedicarsi alla pittura ad olio prevalentemente e avendo tra i propri punti chiave il Rinascimento unito ad una buona dose di Simbolismo ottocentesco e alle opere di Dalì, portando così gli eroi greci in un’ottica surrealista.

Come nasce il tuo sguardo artistico e come si è sviluppato nel tempo?

Guarda, il mio contatto con l’arte è avvenuto in tenera età dato che sono nato in casa di artisti, mio padre è un musicista e mia nonna era una ballerina. Sin da piccolo ho assaporato il mondo dell’arte, cominciando a disegnare e ad interessarmi a queste cose ma solo dopo anni, tra i quattordici e i quindici anni, ho cominciato a disegnare in maniera metodica e a frequentare una bottega di un maestro. In seguito ho frequentato il liceo artistico per poi proseguire il percorso ed interessarmi alla pittura ad olio e al disegno con matita tendente al classico. Per tendere lo sguardo a quello stile mi sono avvicinato a dei maestri che hanno saputo indirizzarmi nella strada giusta e sono stato fortunato ad avere come fari Roberto Ferri e Giorgio Dante, coloro che sono rimasti i miei punti chiave di oggi. Poi ho cominciato a maturare una mia visione che, oltre al classicismo, tende al Simbolismo ottocentesco e al Surrealismo. Queste influenze del passato cerco di metabolizzarle appieno per poi riformularle secondo uno stile personale e dandone una sfumatura moderna.

Che rapporto hai con il mondo antico?

Ne ho subìto da sempre il fascino. Amo tantissimo il Rinascimento. Poi però sono attratto anche dall’Ottocento e sono attratto dalle tecniche pittoriche del passato, ma anche dagli usi e costumi che ne delineano il tempo e la cultura. Sicuramente nei miei quadri è visibile un approccio classico appunto, legato ad una certa visione di paesaggio e figure umane che tendono ai greci e non solo.

Nei tuoi quadri si respira molto l’aria del simbolico. Tutto ciò, oltre ad un fattore estetico, è legato a metafore precise?

Assolutamente. Avverto la necessità di esprimere concetti che sento attorno a me attraverso i simboli, come vuole l’arte surrealista. Un grande maestro che trovo imprescindibile e molto vicino a me è Salvador Dalì, invece per il Simbolismo mi rifaccio molto al fine ‘800 e inizio ‘900, senza copiare ovviamente altrimenti sarei un manierista. Arnold Böcklin e Caspar David Friedrich sono altri due pittori che avverto quando dipingo. Spero che quando uno spettatore si trova dinanzi una mia opera possa sentire i concetti universali che narro attraverso la pittura, anche se nascosti.

Che momento sta vivendo adesso l’arte?

Adesso ci sono moltissimi pittori e devo dire che  è tornata una grande tendenza al figurativo, cosa che era venuta a mancare nel tempo a causa di una forte rottura. Sono contento che questo gusto sia nuovamente in voga, cosa che dà lustro al classico, al simbolico. In conclusione, direi che vi è un ritorno al passato ma con una visione del tutto contemporanea.

 

“Essere sovrani in un’era di rovine”: Emanuele Ricucci sulla follia contemporanea

“Questo libro non venderà nulla, perché non contiene soluzioni e il suo autore è troppo sincero.” Emanuele Ricucci è un giornalista, scrittore, pensatore dall’irriverenza per nulla semplicistica ma piuttosto un autore che, attraverso l’aggrovigliamento delle parole, ora su una testata giornalistica come Libero o Il Giornale, ora su un saggio o un racconto, s’inserisce nel vicolo buio delle questioni umane con picchi di grande ironia nelle funeree sorti. La grande forza racchiusa nel suo ultimo libro “Caduta matti. Racconti e mostri della follia contemporanea” sta proprio nel sano gusto del paradosso, secondo il quale si possano svelare gli inganni del nostro tempo. Allievo di Marcello Veneziani, si è dimostrato nel tempo un’importante firma, per poi divenire assistente parlamentare del guru dei politicamente scorretti, sua maestà Vittorio Sgarbi.  

