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L’Italia vista da un liberale. Intervista a Angelo Panebianco

L’Italia vista da un liberale. Intervista a Angelo Panebianco

Di Francesco Subiaco


È una controstoria dell’Italia vista da una prospettiva laica e radicale quella scritta dal professor Angelo Panebianco e da Massimo Teodori, che nel loro ultimo saggio, “La parabola della Repubblica. Ascesa e declino dell’Italia liberale”(Solferino). In questo testo Panebianco e Teodori raccontano controcorrente la storia del nostro paese vista dal un punto di vista repubblicano, libertario, liberale e radicale, oltre i pregiudizi e le calunnie di cui è vittima questa tradizione di minoranza. Una storia che parte dai delitti eccellenti del fascismo, da Gobetti e Amendola, fino alla ricostruzione, che passa per Einaudi, Pacciardi e Parri fino a Spadolini, Pannella e Malagodi, raccontando una altra Italia, Risorgimentale e eterodossa, liberale e libertina, che agognava la modernità e anelava una società libera dai dogmatismi delle due grandi chiese dell’Italia repubblicana, quella comunista e quella clericale. Una storia fatta di protagonisti che hanno segnato per sempre la storia nazionale nonostante il peso minoritario della loro tradizione, dalle prediche inutili di Einaudi alla Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, fino alla contemporaneità, mostrando come costante la volontà di costruire un’Italia diversa, fondata sull’individuo e sulle sfide della modernità. Tramite le pagine di Panebianco si scoprono le dinamiche di una Italia che esita e traspare oltre le risse del cattocomunismo e che sogna un avvenire diverso ispirato ai principi della democrazia liberale, fatta di grandi occasioni perse e straordinari esempi di uomini che hanno fondato e cambiato per sempre le nostre istituzioni. Per parlare di questa controstoria italiana abbiamo intervistato il Professor Panebianco tra gli editorialisti più acuti e pungenti del Corriere della sera che attraverso il suo lavoro accademico ha diffuso e analizzato i grandi temi del pensiero liberale.

La cultura laica e liberale in Italia nonostante l’influenza e i successi ottenuti è un progetto minoritario e ancora incompiuto da cui si potrebbe trarre molto?
È stata soprattutto una tradizione di minoranza che ha contato di più nella storia del nostro paese di quanto fosse la sua consistenza elettorale reale. Ciò è dovuto a varie ragioni, soprattutto internazionali, poiché dopo l’ottocento la cultura liberale diventò una cultura politica minoritaria e divissima nel paese, che nonostante queste problematiche svolse un peso culturale nella storia italiana, dall’unità d’Italia al presente, fondamentale.

Che giudizio trae della figura sciamanica e libertariana di Marco Pannella? Il suo Partito Radicale nonostante le numerosi battaglie modernizzatrici ha rappresentato una rivoluzione incompiuta per il liberalismo?
Quella di Marco Pannella fu certamente una rivoluzione incompiuta, causata da due fattori che spiego ampiamente nel libro. Il primo fattore è dato dalle circostanze, poiché Pannella attraverso il Partito Radicale voleva “conquistare” il Partito Socialista per trasformarlo in un “Partito liberale di massa” a cui avrebbe attribuito una tendenza profondamente radicale che avrebbe sconvolto i quadri politici del paese. Un tentativo che purtroppo nel 1979 non gli riuscì, soprattutto perché in quegli anni si insediò nel Psi la leadership di Bettino Craxi che ne sconvolse il destino. L’altro fattore è dato dai limiti caratteriali di Pannella, che non è mai riuscito ad essere un aggregatore ed un mediatore e per questo è stato incapace di conciliare e mediare posizioni diverse che gli avrebbero permesso di realizzare il suo progetto. La sua era una operazione molto a la Mitterand che non poteva essere svolta da una personalità come Pannella, che aveva certamente portato delle notevoli innovazioni modernizzatrici nella politica italiana col suo Partito Radicale, ma che allo stesso tempo non riuscì a compiere un salto di qualità capace di compiere il suo progetto e soprattutto di realizzare una rivoluzione liberale nel paese.


