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FEDERICO RAMPINI RACCONTA LA MINACCIA CINESE

– Francesco Subiaco

Federico Rampini è tra i massimi giornalisti della nostra epoca, capace di indagare le crisi di un Occidente infetto e diagnosticare le evoluzioni più sconcertanti delle autocrazie. Lo ha fatto tramite saggi come “La seconda guerra fredda”, “Il secolo cinese”, e continua a farlo con il suo ultimo “Fermare Pechino”. Ma cos’è Fermare Pechino? Uno slogan, un auspicio, una illusione? Questo testo è, soprattutto, la lucida e visionaria analisi del risveglio della Neo-Cina, che al contrario dell’affermazione di Henry Kissinger, dopo il suo millenario sonno, non ha più l’illusione di poter fare a meno dell’Occidente, diventando non più una potenza isolata, come si è illuso il vecchio mondo, ma imponendosi come nazione Imperiale, moloch nazionalista, colonizzatore, tecnocratico. Sfatando il mito che fa della Cina la grande miniera di manodopera e merce a basso costo degli stati capitalisti, creandone uno diverso, postumano, che fonda il suo primato sullo sviluppo tecnico, sull’innovazione, sulla solidità granitica e totalitaria del tessuto sociale. Una potenza che abbandona il capitalismo con caratteristiche cinesi, iniziato con Deng Xiaoping, inaugurando un imperialismo con caratteristiche cinesi, che si insinua negli stati balcanici, che lobotomizza i paesi in via di sviluppo con una strategia neocoloniale, in nome di un destino messianico che si incarna nella figura del celeste segretario Xi Jinping. Lanciando una sfida ai paesi occidentali, disgregati ed infetti dal politically correct, molto più sofisticata e terribile di quella che un tempo fu dell’Urss, poiché sfrutta il neoliberismo sfrenato, senza barriere e senza limiti, violandone le regole, imponendosi come leader nei settori in cui si insinua, attraverso una egemonia soft. Una sfida che non potrà essere nemmeno affrontata se non si capisce prima quali sono i punti di forza del proprio sfidante. Come recita il sottotitolo del saggio di Rampini, “capire la Cina per salvare l’Occidente”, è fondamentale comprendere quali sono i punti di forza della Neo Cina, quali sono i terreni su cui i paesi occidentali si devono confrontare, come un tempo la democrazia americana tramite Franklyn D. Roosevelt è riuscita a vincere le sfide del totalitarismo. Riuscendo a rispondere alle grandi domande del nostro tempo, dall’immigrazione all’AI, dall’identità culturale alle disuguaglianze sociali. Nel testo di Rampini molte di queste domande cruciali riescono a trovare una risposta.

Qual è il volto inquietante e nascosto della Cina che le élite occidentali e soprattutto europee non riescono a vedere? Che cosa si continua ad ignorare della principale superpotenza antagonista?

“Nel libro Fermare Pechino descrivo molti volti inquietanti: un nazionalismo aggressivo che viene inculcato anche nell’insegnamento scolastico, una visione egemonica e imperiale, una cultura razzista che assegna ai cinesi Han la missione civilizzatrice”. 

Cosa comporta l’abolizione del limite di mandato al segretario del partito comunista cinese? E che giudizio trae della segreteria di Xi?

“Xi Jinping smonta tutte le riforme politiche che furono introdotte da Deng Xiaoping nel tentativo di mitigare i difetti dell’autoritarismo del regime. I due correttivi principali furono la direzione collegiale (per impedire le atrocità di cui si era macchiato Mao) e il limite di durata del mandato, sempre per evitare l’accentramento eccessivo di potere in un leader. Con Xi stanno scomparendo tutti e due. Quand’anche lo si giudichi un leader efficace, lui sta creando le premesse per dei problemi enormi in futuro”.

Perché la sfida che pone la Cina all’occidente è così sofisticata e differente rispetto a quella posta in passato dall’Urss?

“L’Unione sovietica fu sempre una potenza militare e ideologica, mai una vera rivale industriale e finanziaria per gli Stati Uniti. La Cina è tutto questo, e si è conquistata un ruolo enorme dentro le nostre economie. In più ha una stazza demografica che l’impero sovietico non aveva. Pechino ha dimostrato di poter copiare e perfino superare l’Occidente sul terreno industriale; ha sviluppato di recente una capacità d’innovazione autonoma, ci tallona o ci sorpassa nelle tecnologie avanzate. La Repubblica Popolare ha ottenuto questi risultati conservando un regime autoritario, che presenta in modo esplicito come il sistema politico più efficiente e più avanzato. È una sfida frontale all’Occidente, tanto più temibile perché coincide con delle pulsioni autodistruttive dentro le società occidentali”.

