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FLORIDI:”BISOGNA COSTRUIRE UNA NUOVA SOVRANITÀ DIGITALE”

FLORIDI: “BISOGNA COSTRUIRE UNA NUOVA SOVRANITÀ DIGITALE”

Di Francesco Subiaco

Reale e virtuale, materiale e immateriale, analogico e digitale non sono due opposti inconciliabili, bensì due poli che convergono tra loro. Per tale motivazione nella civiltà del codice l’uomo non è più l’abitante di un ordine terrestre, ma l’utente che vive in una realtà immersiva, in cui le informazioni e le logiche della realtà virtuale compenetrano e invadono quelle della vita analogica. Per tale motivazione non esiste più, nell’epoca dell’infosfera una distinzione tra vita online e vita offline, ma solo una sintesi, una sovrapposizione ed indicazione tra questi due apparenti opposti, che il Professor Luciano Floridi ha saputo magistralmente sintetizzare nel concetto di “onlife”. L’uomo utente delle “repubbliche digitali”, non è solo il cittadino, l’uomo, l’individuo, ma è soprattutto un organismo informativo che interagisce, si informa e si invera nella ragnatela artificiale degli scambi di dati dell’infosfera. In questo contesto il cittadino viene sostituito dal follower, il cliente dall’utente e in questo contesto l’uomo è assoggettato alle responsabilità e influenze di una infosfera non più governata dagli stati, ma da grandi aziende-stato. Come reagire di fronte alla necessità di un nuovo umanesimo digitale? Per parlare di questi temi abbiamo intervistato il Professor Luciano Floridi tra le voci più autorevoli della filosofia contemporanea, dal 2013 professore ordinario di Filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute della Oxford University, dove dal 2017 dirige il Digital Ethics Lab, e chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute, che nei suo ultimi “Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide” e “Pensare l’infosfera” scrive parole definitive sul tema del rapporto tra filosofia e digitale.


Professor Floridi come l’infosfera ha cambiato il mondo post industriale dal punto di vista economico, sociale e filosofico?
Le trasformazioni sono state tantissime ed hanno portato a cambiamenti in tutti gli ambiti sociali, dall’economia alla politica, dall’istruzione alla cultura. Soprattutto dal punto di vista economico-politico è avvenuta in questi anni una profonda trasformazione della gestione del potere rispetto al passato. Oggi siamo, infatti, abituati a pensare, a grandi corporate, come Google, Microsoft, Apple e Meta non più solo come a delle semplici aziende, ma come a degli stati il cui peso e la cui influenza scavalcano i confini delle imprese convenzionali. Hanno poteri decisionali e di influenza enormi, coinvolgono nei loro processi miliardi di cittadini ogni giorno e le loro decisioni hanno un impatto sulla geopolitica, sulla società e sull’economia che non ha precedenti rispetto al passato. L’infosfera, quindi, non è dominata da grandi stati, ma da grandi aziende che hanno delle responsabilità cruciali per il destino di tutti noi e che ci espongono (aldilà di una valutazione sulla loro gestione di tale responsabilità) a grandi rischi sociali, politici ed economici. Per tale motivazione si dovrebbero riappropriare di queste responsabilità i contesti sociopolitici al fine di orientare le sorti del cambiamento verso l’interesse comune. In questo scenario, infatti, le grandi corporate hanno un peso politico ed un potere decisionale che va oltre le competenze dei singoli stati e per tale motivazione dobbiamo recuperare un approccio sociopolitico per ripensare l’infosfera. Purtroppo veniamo da una “strada sbagliata”, in cui si è creduto nel primato dell’economia rispetto alla politica, e dell’economia aziendale rispetto alla politica economica. Il mercato dovrebbe creare la ricchezza, ma la politica dovrebbe vigilare su come essa viene creata. Invece siamo in un sistema economico in cui il peso del mondo aziendale è preponderante rispetto a quello sociopolitico. Dovremmo, quindi, costruire (non riappropriarci, perché non la abbiamo mai avuta) una nuova sovranità digitale che sia fondata su una visione sociopolitica e non economico-commerciale.

-Cosa intende con la definizione del concetto di “onlife” e come la comunicazione perpetua ha cambiato la vita sociale del cittadino globale?
Semplificando al massimo le trasformazioni ben più complesse che hanno riguardato l’infosfera, posso affermare che siamo passati da una cognizione del cittadino, principalmente novecentesca, che vede in esso chi vota e chi sceglie, un customer (cliente) in sostanza, ad una visione contemporanea che lo concepisce, invece, come un follower (un seguace) che non sceglie e non decide, ma segue ed utilizza quello che gli viene offerto, diventando non più un cliente, bensì un utente. In questa realtà immersiva che mischia analogico e digitale, online e offline, noi siamo sempre di più utenti che vivono in maniera ininterrotta la confusione con questi due mondi diventandone parte integrante della sfera virtuale e di quella reale. Per riassumere tale concetto utilizzo il termine “onlife”, che in esso esprime non solo questa condizione, ma anche il passaggio netto avvenuto nella nostra società da cittadino come cliente a cittadino come utente e follower, che non decide o sceglie più, ma segue la realtà in cui è immerso come un tifoso calcistico, in maniera passiva ed indipendentemente da ciò che accade tra le forze politiche e dalle forze economiche. Gli utenti, inoltre, hanno diritti diversi e molto più ristretti di quelli dei clienti che cedendo i loro dati personali e la loro capacità di scelta subiscono passivamente i servizi offerti senza avere su di essi voce in capitolo. Si tratta di una metamorfosi molto pericolosa poiché deresponsabilizza sia di chi sceglie, il consumatore, si di chi offre, il produttore. Tale logica andrebbe completamente riformata e rivista, e la consapevolezza di tale condizione sarebbe già un buon punto di partenza in questa direzione.

