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Tra Brexit e ritorno del nazionalismo: il nuovo Regno Unito di Boris Johnson

Ripreso da “Il Primato Nazionale”



Daniele Meloni rappresenta uno dei massimi esperti di politica e società del Regno Unito presenti in Italia. La sua esperienza di vita e i suoi studi gli hanno fatto acquisire una conoscenza dettagliata sul mondo britannico, che racconta quotidianamente attraverso le proprie collaborazioni professionali. Pertanto, la sua ultima fatica letteraria, intitolata Boris Johnson: l’ascesa del leader conservatore e il Regno Unito post Brexit e pubblicata di recente da Giubilei Regnani, rappresenta molto più di un libro incentrato sull’attuale premier britannico.

Boris Johnson: ritratto di un leader

Certo, la figura di Boris Johnson risulta fondamentale per comprendere gli sviluppi politici successivi al referendum sulla Brexit. Infatti, l’apporto del premier è risultato decisivo per sconfiggere i sentimenti nostalgici verso la Ue dei laburisti, oltre che le resistenze dell’Unione in materia di accordi economici e commerciali. Anche dal suo futuro dipenderanno i nuovi equilibri interni al Partito conservatore, chiamato a restare unito per evitare decisivi fallimenti elettorali alle prossime elezioni.

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Il nuovo nazionalismo britannico

Tuttavia, un ulteriore punto cardine del testo è racchiuso nel sentimento nazionalista che torna d’improvviso d’attualità, in Regno Unito come in altre nazioni europee. Un collante tra le classi sociali che si riconoscono nella difesa del proprio popolo e nel rifiuto delle prevaricazioni politiche esterne, su cui spesso la Ue si concentra per esercitare la propria ingerenza. La lettura del testo di Meloni potrà fungere d’esempio per comprendere e immaginare anche gli sviluppi istituzionali futuri di altri Stati, tra cui quello italiano. Spesso gli scenari maggiormente inattesi possono tramutarsi in realtà attraverso la convinzione di dover esercitare la difesa della propria terra, sia pure remando contro gli interessi delle unioni di turno.

Intervista a Daniele Meloni

Boris Johnson

Quali sono i principali avvenimenti politici che segnano i presupposti per l’arrivo di Boris Johnson a Downing Street?

«Boris Johnson era già un personaggio pubblico conosciuto dagli inglesi e uno dei politici più celebri del Partito conservatore quando era sindaco di Londra. Ma è con il suo ruolo decisivo nel referendum sulla Brexit che la sua carriera politica decolla e la sua ambizione di diventare primo ministro inizia a farsi concreta. Poi, dopo che Theresa May nel 2017 viene azzoppata dal risultato elettorale, appare a tutti evidente che solo Johnson può portare ai conservatori una maggioranza assoluta alla Camera dei comuni e condurre in porto la Brexit. Il risultato della Christmas Election del 2019 costituisce il vertice massimo della sua popolarità: i Tories non ottenevano così tanti seggi dai tempi di Margaret Thatcher».

In che modo ritieni che la Brexit abbia trasformato la società e la politica nel Regno Unito?

«La Brexit ha creato una nuova linea di faglia nella politica inglese tra favorevoli all’uscita dalla Ue, i Leavers, e i favorevoli al mantenimento dello status quo, i Remainers. Per quattro anni non si è parlato d’altro, e il risultato delle elezioni del 2019 è largamente il risultato di questa polarizzazione. Alla fine, anche i partiti europeisti come i LibDems, o quelli come il Labour che chiedevano un secondo referendum, si sono arresi e hanno accettato la Brexit. Quanto alla trasformazione della società, io direi più che altro che la Brexit è stata una conseguenza della trasformazione della società e una risposta agli aspetti peggiori della globalizzazione da parte dell’elettorato che negli ultimi 20 anni non ha potuto approfittare delle sue opportunità».

Tra i punti cardine del tuo testo spicca il ritorno del nazionalismo inglese, in un momento storico dove questo sentimento è considerato obsoleto dalla maggioranza del mainstream. Ce ne parli?