-Durante la stagione del centrismo degasperiano che ruolo hanno giocato figure come Pacciardi, Einaudi, Croce, La Malfa, nonostante il peso elettorale minoritario, nella ricostruzione del paese?
Basta solo ricordare i nomi di questi statisti per vedere quanto le personalità abbiano un peso enorme in politica. Infatti nonostante essi appartengano a culture politiche con un peso elettorale minoritario, sono riusciti a rappresentare questa tradizione attraverso ruoli decisivi nella storia del nostro paese che superano la consistenza elettorale del Pri, del Pli e del Partito d’azione, riuscendo a essere alternativi tra un mondo massimalista e comunista da una parte e una tradizione cattolica democristiana dall’altra. Una componente minoritaria che permane nella storia politica italiana insieme alla spaccatura tra tradizione massimalista e gradualista all’interno della sinistra politica.

Il mito patriottico costituzionale ha impedito una modernizzazione del paese, chiudendo aprioristicamente a qualsiasi revisione?
Secondo me si, poiché la costituzione, figlia di un determinato momento storico, garantisce certamente ampi e diffusi poteri di veto rispetto gli esecutivi che non aiutano i governi durante la loro azione, ma rendono più complessa la gestione dei governanti. Queste criticità sono emerse sempre di più durante la fine della prima Repubblica, ai tempi della prima commissione bicamerale, presieduta dall’on. Bozzi, ma non vennero affrontate dalla classe politica, dimostrando che la proposta della modifica della costituzione resta ancora oggi un tabù che non abbiamo minimamente superato. Nel nostro paese per ragioni culturali da una parte, per interessi personali dall’altra, permane la volontà di non permettere all’esecutivo di avere gli stessi poteri che hanno, per esempio, i primi ministri in Gran Bretagna ed in altri paesi occidentali.

Oggi molti cronisti parlano di restaurazione liberale, che ne pensa?
Io quando sento parlare di Restaurazione Liberale non riesco a rimanere serio, sono solo parole in libertà. Non vedo restaurazione di nessun tipo.

Da tangentopoli ai 5 stelle lo spirito giustizialista non solo non si è mai sopito ma sta facendo nuovi anticorpi contro i tentativi di riforma garantisti, come quelli della Cartabia?
Certamente ci sono forti interessi che vogliono impedire una riforma dell’ordinamento giudiziario e che non si sono mai sopiti. Il problema è che con la fine del vecchio sistema dei partiti si è creato un vuoto di potere in Italia che è stato riempito non dalla politica ma da altri, ovvero dalla burocrazia e dal potere giudiziario.

Berlusconi, padre della rivoluzione liberale nostrana a distanza di anni è stato più un Crono o uno Zeus nella storia del nostro paese?
Certamente c’erano in Berlusconi, o almeno nel primo ingresso di Berlusconi in politica, elementi liberali, che hanno attirato intellettuali vicini al pensiero liberale, come Marcello Pera e Lucio Colletti, ma successivamente questa componente si è rapidamente esaurita. Per questo motivo non riesco a mettere Berlusconi sullo stesso piano di Pannella.

Chi sono i suoi riferimenti culturali?
Da un lato i grandi autori del pensiero sociologico e politico e dall’altro gli autori esponenti del pensiero laico e liberale Italiano. Certamente Einaudi è uno dei miei punti di riferimento.

Come è diventato un liberale?
Credo che questa adesione sia nata in reazione al sessantotto, cercando riferimenti alternativi a quelli della stagione sessantottina, quando ero una matricola universitaria. Sicuramente mi formarono molto la lettura dei testi dell’illuminismo e la vicinanza al mio maestro, Nicola Matteucci. Matteucci, fortemente liberale, è stato il mio punto di riferimento per la mia formazione personale e a lui devo moltissimo.