-Oggi gli stati sono subordinati o compenetrati dal potere delle corporate?
In alcuni contesti è difficile parlare di sovranità nazionale, di fronte allo strapotere delle grandi corporate. Però non dobbiamo cadere nell’errore inverso. L’alternativa allo stato vittima della predazione aziendale non è lo stato imprenditore o lo stato ipertrofico, bensì un ruolo dell’amministrazione statale che fa da arbitro, da controllore, da gestore attraverso una maggiore coscienza ed efficienza dei propri poteri. Lo stato dovrebbe investire sulle sue competenze per riuscire a separare quello che è il terreno pubblico da quello che è il terreno privato. Se questa ripartizione avvenisse avremmo una gestione efficiente e funzionale dei problemi del 21° secolo. Non bisogna ricadere in errori novecenteschi. Lo stato-azienda crea grandi disastri, le aziende-stato creano grandi disordini e grandi ingiustizie. Lo stato deve distribuire la ricchezza, il mercato deve costruirla, quando questa divisione non viene rispettata le conseguenze sono sempre spiacevoli.

Oggi nella civiltà del codice è necessario trovare una sintesi tra sviluppo tecnico e valori umanistici?
Penso di sì però solo se intendiamo tali valori in una ottica nuova, aggiornati ed adattati rispetto alle sfide del presente. Non bisogna guardare al passato o recuperare soluzioni e concetti già provati e affrontati. Bisogna costruire, adottare e pensare per la prima volta nuovi valori ed idee. Non abbiamo mai perso, ad esempio, la nostra sovranità digitale perché in realtà non la abbiamo mai avuta. I valori umanistici andrebbero rivisti, adattati e aggiornati nel XXI secolo e non trasposti dal loro contesto di origine nel nostro tempo. L’umanesimo ad esempio è privo della componente ambientalista, giustamente anche perché appartiene ad un altro periodo, incentrandosi su una visione esclusivamente antropocentrica. Una visione che è slegata da due temi fondamentali che, invece, di fronte alle sfide del presente dovrebbero essere integrati ad essa: l’ambiente e la comunità. Recuperare l’umanesimo non deve essere un passo indietro, ma un passo avanti. Bisogna aggiornare l’umanesimo rispetto alla tematica ambientale e quella sociale perché sennò si rischia di cadere negli stessi errori del passato.

-Quali sono i riferimenti culturali di Luciano Floridi?
Per la filosofia direi Platone, Cartesio, Kant. In economia John M. Keynes, perché riuscì a rivedere il mondo in una ottica controintuitiva portando l’economia dalla sua fase newtoniana a quella einsteniana. In ambito politico forse direi Tony Blair, con cui non sono d’accordo su alcuni temi, ma penso che prima di alcuni grandi errori ha avuto delle intuizioni geniali che in politica hanno fatto la differenza. Come scrittori invece Tomasi di Lampedusa e Manzoni perché leggere i loro libri vuol dire capire l’Italia per sempre.