«Il nazionalismo inglese è la forza che ha determinato la Brexit e anche il rinfocolarsi dei nazionalismi delle home nations, e cioè quelli scozzesi e nordirlandesi. Non è un caso che dopo il referendum sull’indipendenza scozzese del 2014 l’allora premier David Cameron promise di risolvere una volta per tutte la questione inglese con l’adozione in Parlamento di un sistema di voto che favorisse i deputati eletti in Inghilterra nell’approvazione delle leggi che riguardavano il territorio inglese. Poi è arrivata la Brexit: tra i circa 17 milioni di voti favorevoli, oltre l’87% proveniva dall’Inghilterra. La Brexit dovrebbe chiamarsi in realtà EngXit, perché è stata un fenomeno in larga parte inglese. Nel corso degli anni abbiamo rivisto i simboli dell’Inghilterra apparire di nuovo nelle città inglesi e non solo: provate a confrontare le bandiere dei tifosi allo stadio per la finale dei mondiali di calcio del 1966 e quelle per la finale degli ultimi europei. Nel ’66 un tripudio di Union Jack, nel 2021 quasi solo croci di San Giorgio».

In che modo il recente scandalo del Party-gate può incidere negativamente sulla figura del premier britannico e sulla sua leadership?

«Si tratta di una questione molto delicata, a maggior ragione visto che alcuni di questi drink post-lavoro sono avvenuti nel periodo di lutto per la morte del principe Filippo. Downing Street si è scusato ufficialmente con la famiglia reale per questo. Johnson è piuttosto accerchiato: media e opposizione lo stanno massacrando invitandolo a dimettersi. Ma la questione è usata anche e soprattutto dai parlamentari della sua maggioranza scontenti per come sta governando altrimenti non avrebbe avuto questa risonanza. Difficile pronosticare cosa potrà succedere: Boris Johnson potrebbe essere costretto alle dimissioni ma potrebbe anche rilanciare. Molte volte è stato dato per morto politicamente e poi è magicamente rinato».

Da esperto del Regno Unito e delle sue vicende politiche, come prospetti gli equilibri interni al Partito conservatore?

«Il Partito conservatore non è mai stato tenero con i suoi leader. Non lo è stato con Churchill, non lo è stato con Eden, non lo è stato con Thatcher, Major, Cameron e May. In questo momento, paradossalmente, Boris Johnson è il punto di riferimento dei tanti che si situano al centro e pensano che cambiare leader adesso sarebbe un azzardo. Ci sono tante correnti e gruppi nel partito – come logico che sia in un movimento che ha il 40% dei consensi – ma si fatica a vedere un’opposizione organica a Johnson o candidati capaci di sfondare negli ex collegi laburisti della muraglia rossa nelle Midlands e nel Nordest come ha fatto lui nel 2019».

Nonostante alcune difficoltà elettorali riscontrate dai conservatori, i Labour non sembrano riusciti a riacquistare un ampio consenso. La loro debolezza potrà rivelarsi un decisivo alleato di Johnson alle prossime elezioni?

«Da quando è stato eletto leader, sir Keir Starmer ha fatto dei passi avanti, anzi, al centro, per riposizionare il partito. Ha abbandonato l’europeismo, anche perché lui fu l’artefice della disastrosa politica post-Brexit dei laburisti, e ha avvolto il Labour nell’Union Jack. In questo momento i sondaggi lo danno molto avanti, ma più che un sentimento popolare pro-Labour sembrano rimarcare una disaffezione dell’elettorato nei confronti di Johnson e di un partito che governa ormai da 12 anni. I problemi, però, non mancano anche per Starmer. Prima di tutto, all’interno del partito la sinistra radicale orfana dell’ex leader Jeremy Corbyn contesta la nuova linea centrista. Poi il maggior sindacato affiliato, Unite, ha annunciato un taglio dei fondi e la sua nuova leader, Sharon Graham, non si è neppure presentata all’ultimo congresso del partito, affermando di “voler occuparsi dei suoi iscritti e non di politica”. Una presa di distanza netta e che fa riflettere».

In che modo prospetti le relazioni politiche e commerciali future tra Regno Unito e Unione europea?