Luciano Fontana: “Siamo un paese con dei leader effimeri”

-Di Francesco Subiaco



Luciano Fontana è uno dei protagonisti del giornalismo italiano, che attraverso interviste, incontri, saggi ed editoriali ha raccontato la mutazione antropologica che dal 2018 ci ha portato ad essere non più un paese senza leader, bensì una nazione di guest star, istantanee ed effimere. Dalle interviste a Putin agli appelli del Papa, passando per il celebre confronto Letta-Meloni, la nascita del tecnopopulismo e la fine dell’ostpolitik europea, Fontana ha visto da dietro le quinte un mondo nuovo che va dalla fine del sogno antisistema alla rinascita del mito euroatlantico. Una mutazione antropologica e politica che aveva già raccontato nel 2018 nel suo saggio “Un paese senza Leader”(Longanesi) e che in questi ultimi anni ha subito cambiamenti e redenzioni inaspettate che lui ha potuto vedere come cronista, prima, e direttore, poi, tramite i numerosi incontri e confronti. Incontri che hanno accompagnato il percorso di un protagonista del giornalismo italiano, che da giovane corrispondente dell’ANSA di Frosinone è diventato il direttore del primo quotidiano italiano e che nonostante la crisi della carta stampata raggiunge livelli di consenso e vendite come non mai nella sua storia. Fontana nato in provincia di Frosinone, laureato in filosofia con una tesi su Karl Popper, autore cardine del suo pensiero, dal 1986 al 1997 ha lavorato per l’Unità, dove si è occupato di politica e cronaca giudiziaria. Nel 1997 è entrato al Corriere della Sera, dove nel 2003 è diventato vicedirettore, nel 2009 condirettore e nel 2015 direttore. È uno dei principi del giornalismo italiano, un uomo cortese, cauto, meticoloso, dalla voce calma e i lineamenti rassicuranti, sa essere equilibrato e aguzzo, quando parla arriva al succo del discorso, da Montanelli ha ripreso lo stile limpido e scarno, da De Bortoli il gusto del pluralismo, ha una visione britannica del giornalismo e forse per questo, in un panorama segnato da umori e istinti molto latini, è riuscito ha far convergere i consensi di schieramenti opposti, attorno alla sua figura. Abbiamo deciso di intervistarlo per capire se siamo ancora un paese senza leader e se saremo anche, data la crisi della carta stampata, senza giornalisti.

Direttore Fontana, l’Italia in preda ai personalismi vive il paradosso di non riuscire ad esprimere una leadership definita, come nel 2018, siamo ancora “un paese senza leader”?
Siamo un paese con leader effimeri, soprattutto. Leader che diventano astri nascenti, prima, e poi rapidamente precipitano perché non hanno dietro di loro una piattaforma politica seria e fondata sui bisogni del paese, in quanto questi personaggi non hanno una prospettiva su dove portare l’Italia, non presentano programmi concreti, capaci di essere attuati nella realtà, e soprattutto non hanno una classe dirigente capace di applicare e realizzare nei territori queste loro proposte, quando esse dovrebbero essere, invece, il sostegno dei capi nella loro azione politica. Siamo di fronte ad una politica dell’istantaneità che corrode i rapporti politici, brucia personalità che inizialmente sembrano avere un successo ecumenico e che poco dopo scompaiono. Questo scenario continuerà finché non cambierà radicalmente la natura del rapporto tra politica e società, ricostruendo un tessuto politico che parta dal basso, dalle associazioni al territorio, fino a crescere con consapevolezza dei problemi del paese. Senza questa ricostruzione credo sia impossibile la nascita di un leader che come in passato possa dare una prospettiva al paese e guidarlo nei prossimi anni.