Sossio Giametta, intervista ad un Mago del Sud

Sossio Giametta, intervista ad un Mago del Sud

Di Francesco Subiaco


Per Sossio Giametta la filosofia è la terapia dell’essere umano, un farmaco capace di portare ordine e dare un senso ai grandi dubbi che tormentano l’umanità senza scadere né nelle religioni delle illusioni né nelle illusioni delle religioni, attraverso domande che decostruiscono i miti dell’antropocentrismo, delle utopie dei totalitarismi, delle finzioni sulle sorti magnifiche e progressive dell’umanità, e che sono il vero bagaglio del filosofo. Per tali motivazioni Sossio Giametta è un vero filosofo e non uno storico o un pedante divulgatore del pensiero, poiché con il suo percorso intellettuale ha prodotto un corpus filosofico capace di sfidare i pregiudizi del tempo, di affrontare i temi del presente con il metro dell’eterno, di non essere solo l’ombra dei pregiudizi del tempo, ma una voce dei grandi turbamenti dell’individuo, che non solo risolve, ma vive, affronta e rilegge in modo unico nei suoi testi. Un’opera che lo pone come l’ultimo vero maestro del sospetto della nostra epoca. Un maestro capace di delineare il nucleo di una idea filosofica in grado di rispondere al più urgente tema della filosofia contemporanea: “come si può pensare il mondo dopo il cristianesimo?”. Questa domanda trova risposta nella filosofia dell’ “essenzialismo-organicismo”, una visione argomentata già nella Trilogia dell’essenzialismo” (composta dal Bue squartato, L’oro prezioso dell’essere e Cortocircuiti) e nello splendido Codicillo, in cui declina i massimi problemi del pensiero in minimi spazi ed in cui si ritrovano le idee e le scoperte che poi verranno riprese e sviluppate nel Caleidoscopio, nei commentari filosofici dell’opera di Nietzsche e nei suoi ultimi scritti. Scritti che affrontano la filosofia dei grandi maestri del sospetto della storia, come Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche nel piccolo, ma densissimo, “La filosofia di Spinoza e il duello con Schopenhauer e Nietzsche” (Bollati Boringhieri) dove Giametta confronta la filosofia del massimo filosofo con gli affondi del dinamitardo Nietzsche e del pessimista Schopenhauer, la cui filosofia non solo ha decostruito il mito antropocentrico e cristiano ma ha formulato l’idea di una filosofia capace di andare oltre il fanatismo e gli antidoti delle illusioni cristianesimo. Una filosofia che si fa racconto e narrazione nel romanzo più riuscito di Giametta, “La gita di Ognissanti”(Olio officina), in cui l’autore, critico del 68 e le illusioni della modernità, demolisce i tabù e le chiusure di un establishment intellettuale di stampo marxistico e dell’inquinamento ideologico con cui il comunismo ha contaminato la cultura e in cui è presente, inoltre, una interessante stroncatura di Pasolini. Opere in cui Sossio Giametta si mostra come un vero Mago del sud, (come suggerisce il titolo dell’omonima antologia critica sul filosofo frattese curata da Marco Lanterna), che ha ripagato bene i suoi maestri, Spinoza, Croce, Bruno e Colli, non rimanendone solo un allievo, bensì diventando a sua volta un maestro. Il maestro di una grande filosofia capace di ripensare la modernità in modo unico come un vero filosofo, forse l’ultimo, ovvero “come persone che compiono sforzi estremi per sperimentare fino a che altezza l’uomo possa elevarsi”. E con il pensiero di Giametta ci si innalza oltre le vette.


In Caleidoscopio filosofico hai detto che la storia umana è divisa in tre fasi di cui la prima aristocratica-elitaria-pagana e la seconda cristiana-democratica. Quale sarà la terza fase della storia e perché il panteismo sarà la filosofia fondante di questo terzo evo?
Dopo paganesimo e cristianesimo, il secondo in contrapposizione al primo come tesi e antitesi, segue levo moderno come sintesi, letà della secolarizzazione e per conseguenza del panteismo, soprattutto ad opera di Spinoza. Segue necessariamente, perché la religione, cioè il vincolo dellindividuo con la natura (la specie e il mondo), permane.

Oggi in preda ad una nuova “rivoluzione culturale” si giudicano i filosofi e gli scrittori in base alle lenti del politically correct. Che ne pensi di questo nuovo tribunale ideologico?
Giudicare i filosofi e gli scrittori con giudizi che non siano filosofici e letterari, come sono quelli politici, è sbagliato. La filosofia è la ricerca della verità e quindi il giudizio filosofico è quello che stabilisce che valore ha un certo filosofo, cioè la sua filosofia, in relazione alla ricerca della verità: se lha fatta progredire o se ha imboccato vie sbagliate.

Come può secondo te la filosofia confrontarsi con la complessità della tecnica e del mondo digitale. L’intelligenza artificiale e la “virtualizzazione” del mondo come cambieranno a tuo avviso il rapporto del filosofo con il mondo e il pensiero?
la filosofia si è sempre confrontata con la vita e il mondo, le cose più complesse in assoluto. si confronterà anche con la tecnica e il mondo digitale, come di ogni altra cosa che ne fa parte. quanto a come lintelligenza artificiale e la virtualizzazione del mondo cambieranno il rapporto del filosofo con il mondo e il pensiero, wait and see.

Perché definisci Spinoza il filosofo, Schopenhauer un mezzo filosofo e mezzo moralista e Nietzsche soltanto un moralista?
Spinoza è certamente il filosofo, ma il filosofo che ha fatto la rivoluzione più importante dopo quella di Gesù Cristo, in senso inverso, sostituendo il cristianesimo con il panteismo. Non ho definito Schopenhauer un mezzo filosofo e mezzo moralista e Nietzsche soltanto un moralista. Schopenhauer è un (grande) filosofo e in più un grande moralista e un grande artista (stilista). Nietzsche è un grande moralista, ma anche filosofo, poeta, psicologo, critico della civiltà (kulturkritiker) e genio religioso, come tale co-fondatore della religione laica.

Che cos’è per te la filosofia e quale dovrebbe essere la missione del filosofo?
La filosofia potrebbe non esistere come disciplina particolare, perché è una riflessione sulla vita e sulla natura aperta a tutti.