Partendo da un tema piuttosto caldo, quello dell’inclusività in Europa, come credi si possa rivalutare la nostra cultura e le nostre tradizioni senza essere preda del fanatismo progressista?

Partirei da un discorso chiaro che cercai di inquadrare tra le righe de “Il Giornale” e “Libero”, che poi ho riportato in chiave saggistica nel mio penultimo libro “Contro la folla. Il tempo degli uomini sovrani”, un lavoro dello scorso anno che ha fatto un grande clamore. L’idea è che senza uomini non vi è alcuna direzione e questa battaglia credo fortemente che sia, in questa precisa fetta storica, quella più importante, contro l’autoannullamento degli uomini. Bisogna lottare contro l’estinzione dell’integrità degli individui, da ciò nasce l’idea che suggerivo nel libro, quella dei cosiddetti uomini sovrani, coloro che coltivano sé stessi e che tornano a sviluppare un pensiero critico e a ragionare sulle cose. Gli uomini sovrani non sono la massa, non rappresentano le piccole masse isolate di cui hanno trattato Agamben o addirittura John Donne nel ‘500 in “Nessun uomo è un’isola” ma l’idea che ad ogni uomo possa corrispondere un presidio di integrità, l’uomo intiero dannunziano, o semplicemente una figura che sappia rimanere lucido unendo studi, riflessioni, dubbi, intuizioni, letture, per coltivare sé stesso. Da questo principio credo sia possibile riscoprire le comunità di uomini non solo come finanziamento pubblico per quanto riguarda la simpaticissima festa tradizionale di Bolzano o quella del paesino tedesco, sticazzi! La questione è ben più piccante perché dobbiamo riscoprire l’integrità e quindi gli uomini sovrani che costituiscono una traduzione di comunità adeguata ad oggi e che possa dialogare con la tecnologia o quella che alcuni chiamano modernità, però che torni a dare un significato non solo transitorio e non solo legato al consenso. Così vale per le identità nazionali e anche per il senso di patria, penso all’Italia,  che dev’essere proseguito perché non è bastato fare la grande guerra del Risorgimento di cui non godiamo nemmeno perché ci vergogniamo, alla fine l’unica vittoria che sembra essere quella possibile senza vergognarsene è quella nata dalla resistenza. Non a caso il mio maestro Marcello Veneziani ha sempre detto che per alcuni è come se l’Italia stessa fosse nata dalla resistenza partigiana.

Quali sono secondo te le maggiori frequenze su cui si insedia il politicamente corretto?

Guarda, io insisto sempre sugli uomini come ti dicevo prima, però la differenza sta nel fatto che il mio studio antropologico non è legato a quella visione radical secca, radical chic che hanno praticato molti compagni ma piuttosto una seria riflessione sulla figura umana, come hanno fatto enormi figure come Ortega y Gasset, Céline, Le Bon, Di Gregorio. Adesso, in concomitanza con le nuove visioni di impostazione del mondo da un punto di vista economico, è normale che vada mondato l’essere umano di ogni dimensione di profondità e dunque tutto ciò che possa legarlo ai propri ricordi, alle tradizioni o alle parte più interiore legata alla famiglia e a all’identità, sradicandolo così della propria memoria. Non è un caso la condanna all’indifferenza dei momenti di ricordo nazionale, penso ad esempio al centenario della grande guerra che è stato totalmente abbandonato, dimenticato da coloro che invece avrebbero dovuto evidenziarne il valore storico. Quindi il politicamente corretto s’inserisce sull’isteria del voler creare l’uomo sismico che riesca a tremare con ogni input, proprio come quelli che si sono palesati col cambiamento della politica che è divenuta una S.p.a. un’azienda di stronzi e miracolati in tantissimi ambiti, proprio in virtù del fatto che  vi è il bisogno di persone incapaci di accendere un pensiero critico quando vuole o ritiene. Non dimentichiamo l’ambito culturale. C’è Eugenio Capozzi, di cui scrissi un bel libro e un articolo su una sua opera per “Libero” che portava avanti la tesi su cui il politicamente corretto è figlio del comunismo in qualche modo, o peggio ancora del post-comunismo in realtà, quello sessantottino. Egli scriveva che la maggior parte di costoro non sono altro che aborti umani, mai nati non solo come uomini ma figuriamoci come politici, tipo Di Maio. Ci vorrebbe, dinanzi a tali figure, il cinismo di Carmelo Bene. Per questo la cosa su cui giocano di più è la sismicità, ossia creare la fragilità nelle persone in modo da poter coltivare su terreni favorevoli estinguendo così tutto ciò che si ponga come alternativo all’imposto. In conclusione, se nel ‘900 ideologico l’uomo era cosparso o circondato da idee che divenivano anche ideologia, da culti religiosi, racconti morali, gli attacchi arrivavano dalla politica o dai ceti dominanti nei ranghi della democrazia. Oggi col Kazzo che si ripeta ciò, perché questa è davvero l’era post-ideologica  e le persone purtroppo tendono a muoversi seguendo tutto ciò che li possa condurre ad una gratificazione istantanea e così, voterebbero, nell’era della sondocrazia, un neo-reale che sostituisce il reale fisico ossia chiunque riesca a garantire le loro necessità di sopravvivenza. Quindi ecco che in quest’era priva di cuscini ideologici, etici o religiosi si manifestano stronzate come le critiche alla parola Natale o al nome Maria da parte dell’UE.