Dalla nascita del governo gialloverde alla fine dell’esecutivo Draghi, come è cambiata la classe politica italiana di fronte alla crisi del populismo?
Le considerazioni su questi cambiamenti possono essere fatte in chiaroscuro e presentano delle connotazioni sia positive sia negative su queste metamorfosi. Il 2018, infatti, anno dell’esplosione del populismo, si è aperto con due temi: la tendenza antieuropea della maggioranza delle forze politiche da una parte e una visione isolazionista secondo cui l’Italia poteva fare da sé, profondamente in contraddizione con tutto quello che il nostro paese è ed è stato dal punto di vista economico e politico (dato che l’Italia vive perché è aperto al mondo), dall’altra. Possiamo oggi notare, invece, che queste due questioni siano cadute ormai in secondo piano, e che la maturazione di una parte degli esponenti del Movimento 5 stelle e della Lega, insieme a quello che sta dicendo Giorgia Meloni sulla collocazione euroatlantica dell’Italia, siano due fenomeni positivi, che segnalano una maturazione delle forze politiche. Dal punto di vista delle considerazioni negative su quel periodo dobbiamo, invece, guardare quel che è rimasto del populismo, ovvero quella pulsione immediata che porta a considerare la politica come una risposta ai problemi della pancia del paese senza una progettualità a lungo termine, tramite una fiera delle illusioni che si sta manifestando nelle promesse dei programmi politici e che i partiti stessi che le propongono non potranno mantenere. Permane purtroppo di quella fase la caratteristica di portare avanti nel dibattito pubblico soluzioni semplicistiche ed istantanee di fronte a problemi complessi e seri che è un elemento ancora molto presente e preoccupante.


Da direttore del principale quotidiano italiano, come sta evolvendo il giornalismo di fronte alla società dell’informazione perpetua e digitale e che ruolo resterà alla stampa di fronte a questi cambiamenti epocali?
Io penso che quando ragioniamo del destino dei giornali non dobbiamo mai valutarlo come l’avvenire della carta stampata. La carta sarà un pezzo di un sistema mediatico che avrà in larghissima parte la sua funzione sul digitale, ed esso dovrà mantenere la stessa qualità, accuratezza ed indipendenza che aveva sul formato cartaceo. Se invece vogliamo parlare delle sorti del sistema dell’informazione ho una visione molto positiva, perché se metto insieme i lettori di tutte le piattaforme del Corriere della sera esso è letto oggi come non mai. È chiaro che in un sistema in cui l’informazione arriva da moltissimi punti diversi, dai social al web in maniera poco accurata o falsa, per propagandare interessi politici ed economici, è importante che il sistema dell’informazione faccia conoscere la propria qualità di aderenza ai fatti, la competenza e la libertà d’opinione dei propri agenti, e sappia essere una bussola per il lettore; un ruolo che è ancora più importante oggi durante il bombardamento delle informazioni approssimative a cui siamo soggetti. Se sapremo fare questo, distinguendoci dalla palude della falsificazione e dell’approssimazione, potremmo continuare il nostro mestiere sennò rischiamo di cadere nel mare magnum della mala informazione.