Una volta hai detto che ci sono tanti professori di filosofia e pochi filosofi. Come mai siamo diventati nell’ambito filosofico dei “guardiani” del pensiero e non abbiamo più coraggio di essere filosofi?
Per Pitagora, inventore del termine filosofo, il filosofo è chi osserva e studia la natura, le cose, non in primo luogo i concetti. Solo che il filosofo è anche chi si dedica a quuesto studio e non ignora i risultati dei filosofi precedenti.

Nel novecento Kojeve e Strauss si confrontarono a lungo sul rapporto tra filosofia e potere, nel lungo epistolario “Sulla tirannide”. Secondo te che rapporto ci deve essere tra il filosofo e il potere e verso quale posizione propendi?
Sono per lassoluta libertà della ricerca filosofica, per lassoluta libertà di pensiero, indipendente da qualsiasi autorità, da ogni potere, soprattutto quello religioso e politico.

Longanesi diceva che cultura è tutto quello che non ti dà l’università. Credi che la filosofia sia incompatibile con l’accademismo?
Sì. La vera filosofia è vocazione e non professione. Può però anche diventarlo, fermo restando che la vocazione deve sempre precedere la professione. Non si sceglie la fillosofia, ma se ne è scelti, in genere con grande sorpresa. Philosophus nascitur. Schopenhauer ha scritto un saggio significativo contro la filosofia delle università.

Che legame c’è tra il Giametta filosofo e quello romanziere? E come nasce la Gita di Ognissanti?
Giuseppe (Peppo) Pontiggia diceva che i miei saggi sono scritti con tensione narrativa. Io aggiungo che la mia narrativa è scritta con tensione moralfilosofica. In essa, narrazione e pensiero non sono sovrapposti o giustapposti, nascono intimamente intrecciati, anzi fusi, cioè i racconti sono veri racconti, non contes philosophiques che vogliono dimostrare una tesi filosofica. La Capria diceva che ero un centauro. E in effetti ho scritto Tre centauri. La gita dOgnissanti nasce come le altre narrazioni: da ispirazione, esperienza e pensiero. Vi stronco Pasolini, non il 68 e il movimento della contestazione, che giudico in parte positivamente, in parte negativamente. Pasolini, non negoche fosse anche artista, nel cinema e nella letteratura, forse anche nella poesia dialettale, che però non conosco. Il primo dei due romanzi è valido, come i due film romaneschi. Sono ispirati dalla gioventù perduta delle periferie romane. Il secondo romanzo ha un inizio bello e originale, travolgente, ma ilresto è maniera. Pasolini era più un effettista che un artista e aveva la presunzione di esprimere con singoli film intere civiltà: araba, greca, cristiana, inglese, eccetera. Quanto alla critica sociale, ha detto in forma popolare ciò che era stato detto seriamente quasi un secolo prima. Ha approfittato del successo per esprimere in più modi e con vari pretesti la sua depravazione, che non consiste nella sua omosessualità, ma nel modo di viverla e di obbrobriosamente sbandierarla.

Nel tuo romanzo “La gita di Ognissanti” compi una netta stroncatura di Pasolini e del 68. Quali critiche muovi verso questo autore e il movimento della contestazione?
Ho cominciato con Croce, ho continuato con Goethe, poi con Nietzsche e Schopenhauer, su cui ho lavorato di più; poi ancora ho aggiunto Giordano Bruno.


-Hai ancora dei sogni?
Veder pubblicati i libri già sotto contratto e ripubblicato qualcun altro.

Quali sono stati i grandi incontri della tua vita e perché?
Umanamente, soprattutto Marco Lanterna e Giuseppe Girgenti, due persone più miracolose che straordinarie, oltre che due eccellenti scrittori.

Roger Scruton superata la soglia dei settant’anni ha detto di aver compreso che il vero senso della vita è la gratitudine. A pochi anni dalla soglia dei 90 anni che cosa hai imparato e quale è il senso della vita umana per te?
Il senso della vita delluomo è la lotta per affermarsi e sopravvivere e per ricambiare il bene ricevuto dalla vita e dagli uomini del passato. La nostra origine è divina, ma siamo immersi nella vicissitudine delle condizioni di esistenza, fin troppo spesso infernali.

Quale è l’opera che hai scritto in cui ti rispecchi e perché?
Ritengo i Grandi problemi risolti in piccoli spazi (Bompiani 2017) il mio miglior libro di filosofia, perché vi ho risolto problemi millenari in tre, quattro o cinque pagine. Il mio pezzo migliore è lultimo, quello su Gesù Cristo. Dimostra come un uomo può diventare Gesù Cristocon un percorso laico.

In Senecione hai stroncato duramente il filosofo Blaise Pascal. Perché questa stroncatura?
Lo spiego in un libro che spero esca questanno. In unepoca in cui si lottava contro la religione e infierivano le guerre di religione, si è ributtato, per lincapacità di sopportare il mondo senza un Dio personale, cioè per viltà, nella religione invece di combatterla, come facevano, a rischio della vita e del carcere, migliaia di cosiddetti eretici.

La visibilità quanto può essere pericolosa per un filosofo?
Dipende dal filosofo,dalla sua filosofia, dall’epoca e dalle circostanze.