I profitti dei colossi digitali hanno segnato in piena pandemia il massimo trionfalismo dei mercati rispetto alle economie reali, sia ad oriente che ad occidente. È la vittoria delle Big Tech sul Big state? E come sta rispondendo la politica di fronte alla deriva della classe medio bassa in conseguenza con la vittoria degli “imperi digitali?

“Big Tech ha stravinto la sfida della pandemia perché tutte le sue piattaforme digitali erano pronte per un mondo in lockdown: dal commercio online all’insegnamento a distanza, dalle videoconferenze allo smartworking, dal cinema casalingo ai videogame. Big Tech oggi è equamente suddiviso tra campioni americani e campioni cinesi, con una preoccupante assenza dell’Europa. Lo strapotere di Big Tech ha già provocato una reazione politica, per adesso molto più forte in Cina che negli Stati Uniti. Xi Jinping ha lanciato nuove politiche di antitrust per contrastare l’abuso di posizioni dominanti, e una campagna per la riduzione delle diseguaglianze. I miliardari cinesi di Big Tech sono sotto attacco. Xi Jinping lo fa per riaffermare il primato indiscusso del partito comunista, ciò non toglie che stia facendo anche delle cose giuste. Biden vorrebbe a sua volta aprire una nuova stagione di antitrust, ma è in ritardo. La spiegazione è semplice: in America quasi tutti i miliardari di Big Tech sono alleati del partito democratico”.

Fermare Pechino, obiettivo o follia? C’è forse da imparare dall’idea di politica industriale e stato interventista, come ai tempi di Roosevelt rispetto alle autocrazie?

“Fermare Pechino è un titolo o uno slogan che non esito a definire irrealistico, perfino presuntuoso e arrogante, se si guarda alla Storia con la esse maiuscola, nei tempi lunghi. La Cina ha 1,4 miliardi di abitanti e 3.500 anni di storia, durante i quali è stata quasi sempre più avanzata e più ricca di noi. La visione di una Cina povera e arretrata è legata ad una fase breve e recente. Nel lungo periodo non fermeremo la sua ascesa. Però a noi interessano anche i tempi brevi, quelli della nostra vita. Nell’immediato dobbiamo cercare di limitare i danni che questa Cina autoritaria può infliggerci. Dobbiamo costruire delle coalizioni e alleanze che possano contenere il suo espansionismo. Anche a costo di copiare la Cina quando attua politiche efficaci. La sua politica industriale, il sostegno dello Stato alle imprese, l’ha portata avanti con un protezionismo duro e spregiudicato. Come Franklin Roosevelt, anche noi dobbiamo essere cinici nel copiare le ricette giuste dei regimi autoritari: tra i cervelli che progettarono il New Deal c’erano simpatizzanti del comunismo e del fascismo”.

Biden sta cercando di usare il politicamente corretto e le istanze del movimento woke come collante sociale di un paese diviso, come Pechino sta sfruttando il nazionalismo come punto di incontro? E perché questo non riesce al POTUS americano?

“Il politically correct, la woke culture, non funzionano affatto come collanti: sono strumenti di sopraffazione, di censura, di dittatura ideologica. Per riparare vecchie ingiustizie ne creano di nuove. Biden è condizionato dall’ala radicale del suo partito che lo porterà a una sconfitta nell’elezione congressuale di metà termine. Ma al di là del ciclo elettorale il fenomeno del politically correct è ben più ampio e più grave: è un suicidio occidentale. Di fronte a una Cina orgogliosa di sé fino alla superbia, c’è la “meglio gioventù” americana che descrive l’Occidente come l’Impero del Male”.

Che ne pensa del wokism, di questo neopuritanesimo iconoclasta? Può essere il collante per la società globale o diventa una giustificazione di una struttura neoliberale selvaggia con una sovrastruttura incapace di risolvere i problemi delle disuguaglianze sociali, puntando il focus esclusivamente sui diritti civili?

“Bisogna chiedersi perché il wokism è stato abbracciato con entusiasmo dall’establishment. È l’ideologia dei miliardari digitali della West Coast, dei grandi media, di Hollywood. La politica identitaria consente di ignorare la questione sociale, le diseguaglianze. L’establishment è felice di promuovere per cooptazione un’élite di afroamericani alla Obama, per intenderci, e disprezza quei bifolchi degli operai bianchi i cui figli non possono andare all’università”.

Quali sono i principali riferimenti culturali, filosofici e politici di Federico Rampini?

“Sono stato un marxista gramsciano a vent’anni, e al tempo stesso ebbi l’immenso privilegio di partecipare ai seminari del liberale Raymond Aron a Parigi, in quella che allora si chiamava l’Ecole Pratique. Ho una formazione eclettica, nella quale da anni prevale lo studio della storia e della geopolitica. Tra i miei autori preferiti: Fernand Braudel, Paul Kennedy, Samuel Huntington, Henry Kissinger, Graham Allison”.