Archivi tag: Cina

“Con Meloni l’Italia avrà una nuova centralità strategica e commerciale” parla Fabrizio Luciolli

Di Francesco Subiaco

Il mondo non è un palcoscenico, dove gli individui e i popoli inscenano il gioco delle parti, nella pantomima della storia e dei destini umani, ma è un campo di battaglia. Uno scontro aspro in cui le comunità e le nazioni duellano, sui terreni dell’economia, della strategia, della sopravvivenza. Un duello che oggi si può riassumere nella sfida tra le democrazie occidentali e le autocrazie. Una sfida che inizia dall’indomani della guerra fredda, che si è evoluta, nel contrasto per il predominio sul Mediterraneo e sull’Indo Pacifico. Oggi il braccio di ferro tra autocrazie e democrazie euroatlantiche, passa su tre scenari, tre diversi campi di battaglia, il confine orientale, teatro del conflitto tra Russia e Ucraina, il Mediterraneo, e l’Indo Pacifico, dove sull’indipendenza e la libertà di Taiwan passa il destino degli equilibri della scacchiera internazionale. Scenari e campi di battaglia che rappresentano i nuovi confini tra mondo occidentale e suoi partner etico-ideologici e le autocrazie e gli altri Rogue States. Per meglio comprendere le regole del campo di battaglia abbiamo intervistato Fabrizio Luciolli, Presidente del Comitato Atlantico Italiano e dell’Atlantic Treaty Association (2014-2020), è una delle voce più importanti dell’alleanza euroatlantica in Italia.

In questa fase del conflitto tra Russia Ucraina quali possono essere le strategie e le soluzioni dell’Occidente per contenere le ripercussioni del caro energia?
La strategia più efficace è quella di rimanere coesi, perché le ripercussioni economiche e sociali del conflitto, che non sono diretta conseguenza delle sanzioni come una certa narrazione russa è riuscita a veicolare in Occidente, possono essere superate solo attraverso un’azione solidale delle democrazie occidentali. Ciò è particolarmente vero con riferimento al tema energetico, dove esiste una asimmetria nei prezzi dell’energia all’interno dei diversi paesi dell’Unione Europea. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, questa situazione trova origine nell’insipienza con cui sono state operate le scelte del passato, come la volontà di dire no al nucleare in controtendenza con gli altri paesi europei e la più recente politica di assoggettamento solo ad alcuni fornitori nel settore energetico, nello specifico la Federazione Russa, che hanno portato il nostro paese a scontare, più di altri, il ricatto energetico di Putin. Per tali ragioni le uniche misure che possono mitigare le conseguenze di questo conflitto, prima della cessazione dello stesso, è avere come bussola questo binomio: coesione e solidarietà tra i paesi dell’UE. In tale prospettiva, l’Unione Europea ha attivato numerosi strumenti, ma è necessario organizzarli in maniera ben più coordinata ed efficiente al fine di pervenire a una diversificazione delle fonti, a una integrazione del mercato energetico e un abbattimento dei costi del gas.

Quanto un ritorno al nucleare potrebbe agevolare una politica nazionale energetica autonoma da altri paesi come è stato con la Russia e la Libia in passato?
La via del nucleare è un percorso da perseguire ma che permetterà di beneficiare dei suoi risultati solo tra dieci, quindici anni, secondo le più recenti previsioni. Nell’immediatezza l’Italia ha già intrapreso la strada della diversificazione delle fonti energetiche e dei relativi fornitori, e si stanno testando in prospettiva anche le potenzialità che possono scaturire dall’utilizzo dell’idrogeno, per esempio ricavato dai rifiuti. Tuttavia, nell’attuale criticità di approvvigionamenti energetici appare ineludibile rafforzare la cooperazione europea, anche creando reti volte alla interconnessione e scambio di flussi energetici in situazioni di emergenza così come già avviene nei paesi scandinavi.