-Hai in programma nuove opere?
Due libri nuovi, uno su Schopenhauer e uno su Pascal, e delle ripubblicazioni.

Che opinione hai della scena politica attuale?
Più o meno disastrosa. Ma non voglio perdere la speranza.Ci sono forze positive in atto. Speriamo tutti.

Carlo Galli:”Dobbiamo fare della politica il luogo in cui coltiviamo la nostra umanità”.

Di Francesco Subiaco

“Meraviglioso e vertiginoso , coinvolgente e sconvolgente , divisivo almeno tanto quanto unisce , magnetico ed enigmatico nella sua ap parente chiarezza , la Repubblica è un libro che non si può smettere di leggere ; un libro che emoziona , perché ci pone davanti a un Inizio – alla sua indiscutibile grandezza e alla sua insuperabile contingenza e difficoltà” con queste parole Carlo Galli, professore emerito all’Università di Bologna tra i massimi studiosi del pensiero politico, apre il prologo del suo ultimo straordinario testo su Platone: “La necessità della politica “(Il mulino). Un’opera con cui Galli fa entrare il lettore in quel monumento del pensiero politico che è La Politeia platonica, indagando tramite la lente del filosofo greco la Politica in ogni sua declinazione e in ogni sua manifestazione, un dialogo totale che indagando le forme dei governi riesce a tracciare una radiografia definitiva su cosa sia il potere e su che tragedia sia il divorzio tra Filosofia e azione politica. Un testo capace di confermare il motto di Holderlin per cui “ci sentiamo originali solo perché non abbiamo letto abbastanza”, in quanto tra le pagine della Repubblica si ritrova un grado di profondità e di astrazione così elevato che rendono questo testo, e di conseguenza il testo di Galli, imprescindibile per chiunque voglia conoscere cosa sia la Politica, poiché si può pensare essa contro Platone, ma non si può pensare essa senza Platone. Per meglio comprendere la complessità di questo testo abbiamo intervistato il Professor Carlo Galli che nel suo saggio ha scritto parole definitive sulla Politica e sul capolavoro Playon.

Perché “La necessità della politica”? E che relazione esiste tra Politica e Politico?
Il mio libro su Platone ha come tema “la necessità della politica”, che è cosa ben diversa dal ‘politico’. Questo è una immediatezza, un rapporto conflittuale, ipotizzato come originario, mentre la “Politica” è il sistema di mediazione e riconoscimento del ‘politico’ in un ordine. E’ questo ciò che tratto e indago nell’opera platonica, ovvero un’idea di mediazione, che viene rappresentata tramite la filosofia e la metafisica. Il tema principale trattato nella Politeia, il testo che è al centro del mio saggio, è la giustizia, la quale, non è, però, una virtù in senso tradizionale, ovvero un abitus morale del singolo, bensì una meta-virtù poiché per esistere essa ha bisogno della pluralità degli uomini e di una dimensione politica, il che la rende differente dalle altre virtù trattate nei dialoghi platonici. La giustizia è dunque una meta-virtù, per realizzare la quale è necessario un diverso modo di pensare, ovvero la metafisica, che ne costituisce le fondamenta. Qui c’è la grandezza della scoperta platonica, che collega la giustizia direttamente alla sfera collettiva e alla “filosofia prima” non solo al singolo.

Come nasce la Repubblica è come risolve Platone il problema della giustizia?
La Repubblica è un opera in dieci libri, che si prefigura come una lunga risposta alla provocazione del sofista Trasimaco, per il quale la giustizia è l’utile del più forte ed un “bene” di altri. Il “Bene” che la legge promuove, per il sofista, è il vantaggio non di chi obbedisce alla legge, ma di chi la promulga e concepisce. Nella visione di Trasimaco, l’utile, fagocitando la morale, trasforma la politica nella massimizzazione dell’interesse esclusivo di una parte, e da ciò deriva come conseguenza è l’ingiustizia del più forte sul più debole. La risposta di Platone a questa tesi è assolutamente impegnativa, nonostante una premessa iniziale non molto solida; la giustizia, dice Socrate nel dialogo, è una tecnica che è svolta a vantaggio dei più deboli, da parte dei migliori (come la medicina, con la quale i medici curano i malati). La descrizione che fa Socrate della giustizia è però troppo debole: per questo Platone inventa la “mediazione”, ovvero la metafisica, al fine di superare l’utilitarismo di Trasimaco. Platone considera, infatti, la politica come la dimensione in cui tutti possono diventare sé stessi sotto la guida filosofi, che hanno titolo a governare perché non solo conoscono la verità delle Idee ma la portano, mediandola, sulla terra, nella città. Una visione che è possibile solo se si costituisce filosoficamente la politica, mostrando la filosoficità della politica e la politicità della filosofia. Tale concezione è l’elemento più caratteristico e più lontano dal liberalismo della filosofia platonica.

Per questo secondo lei Platone viene definito totalitario da pensatori come Karl Popper? E perché questa concezione è antitetica a quella liberale?