«Londra e Bruxelles continueranno a commerciare e a collaborare fattivamente all’interno degli organismi sovranazionali, Nato e Onu su tutti. Le tensioni attualmente sono ancora alte. Di recente il battibecco tra Johnson e Macron sui pescherecci e il mancato sblocco del protocollo nordirlandese non hanno certo abbassato la temperatura della contesa. Comunque, vale sempre la pena di osservare che l’accordo del dicembre 2020, pur con tutti i suoi difetti, è un unicum nella storia dell’Unione europea: nessuna nazione ha mai ottenuto dei legami commerciali così stretti con Bruxelles, per cui c’è la volontà di continuare a fare affari e a cooperare anche in futuro».

A distanza di anni dal voto sulla Brexit, ritieni che altre nazioni europee possano intraprendere un percorso d’uscita dall’Unione?

«È difficile da dirsi. La prospettiva britannica è diversa da quella degli altri Paesi: un parlamento antico e geloso delle sue prerogative; un rapporto come nessun altro con gli Usa; i legami con i Paesi del Commonwealth; la forza economica e finanziaria della City. Nessun’altra nazione ha questi atout a disposizione. Certo, Bruxelles non deve pensare che, calando dall’alto le sue politiche, non ci sia una reazione di rigetto da parte delle nazioni che fanno parte dell’Unione. I casi di Polonia e Ungheria lo dimostrano. Ma lo dimostra anche la Francia, dove la campagna elettorale sembra un grande referendum tra nazionalismo francese e sovranismo europeista».

Che ruolo geopolitico può giocare la Gran Bretagna nell’epoca del bipolarismo tra Usa e Cina?

«Il Regno Unito è saldamente ancorato all’alleanza atlantica. Gli inglesi dipendono dagli Usa per il loro deterrente nucleare, ma non sono “utili idioti”. Nella nuova strategia di politica estera britannica denominata Global Britain – e presentata alla Camera dei comuni nel marzo 2021 – la regione dell’Indo-Pacifico viene definita cruciale per gli interessi britannici e per i destini del mondo. Gli inglesi vogliono aumentare la loro presenza nell’area, anche a dispetto di quanto pensano gli americani, che con il segretario di Stato Blinken li hanno invitati a restare dalle loro parti, perché più utili altrove. C’è poi l’aspetto commerciale, tutt’altro che secondario: il Regno Unito è dialogue partner dell’Asean e ha appena iniziato le negoziazioni per l’ingresso nell’Accordo globale e progressivo per il partenariato transpacifico (CPTPP), una associazione tra undici Stati che vale il 13% del Pil globale. L’attenzione per l’Asia, le economie e le classi medie emergenti è assoluto. A maggior ragione dopo la Brexit».

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

«Mi piacerebbe continuare a raccontare questo meraviglioso Paese. Ho in mente di scrivere altri libri sul Regno Unito, non voglio certo fermarmi a questo».

Tommaso Alessandro De Filippo

DANIELE MELONI OLTRE IL MAINSTREAM: BORIS JOHNSON, UK E GLOBAL BRITAIN NEL SUO NUOVO LIBRO

Daniele Meloni rappresenta uno dei massimi esperti di UK nel panorama geopolitico italiano. Collaboratore di Atlantico Quotidiano, alla cultura del Regno Unito, alla Brexit ed alla vita reale della nazione ha dedicato i suoi studi ed il suo impegno, culminati nella scrittura di “BORIS JOHNSON. L’ascesa del leader conservatore ed il Regno Unito post Brexit” edito dalla sempre attenta Giubilei Regnani, casa editrice valida nella scelta di testi che superino la narrazione mainstream. All’interno del manoscritto, in uscita il prossimo 3 gennaio nelle librerie, il racconto della vera UK post Brexit ed il percorso di Bojo in seguito a quel 23 giugno 2016 che ancora non smette di dividere e far discutere gli osservatori. Pertanto, analisi e prospettive dell’autore rappresentano per noi fonte di apprendimento notevole su una nazione che contribuirà a segnare il futuro geopolitico globale.

In che modo nasce e si sviluppa l’idea di scrivere questo libro?