-Come si evolverà il conflitto ucraino con il finire dell’autunno?
L’arrivo dell’inverno e delle rigidità dettate dalle condizioni meteorologiche, condizioneranno le dinamiche del conflitto e potrebbero schiudere delle opportunità per un’azione diplomatica che è auspicabile vengano colte. Ad una fase in cui si vanno ridefinendo i rapporti di forza e nella quale Kyiv sta guadagnando terreno, potrebbe far seguito un rallentamento dei combattimenti che nei prossimi mesi avverranno su terreni fangosi, con frequenti piogge e che impediranno un agevole spostamento di mezzi corazzati. Una condizione che penalizzerà le manovre offensive da parte russa e che sarà aggravata dai congelamenti dei mesi invernali. Da parte russa, inoltre, la cosidetta “mobilitazione parziale” richiederà tempo, non solo per il reclutamento forzato di personale militare ma anche per dotarlo di un addestramento basico e successivo dispiegamento al fronte. Giovani riluttanti che, dalle immagini pervenute, appaiono equipaggiati con materiali obsoleti se non talora anacronistici e che si troveranno ad operare su terreni ghiacciati, in cui l’addestramento ricevuto in questi anni dalle forze armate ucraine farà la differenza.
Come valuta la strategia della Russia durante questi mesi?
Putin ha fallito su tutti i fronti: sia sul piano strategico e militare, che su quello politico, diplomatico, economico e sociale. Fino al 23 febbraio scorso, Putin era riconosciuto dalla comunità internazionale come un leader affermato e un politico scaltro. Con il lancio della criminale “operazione speciale” d’invasione non provocata dell’Ucraina, Putin ha dimostrato di non saper capitalizzare il proprio prestigio internazionale sotto il profilo politico, diplomatico e negoziale, perseguendo una strategia fallimentare che in pochi mesi ha devastato oltre l’Ucraina, il suo stesso paese, che è stato impoverito da decine e decine di migliaia di morti. Una strategia che dalla “denazificazione” dell’Ucraina si è oggi palesata come una guerra all’Occidente condotta con una campagna militare criminale, che si va caratterizzando sempre più con azioni di carattere pressoché terroristico, quali il lancio indiscriminato di droni kamikaze sulle popolazioni civili delle città, piuttosto che volte a evocare il terrore dell’uso dell’arma nucleare. Una strategia che ha compattato l’Occidente, non più solo geograficamente ma valorialmente inteso, e che ha avuto come più evidente conseguenza la storica richiesta di adesione alla NATO di Finlandia e Svezia.
Una strategia a cui fa riscontro il fallimento della campagna militare di aggressione all’Ucraina, testimoniata dai diversi cambi di guida e condotta delle operazioni russe sul terreno. A ciò ha fatto riscontro la compattezza dell’Occidente nel sostenere le richieste di aiuti militari e non di Kyiv secondo un principio di cooperazione internazionale in linea con quanto sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite per la legittima difesa del proprio Paese e dei suoi cittadini. Un principio che in queste settimane paesi come Spagna, Francia ed Olanda stanno inverando con l’invio di mezzi volti a dare una maggiore protezione dello spazio aereo dalla minaccia dei droni di produzione iraniana lanciati da Mosca.
Sotto il profilo economico, l’impatto dell’azione di Putin sulla fragile e modesta economia russa appare altrettanto disastroso. Le riserve che prima del conflitto ammontavano a circa 600 miliardi di dollari già pochi mesi dopo il lancio dell’”operazione speciale” erano ridotte a 22 miliardi e sono attualmente stimate pari a 2,2 miliardi. Ciò nonostante, l’aumento spropositato del prezzo con il quale per tutto il 2022 i paesi occidentali hanno continuato ad acquistare il gas russo, anche in quantità superiori al fine di salvaguardare gli stoccaggi. Pertanto, considerato che dal 2023 ci sarà un generale affrancamento occidentale dalle risorse energetiche russe e non avendo la Federazione Russa un’economia diversificata, è verosimile prevederne il collasso economico. Sta all’Occidente e a paesi come Italia e Germania, mantenere un atteggiamento fermo e coerente, senza tentennamenti, per accelerare la presa di consapevolezza e la necessità da parte russa di cessare le ostilità belliche e sedersi a un tavolo negoziale. Una seria e credibile iniziativa che, soprattutto da parte europea, dovrebbe riflettere in prospettiva sul futuro della Federazione Russa.
Sotto il profilo sociale, la campagna militare e la recente “mobilitazione parziale” non solo ha distrutto le prospettive delle nuove generazioni russe ma ha comportato la fuga dal paese di circa un milione delle migliori menti del paese.
Putin ha quindi commesso l’errore di portare nel conflitto anche la società civile russa?
All’inizio dell’aggressione all’Ucraina lo stato maggiore russo era riuscito a tenere fuori dalle conseguenze del conflitto la società civile e, in particolare, le élites di Mosca e San Pietroburgo. L’attuale “mobilitazione” ha rivelato alla società civile russa il carattere di “guerra” all’Occidente e non più di “operazione speciale” regionale, minando quella compattezza nazionale russa che aveva caratterizzato le prime fasi del conflitto. Le ripercussioni economiche della guerra e delle sanzioni, il reclutamento forzato dei giovani hanno fatto venir meno l’unità del fronte interno a più livelli. Le minacce del possibile utilizzo di armi nucleari tattiche e le rappresaglie russe condotte all’indomani del crollo del ponte di Kerch con il lancio indiscriminato di 84 missili su obiettivi ucraini civili, non sono state accolte favorevolmente dallo stato maggiore russo, anche in ragione della scarsità di materiale militare che non è più in grado di riassortire. Si stima che alla Federazione Russa occorrerebbero circa 5 anni per ricostituire la forza terrestre dei tank e gli altri materiali militari andati distrutti in questi mesi di guerra.
Evocare la minaccia nucleare così come il lancio terroristico da parte russa di missili e droni su obiettivi civili ucraini rappresentano un evidente segnale d’impotenza da parte russa, che cela, tuttavia, un indice di pericolosità, piuttosto che delle opportunità che non vanno entrambe sottovalutate.