Poiché per i liberali la politica è la dimensione in cui l’immediatezza, la ricerca dell’utilità del singolo, trova una regolamentazione, attraverso condizionamenti istituzionali che le danno una forma ordinata, trasformando l’aggressione in concorrenza. È una concezione della politica che si fonda sul soggetto e sulla nascita della “mediazione” politica, lo Stato, come artificio contrattuale. La differenza con Platone è abissale, perché per lui nella politica c’è la possibilità di realizzare compiutamente la pienezza dell’uomo e non solo una esteriore regolamentazione dell’agire dei singoli. Una ricerca della pienezza che noi moderni abbiamo, invece, perduto per sempre, poiché abbiamo deciso di vivere come soggettività alienate. Noi moderni viviamo una esistenza che si divide in una pluralità di aspetti tra loro alienati poiché abbiamo una sfera politica quando costruiamo l’ordine giuridico, poi una economica quando perseguiamo l’utile tramite il lavoro nella società, mentre nella vita domestica abitiamo un’altra sfera, quella privata. Questi tre diversi piani dell’esistenza, separati tra loro, Platone non li concepisce affatto. Non perché non ne ammetta l’esistenza, ma perché la pienezza e complessità dell’umanità vanno preservate e organizzate in una unità, e ciò è possibile solo attraverso la filosofia che si fa pratica, ovvero nella città, tramite la politica in cui comandano i filosofi, conoscitori del Vero. L’obiettivo non è, quindi, di alienare l’uomo ma di liberarlo dall’alienazione facendolo vivere in armonia con gli altri e con sé stesso. Una visione totalmente in antitesi col liberalismo, ma che non per questo fa di Platone un pensatore totalitario. Lo stesso accostamento di Platone al totalitarismo è errato ed insensato, poiché questa contrapposizione è completamente anacronistica. Platone come liberale o come totalitario è una visione profondamente errata, ma non per questo la sua filosofia è estranea alla nostra civiltà, poiché con “La Repubblica” ha aperto la via della filosofia e della politica, non per i contenuti o le mete che ha raggiunto, ma per le strade e per le domande che ha posto nella sua formulazione. Rendendolo un libro imprescindibile per chiunque voglia approfondire i rapporti tra filosofia e politica.

Perché il pensiero platonico è imprescindibile per comprendere il rapporto tra filosofia e politica?

Platone ha insegnato che per non vivere nella casualità, nell’insensatezza, dobbiamo pensare la politica, e per pensare la politica ed essere veramente uomini dobbiamo passare per le questioni e i sentieri che ha segnato. Per questo lo possiamo definire il padre venerando e terribile della filosofia e della politica.

Quali sono le caratteristiche della Kallipolis e delle idee espresse nella Politeia?

La città, che è il soggetto politico della Politeia, nasce come coesistenza umana mediata dal bisogno e della divisione del lavoro; quando essa si sviluppa diventa una città di lusso e allora si apre alla guerra e ciò comporta una differenziazione anche dei ruoli politico-sociali. Si forma una differenza fra i soggetti capaci di combattere, i più coraggiosi (i guerrieri), e di quelli in grado di pensare l’intero e dotati di una intelligenza collettiva (i filosofi), e i produttori. I cittadini di questa città hanno l’anima uguale, nel senso che ciascuno ha in sé l’elemento teorico, l’elemento del coraggio, e l’elemento pratico; ma in proporzioni diverse. Alcuni hanno quindi doti pratiche e sono destinati al lavoro, altri sono orientati al coraggio, e sono superiori secondo Platone poiché chi lavora lo fa per sé, chi combatte lo fa per gli altri, e poi chi fra i coraggiosi è dotato della riflessione in generale, deve guardare all’interesse complessivo della città. Ciò viene spiegato da Platone tramite il “mito fenicio” degli uomini delle tre radici (di bronzo, d’oro e d’argento), che prefigura le divisioni nella Kallipolis le quali rappresentano una città gerarchica e differenziata, dove ognuno fa quello che la propria natura gli detta e non quello che gli pare. A quale gruppo ciascuno appartiene però non viene deciso in maniera ereditaria, ma si viene selezionati dai filosofi. La Kallipolis per quanto differenziata non è percorsa da contraddizioni insolubili, bensì vi è una virtù comune che è propria di ogni cittadino: la “temperanza”. Tutti i cittadini in coro, riconoscono “sinfonicamente” che la città e la sua gerarchia sono giuste; ciascuno segue la propria natura e modera i propri istinti (perché temperanza vuol dire moderazione) in nome del benessere comune seguendo la loro vocazione primaria. Tutti hanno la ragione, ma è filosofo solo colui nel cui animo la ragione è egemonica. Quella platonica è una città dell’uguaglianza, ma ancor più della differenza, della gerarchia, ma soprattutto dell’armonia. Per vivere in maniera armoniosa, per realizzare la Kallipolis, bisogna che ci siano tre condizioni: l’uguaglianza tra gli uomini e le donne; la messa in comune dei beni di filosofi e guerrieri, eliminando le cattive conseguenze dell’individualismo; il dominio dei filosofi.
Come mai proprio i filosofi per Platone devono comandare?
Perché la politica consiste in un agire sorretto dal sapere, ovvero conoscere ciò che c’è di conoscibile in questo mondo, individuando in esso una trama razionale superiore: la metafisica. Per vedere tale trama occorre andare oltre l’apparenza. Siamo immersi in un mondo empirico e caotico che rappresentiamo in immagini, ma le idee, che sono l’essenza del mondo, non sono questo. In Platone la differenza fra il mondo delle idee e quello dell’apparenza è la differenza tra ciò che è mobile e ciò che è essenziale, ciò che è conoscibile con i gradi bassi della conoscenza, ciò che è mortale, e quello che è conoscibile tramite la dialettica, ovvero ciò che è immortale. I filosofi poiché contemplano le idee e conoscono il cuore degli uomini, grazie alla loro capacità di leggere la trama razionale del mondo sono, per Platone, gli unici che possono governare la Polis, in quanto sono dotati di una intelligenza che fa loro cogliere la complessità delle cose.