Nasce da due considerazioni. La prima è che volevo scrivere qualcosa che mettesse a frutto le mie conoscenze e la mia passione per la politica britannica. La seconda è la mia insoddisfazione relativamente allo story-telling sul Regno Unito e su Boris Johnson dalla Brexit in poi. Abbiamo davvero letto troppe fake news. Davvero si può credere che Johnson sarebbe stato arrestato in caso di mancata ottemperanza di una sentenza della Corte Suprema? O che la Regina sarebbe stata evacuata da Buckingham Palace in caso di hard Brexit? La mia idea era di scrivere qualcosa di più equilibrato sul nuovo corso che ha intrapreso lo UK negli ultimi anni. Spero che i lettori apprezzeranno.

Come valuti la figura del premier britannico nell’attuale scenario geopolitico globale? Ti riconosci nelle sue decisioni recenti?

Boris Johnson è un unicum, non ci sono figure simili nel partito Conservatore e nella politica inglese. È un uomo dotato di un grande fiuto politico e di grande scaltrezza. Paradossalmente tra lui e Cameron era lui il più europeista dei due, come background e percorso politico-intellettuale. La Brexit è stata anche la storia di come BoJo ha cercato di far sloggiare David da Downing Street. Nel libro lo spiego. Johnson è sicuramente molto ambizioso. La nuova Global Britain, il piano per riequilibrare le disuguaglianze tra Londra e il resto dello UK, la riforma della PA, gli investimenti nella difesa e le nuove politiche commerciali all’insegna del free trade fanno di lui e del suo paese dei protagonisti di assoluto rilievo nel panorama della politica internazionale contemporanea.

Boris Johnson attraversa un periodo di riscontri elettorali altalenanti, tra ampie vittorie e qualche recente batosta. Credi che le decisioni prese in merito alla pandemia abbiano influito sui risultati?

L’ultima suppletiva nello Shropshire è stata un massacro per i Tories. Si votava nel seggio di Owen Paterson, il parlamentare dimessosi per lo scandalo sul lobbying e gli elettori hanno punito Johnson e il suo partito. Tuttavia, le suppletive spesso e volentieri si risolvono in voti di protesta contro i governi. Le decisioni prese dall’esecutivo per contrastare il COVID hanno lasciato il segno soprattutto nel partito di Johnson. Novantanove deputati hanno votato contro di lui settimana scorsa sul Covid Pass, per gli eventi a rischio assembramento. Nel paese, invece, i sondaggi dicono che la gente è a favore di misure restrittive se in ballo c’è la salute. Secondo me il calo di consensi nei confronti del Premier è iniziato quando ha aumentato le tasse per finanziare la riforma del Servizio Sanitario Nazionale (NHS) e dell’assistenza sociosanitaria. Molti thatcheriani nel partito non lo hanno digerito e anche le associazioni di categoria come la CBI – la Confindustria britannica – non hanno certo fatto salti di gioia.

In cosa Boris Johnson potrebbe e dovrebbe fungere da esempio per i leader conservatori nostrani?

Io credo sia molto difficile esportare un modello politico da un paese all’altro. La politica britannica è molto diversa dalla nostra. Basti pensare alla legge elettorale o al modello di competizione politica di Westminster e paragonarlo a quello italiano. Credo, però, che in questa fase storica il governo Tory sia l’unico governo di centrodestra tra i paesi più importanti in Europa. È chiaro che può rappresentare un punto di riferimento per il centrodestra italiano, specie ora che il termine “conservatore” sta acquisendo terreno nel dibattito politico. Non dimentichiamo che i Tories governano il Regno Unito da quasi due secoli e che sono il partito del potere per eccellenza in UK. La differenza più lampante con il nostro centrodestra è proprio questa ma è anche la sfida che Salvini e Meloni hanno di fronte: rendere il loro schieramento la “naturale coalizione di governo italiana”.

In che modo valuti l’attuale scenario politico italiano? Come ne prospetti il futuro?