Dall’Unità al Corriere della sera la sua carriera è costellata di incontri e interviste ai protagonisti della nostra storia recente. Quali personaggi la hanno più segnata e a quali incontri è più legato?
Dal punto di vista della mia attività professionale ci sono due incontri che considero molto rilevanti, uno più lontano ed uno più recente. Il più lontano è quello che ho avuto con Vladimir Putin nel 2015, che ritengo importante perché in quella occasione avevo già avuto la sensazione netta che fosse un uomo molto lucido e determinato nel suo disegno di ricostruzione imperiale della Russia, ma pensavo anche che fosse dotato di un certo pragmatismo che gli facesse avere la cognizione che esiste un limite nei rapporti internazionali che non va superato per garantire gli equilibri internazionali. Una constatazione che nel 2015 mi sembrava molto valida, soprattutto alla luce delle aperture che faceva al mondo occidentale dopo la prima crisi di Crimea, ma che oggi considerando ciò è accaduto in questi anni mi ha fatto molto rivedere la mia opinione passata su Putin. Il secondo incontro invece, quello più recente è stato quello con il Papa durante il colloquio che il Corriere della sera ha avuto con il pontefice in piena crisi ucraina e che mostra un Francesco molto deciso ed esplicito nel suo ruolo, critico verso le azioni e le scelte della Nato, ma con una presa di posizione nei confronti della Russia e contro la chiesa russa molto netta. Soprattutto per alcune sue dichiarazioni verso il capo della Chiesa Ortodossa russa Kyrill a cui il pontefice diceva che il patriarca non doveva essere “il chierichetto di Putin”. Una frase che a mio avviso resterà sui libri di storia.
Cosa la ha più colpita di questi personaggi?
Putin più che colpirmi mi ha impressionato, poiché è un uomo capace di attraversarti con lo sguardo, in grado di incutere un forte senso di timore e potenza. Durante il nostro incontro aveva dimostrato di sapere tutto dell’Italia, in quanto fin dalle prime domande mi citò una serie di dati, di statistiche, molto specifiche che dimostravano una conoscenza approfondita del nostro paese, mostrandosi come un uomo dalla memoria portentosa, abituato a leggere molti dossier e a immagazzinare con estrema facilità tante informazioni, fatto probabilmente derivante dal suo passato di spia in Germania. Del Papa, invece, mi ha colpito la sofferenza e il coinvolgimento con cui affrontava queste vicende che si sommavano ad una chiarezza esplicita senza riserve nelle sue affermazioni che sono una forte novità rispetto al passato.
Papa Francesco poi è un uomo molto ironico e spiritoso nelle sue conversazioni private rispetto a come può apparire in pubblico, tutto l’opposto del ricordo che mi ha lasciato Vladimir Putin.
Per lei che cosa è il mestiere del giornalista e come ha iniziato questa sua vocazione?
Mi è sempre piaciuto fare il giornalista e questo mestiere è stato il sogno della mia vita fin da giovane. Un sogno che in alcuni momenti mi è parso difficile se non irrealizzabile, dato che sono nato in una piccola famiglia in provincia di Frosinone, in un contesto che non presentava molte opportunità. Già dal liceo avevo una forte curiosità e passione nei confronti del mondo e fin da quegli anni leggevo e scrivevo molto. Sono stato spinto dai professori e da alcuni amici a inseguire questo sogno e da alcune possibilità che mi hanno dato alcuni giornalisti, permettendomi di crescere.
In questo percorso chi sono stati i suoi maestri?
All’Unità sicuramente Walter Veltroni che mi ha dato molte opportunità e fiducia, facendomi crescere in una esperienza che si voleva affrancare dalla vecchia tradizione del giornale, cercando di trasformarlo in una testata moderna capace di indagare una società nuova con uno sguardo oggettivo sul mondo che non è usuale per un giornale di partito. L’esperienza a l’Unità è stata per una scuola di formazione fondamentale per il mio percorso. Il Corriere della sera è invece, un mondo completamente diverso e la persona a cui devo sicuramente tutto riguardo a questa esperienza è Paolo Mieli. Mieli mi ha fatto assumere al Corriere, permettendomi di iniziare un percorso nuovo e fondamentale per la mia carriera. Ho imparato, sicuramente, molto da Indro Montanelli che inviava i suoi pezzi in redazione sempre brevi, chiari, espliciti e diretti, sviluppando con lui un rapporto di stima e rispetto. Ma la persona a cui devo di più professionalmente è sicuramente Ferruccio De Bortoli che mi ha insegnato il gusto per l’approfondimento, il rispetto del pluralismo, la serietà nel trattare i fatti, senza perdere però l’attenzione nell’andare a fondo nelle notizie senza avere paura di dire cose scomode o fare autocensura per paura di scontentare qualcuno.
Quali sono i suoi riferimenti culturali? Chi c’è nel Pantheon di Luciano Fontana?
Dal punto di vista giornalistico direi Indro Montanelli, come riferimento filosofico invece Karl Popper, su cui ho fatto la mia tesi di laurea, soprattutto per la sua idea di società aperta, un atteggiamento mentale che è maturato con me nel tempo. Dal punto di vista politico penso soprattutto a Luigi Einaudi ed Alcide De Gasperi per le loro idee e per la forza etica che hanno trasmesso al loro agire politico nel ricostruire il paese nel dopoguerra, emtrambi sono stati due personaggi a cui tutti noi italiani dobbiamo moltissimo. Letterariamente parlando leggo moltissimi libri di saggistica, mi piace molto la narrativa americana, Philip Roth, Franzen, “Pastorale americana” e “Le correzioni” sono tra i miei libri preferiti.