Secondo Platone filosofia e politica possono vivere disgiuntamente?
La filosofia è per lui impensabile senza la politica, perché è nella pratica che essa realizza l’armonia e il bene sociale tramite la conoscenza. La conoscenza, quindi, non è un sapere sterile ed autoreferenziale, bensì è conoscenza dell’essenza e della sua realizzazione nel mondo. La realizzazione della filosofia è descritta nel mito della caverna con l’immagine dell’uscita del filosofo dalla caverna, la visione delle Idee e del Sole, e poi del pericoloso ritorno dentro la caverna per liberare i prigionieri, perseguendo il bene comune. Per Platone il Bene (il Sole) è superiore alle idee, nonostante non sia conoscibile ma solo contemplabile dal filosofo, poiché è la condizione della conoscenza e la sua ultima garanzia. Qui emerge il carattere antinichilista e antitecnico della filosofia platonica: le idee sono nel Bene, la conoscenza è nel Bene, la sua realizzazione pratica (che è anche una tecnica ma che nella tecnica non si esaurisce) è nel Bene. La metafisica ha una finalità operativa, come aveva capito Heidegger, in quanto è l’impulso a lavorare sul mondo per trasformarlo e renderlo diverso, tramite un gesto critico distruttivo (perché va oltre le apparenze), che oltre a una valenza nichilistica ha anche un lato edificante e costruttivo, perché è portatore della convinzione che il filosofo legittima il proprio sapere e la propria conoscenza in quanto è immerso nel Bene. L’impulso nichilistico e tecnico viene corretto dalla convinzione che è Bene che esistano le idee, il mondo, e la conoscenza e che c’è un principio da cui essi scaturisce. Per questa capacità di analisi le domande e i percorsi che ha aperto la Repubblica rendono questa opera imprescindibile per comprendere che cos’è la filosofia, la metafisica e la politica, a meno che non si pensi il mondo come pura casualità, contingenza ed insensatezza.

Che rischi sono presenti nel pensiero platonico? Forse quelli di un pensiero totalitario?
I rischi di Platone non sono quelli del totalitarismo, ma sono quelli della tecnicità. Per il totalitarismo l’uomo è nulla e può essere rifatto, mentre per Platone può essere guidato per diventare ciò che è. Ovviamente nel pensiero platonico il soggetto è sicuramente debole, come sottolineò Hegel, ma allo stesso tempo il suo edificio filosofico si pone come nemico delle immagini, dell’utile e della cultura come divertimento, in nome della verità e dell’essenzialità. Un edificio filosofico che si posiziona anche al di sopra anche della religione orfico pitagorica e misterica da cui attinge molto, ma a cui aggiunge una razionalizzazione dell’elemento della salvezza e della conversione che non sono più legati al mistero, ma al sapere. Che ci obbliga a non avere più paura della libertà.

Che cos’è per Platone la libertà ?
La libertà è un obiettivo da raggiungere, che viene conquistato operando su sé stessi tramite la filosofia, con la disciplina e la temperanza, governando le passioni, attraverso un percorso di scoperta che permette all’uomo di essere libero, cioè di essere sé stesso. La libertà ha senso solo nella giustizia, cioè nella relazione giusta con gli altri, mediata dalla politica e dalla filosofia. E, soprattutto, per Platone la libertà come giustizia è l’unica via per la felicità, che non sta nel fare ingiustizia (come diceva Trasimaco) ma nel fare giustizia. La libertà è anche responsabilità, come dice Platone nel mito di Er (nel decimo libro).