In Italia si deve ripristinare il prima possibile il rapporto tra eletti ed elettori sulla base di un forte legame territoriale. Via il proporzionale e via le candidatura plurime. Gli eletti devono essere espressione dei loro territori di provenienza e rispondere agli elettori ancor prima che ai segretari di partito. Va ripristinata anche la normale dialettica tra maggioranza e opposizione che è stata diluita dalla nascita del governo di (quasi) unità nazionale, con i risultati che stiamo vedendo nel dibattito politico e nella cloroformizzazione di quello mediatico. Sembra che anche il prossimo governo sarà legato mani e piedi all’attuazione del PNRR da quì al 2027 e ai pareri dell’UE sulle nostre leggi di bilancio e non solo. Dobbiamo recuperare fiducia in noi stessi e nella nostra politica anche per avere un rapporto più dialettico e meno prono nei confronti di Bruxelles e dei nostri alleati internazionali.

Puoi esprimerci un tuo giudizio sull’operato comunicativo della classe giornalistica italiana nel corso della pandemia?

Abbiamo assistito a pregevoli reportage anche tra le corsie dei malati di COVID e a delle inchieste di tutto rispetto ma, nel complesso, mi sembra che invece di rendere il potere accountable si stia cercando di attaccare alcune categorie sociali e di pensiero, attribuendo loro ogni colpa per l’aumento dei contagi e per il mancato ripristino della normalità pre-pandemia. In primis, il giornalismo deve essere watchdog del potere, non di Stefano Puzzer, il cui destino mi può interessare molto relativamente. Il narcisismo di alcuni colleghi e delle virostar sta incrinando il rapporto di fiducia tra cittadini e informazione e, di conseguenza, anche quello tra i cittadini ed istituzioni.

Di che misure sociali ed economiche avrebbe bisogno il nostro paese per ottenere una piena ripartenza?

Visto che di “buonsenso” e “responsabilità” parlano tutti, io dico che abbiamo bisogno di più libertà. Quando la pandemia sarà finita – e finirà quando vorremo che finirà – dovremo attuare un programma di tagli alle tasse per essere concorrenziali con i maggiori paesi europei e attrarre imprese e capitali nella nostra nazione. Non mi riferisco al solito pannicello caldo ma ad un vero e proprio shock fiscale. Da anni seguiamo il solito canovaccio: aumenta il debito pubblico e “bisogna” aumentare le tasse per ripianarlo. Poi scopri che il debito pubblico aumenta comunque, i servizi peggiorano e le tasse aumentano (specie per alcune categorie che si trovano nella condizione di doverle sempre pagare). Ma un percorso di crescita è impossibile in questo modo. Anche il vecchio adagio “pagare le tasse per pagarne di meno” – molto popolare a sinistra – è fuorviante: se tutti pagassero le tasse lo Stato sperpererebbe di più e non risparmieremmo un centesimo. Dobbiamo concentrarci sulle politiche energetiche, sull’aumento dei salari (siamo l’unico paese in Europa che negli ultimi 30 anni ha visto una loro compressione e non una loro espansione) e sulla crescita di una classe dirigente all’altezza della complessità del mondo contemporaneo.

Quanto sarà importante introdurre una proposta politica ambientalista che non sfavorisca lavoratori ed imprenditori?

La transizione energetica e la green economy non devono essere pagate dai ceti più deboli e devono avvenire con gradualità e senza ulteriori tasse punitive per le attività imprenditoriali. No alla Plastic Tax – che penalizzerebbe, tra l’altro, un ampio comparto della nostra economia – no a misure che contraggono la crescita economica invece di espanderla. I vertici internazionali sull’ambiente, come l’ultimo di Glasgow, di solito si risolvono in passerelle politiche e aggiungono ben poco alla causa. Mettere d’accordo quasi 200 paesi su un tetto alle emissioni di CO2 tra oltre trent’anni è una chimera che qualsiasi adepto alla realpolitik non può che rigettare. Se anche noi limitiamo le nostre emissioni e una sola azienda cinese ne produce più di Pakistan, Giappone e Sud Corea messi insieme non si può credere alla retorica di “salvare il pianeta”.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sono entusiasta dell’uscita di questo libro, che rappresenta anche il primo libro su Boris Johnson e la Global Britain in Italia. La mia è un’istantanea non solo del percorso politico dell’attuale Premier, ma anche della politica e della società britannica dall’ormai celebre 23 giugno 2016 ad oggi. In futuro vorrei scrivere ancora della politica e della storia di questo paese.