In qualità di giornalista, come descriveresti gli ultimi accadimenti legati all’emergenza covid? In particolare sulla logica green pass?

Parto col dire che sono un free vax, nel senso che per me se vuoi vaccinarti fallo ma credo anche che si possa essere liberi di fare il contrario. Mi definisco semmai un  no-green pass, perché non sono un coglione e sono stufo della narrazione scanziana secondo cui io debba per forza essere un analfabeta del nord-est italiano che al massimo legge le istruzioni del detersivo quando sta al bagno e non capisce neanche quando gli parla la madre, beh direi proprio che non è così. Poi mi sono anche rotto di categorizzare le persone, basta, abbiamo creato questo zoo che non dico Orwell o Huxley, ma nemmeno nostro signore Gesù Cristo avrebbe mai pensato, anzi. Dall’inizio del covid è stata fatta una narrazione volutamente terroristica, questo fa capire qual è la meta a cui ci stiamo avvicinando, cittadini de jure e sudditi de facto, perché è questa la verità. Il terrorismo che viene fatto è insopportabile soprattutto perché spesso esula dalla realtà, dalla razionalità. Calcola che io neanche parlo di dittatura sanitaria, nonostante nei modi ricorda le visioni dittatoriali ma mancano ancora le armi, ma piuttosto preferisco parlare di grandissima offesa all’intelligenza e ci tengo a precisare che questa narrazione poteva essere anche capita all’inizio in piccola parte, a febbraio-marzo 2020, ma poi è stata utilizzata senza alcun ritegno, soltanto per una ricerca dei consensi e stabilirne il bene e il male in base a chi afferma un’idea e a coloro che la seguono. Io penso che essere stato in mano, non dico neanche a Conte ma, a Casalino è qualcosa di riluttante. Credo che noi, la competizione culturale alla sinistra, per fare davvero controinformazione dobbiamo smetterla di mandare a memoria Céline, Junger, Hidegger, Orwell, Proust ma dobbiamo invece tradurli, altrimenti non esistiamo. Dopotutto, di un convegno sui peli del culo  di Martin Hidegger con sedici persone che non hanno capito un cazzo, cosa ce ne facciamo? Se il gelataio di Genova o il meccanico di  Viterbo non capisce ciò che noi stiamo affermando vuol dire che non siamo in grado di tradurre quel pensiero e ciò decreta un fallimento. Credo che il malessere che molti avvertono sia vicino a quello di Drieu La Rochelle o di Céline ed è quel sentimento che dobbiamo tradurre, perché è artistico. In fondo l’arte non è solo l’astratto o il figurativo ma, come direbbe lo Sgarbi-Leonardo o il Leonardo-Sgarbi, è la prosecuzione del creato…