Quanto attuale Platone oggi?
Al di là di quanto si è detto sul fatto che Platone imposta il problema politico-filosofico in generale, è attualissimo soprattutto nell’ottavo libro della Repubblica quando mostra che cos’è la politica senza la filosofia. In quel libro, dopo averci detto che cosa fanno i filosofi nella Città ideale, ci insegna che cos’è la politica senza la filosofia, mostrando le metamorfosi delle forme del potere non guidate dal sapere. C’è la timocrazia, il governo della virtù e degli aristocratici, l’oligarchia, il governo dei ricchi, poi la democrazia, il governo della massa, e infine la tirannide. L’epoca di Platone è segnata dallo scontro tra oligarchia e democrazia, ovvero i ricchi e i poveri, che logorano la Polis combattendo tra loro, motivo per cui il filosofo è critico di entrambi i regimi. La democrazia viene criticata da Platone perché è il regno della licenza, e non della libertà. La democrazia, per Platone, è pura contingenza, pura empiria, puro capriccio che senza un nomos e una legge vuole soddisfare le pulsioni, facendosi portatrice di un enorme disordine e di una profonda anomia che causano caos e instabilità nella Polis. Una insicurezza fatta di congiure, tensioni sociale e crisi dei valori, causato dagli scontri tra gli oligarchi decaduti e i governi democratici, che sono il sintomo più eclatante della politica in assenza della filosofia. In questi scontri tra capi popolari e restauratori spiccano gli eredi degli oligarchi, ormai impoveriti, che formano bande di individui pieni di rabbia e risentimento i quali, dopo aver destabilizzato il fragile governo democratico, riescono a prendere il controllo della Città e insediano al potere uno di loro, il quale diventa il tiranno, a cui si affidano sia ricchi sia poveri con la speranza di trovare ordine e pace e di vedere finite le reciproche vessazioni. Ma tutti si sbagliano tremendamente perché il tiranno, che è il contrario del filosofo, è un uomo solo preda di tutte le passioni e tutti i desideri, sostanzialmente folle e imprevedibile, che vive nel continuo terrore di essere sopraffatto o ucciso e per questo si circonda di guardie del corpo, per pagare le quali depreda il popolo con tasse e prevaricazioni. Queste sono le conseguenze della politica senza la filosofia ed infatti per Platone “i mali dell’umanità non avranno mai fine se i filosofi non andranno al governo”: il sapere deve trovare il potere. Il lascito di Platone quindi è che dobbiamo fare della politica il luogo in cui coltiviamo la nostra umanità.

Progetti per il futuro?
Ho finito di recente il lavoro di curatela e traduzione del testo “De iure belli ac pacis” di Ugo Grozio, realizzando la prima traduzione integrale italiana di questo enorme testo fondamentale della modernità giuridica-politica, per l’Istituto Italiano degli studi filosofici di Napoli. Poi ho ultimato un testo sul concetto di Ideologia per il Mulino che sarà pubblicato nei prossimi mesi.

LA FORBICE DI JUNGER: UNA SINFONIA FILOSOFICA

– Francesco Subiaco

Non sempre le verità del mondo sono rappresentabili come sistemi, come costruzioni causali. Il pensiero non ha simpatia per l’ordine fisso e i grandi filosofi di ogni tempo hanno capito fin da subito che la verità non si muove su linee rette. Segue spirali e smarrimenti, oblii e rivelazioni, un sapere che appare come una preveggenza, come un’epifania. Dando la possibilità alle mille voci della realtà di risuonare, di espandersi, senza i tagli e le cesure della logica. Pochi pensatori hanno creato un corpus filosofico che più che un ordigno o un circuito sapesse essere una sinfonia, una rivelazione. Ernst Junger fu sicuramente uno di questi, che con il suo “La forbice”, ripubblicato dall’editore GUANDA con una postfazione di Quirino Principe, riesce attraverso una struttura aforistica a dare la consistenza di una verità simbolica e spirituale che appare paganamente nella sua sgargiante chiarezza, come la visione di un fauno in un bosco sacro. La forbice del titolo in questo groviglio di massime, non è un tema abituale, né lo scenario del libro di Junger ma la destinazione di un labirinto che non vuole enunciare nuove verità, ma mostrare nuovi simboli. Una rivelazione che congiunge il mondo del mito pagano e circolare con il regno della forbice, che spezza, divide e dà un significato al mondo. Il tempo, la morte, il mito, l’arte, sono le allusioni di questo oggetto magico, che rimanda l’autore alla meditazione con la fine, al senso dell’esistenza di fronte alla vecchiaia. Ad una visione dell’arte ricca di raffinatezza e sacralità, in cui l’artista e la sua opera diventano agenti del numinoso, che al contrario delle mode e dei sogni che vengono consumati dai minuti, essi sono nobilitati dallo stile che solo i secoli ed i millenni possono consumare. Riflessioni che la penna di Junger riesce ad alludere in ogni discorso, in ogni frammento. Parlando di musica e di botanica, di entomologia e storia, kultur tedesco e stato planetario. Decostruendo le ideologie del mondo della quantità e il sigillo della tecnica, che incanta le sue vittime e si circonda di ideologie deboli e pessimiste, incapaci di creare le grammatiche di una nuova civiltà, ma subalterni al linguaggio unico, dove l’essere è in esilio, del mondo della tecnica. Uno Junger sibillino e senile, che alla soglia dei cento anni riesce con poche nude, chiare ed esoteriche frasi , a far sentire al suo lettore, il profumo inconsistente ed ammaliante dei segreti dell’assoluto, tramite le forbici antiche e lontane delle parche.