Una strategia del terrore che si scontra contro la cooperazione internazionale dei paesi occidentali che grazie ad una compattezza ed unità comune forse riusciranno a trascinare Putin sul tavolo delle trattative per mettere fine a questa guerra. Per fortuna in questi giorni si vede qualche spiraglio …

Può spiegarsi meglio?
La strategia del terrore, evocata con la minaccia nucleare piuttosto che con il lancio di missili e droni, a fronte di una compattezza occidentale e resistenza ucraina, dischiude altresì degli spiragli di dialogo che potrebbero far presagire ad un rilancio di un tavolo negoziale. Recenti dichiarazioni da parte russa affermano, per la prima volta, che una soluzione diplomatica è possibile a patto che sia salvaguardata la sicurezza della Federazione Russa.
L’Occidente secondo lei saprà rispondere di fronte a questi segnali?
Confido che l’Occidente sappia prefigurare uno scenario post-bellico non solo per ciò che attiene la necessaria ricostruzione dell’Ucraina, politica economica, sociale e di sicurezza, ma anche per ciò che riguarda il futuro delle relazioni con la Federazione Russa. Prospettiva, quest’ultima, che attualmente manca e che è quanto mai necessario sviluppare e favorire, anche per evitare a Mosca derive ancor più oltranziste. Se analizziamo le ultimi dichiarazioni di Putin e ascoltiamo attentamente le parole del suo discorso postreferendario, emerge quanto a Mosca stia assumendo maggior peso la componente nazionalistica che durante le più recenti fasi del conflitto ha attaccato le istituzioni militari russe, salvo la presidenza, reclamando una maggiore uso della violenza militare e con ciò acquisendo un crescente credito popolare e presso lo stesso Putin. Nell’attuale critica fase del conflitto, con una Federazione Russa in crisi e un inverno che potrebbe mitigare le crudeltà del conflitto, l’Occidente diversamente in difficoltà sarà in grado di mantenere una posizione coesa ed esprimere una leadership in grado di confrontarsi con Mosca e interdire i rischi di una potenziale deriva oltranzista?
Come giudica il ruolo di Erdogan nella scacchiera globale?
L’analisi dell’azione della Turchia in questi e nei prossimi mesi non può essere disgiunta dalle preoccupazioni di Erdogan per le elezioni presidenziali del 2023. È verosimile attendersi una politica a carattere intermittente, così come sta avvenendo sul processo di ratifica dell’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO e sugli ultimi dossier, ricercando soprattutto il sostegno degli Stati Uniti per risollevare la lira turca vittima di una pesante inflazione e vedere garantita la solidità del confine orientale, in chiave anti PKK. E’, pertanto, nella chiave elettorale che andranno ponderate le azioni, anche di negoziato e visibilità internazionale, che verranno adottate da Erdogan nei prossimi mesi.
Sta nascendo una nuova guerra fredda tra Autocrazie e democrazie occidentali?
Non credo si vada cementando un fronte delle autocrazie in quanto oggi più che mai il ruolo della Cina è preponderante e a lungo termine assorbirà nella sua orbita le altre, prima fra tutte la Russia che uscirà dissanguata dal conflitto con l’Ucraina. La vera sfida globale dell’Occidente è e rimane la Cina. Tuttavia, la sfida con Pechino oggi passa per Kyiv. Mi spiego meglio, in queste ore sta circolando un documento chiamato Kyiv Security Compact, dell’ex segretario generale della Nato Rasmussen e da alcuni paesi Nato, che vorrebbero un agreement, per rafforzare in maniera codificata il rapporto stabilito con l’Ucraina. Una relazione che sia più forte del memorandum di Bucarest del 1994, che annunciava delle garanzie di sicurezza da parte della Russia all’Ucraina in cambio della cessione delle armi nucleari dislocate sul suo territorio (uno di quei tredici trattati e accordi internazionali, violati da Putin con l’aggressione del 24 febbraio), e che possa garantire la stabilità del confine orientale attraverso un accordo più solido e più forte, che non rappresentanti la membership Nato dell’Ucraina, ma ne garantisca la propria sicurezza e capacità di difendersi. La strutturazione del rapporto con l’Ucraina ed una sua futura stabilità, permetterebbe alla comunità euro-atlantica di dedicare maggiore attenzione e risorse alla regione indo-pacifica ed alla sfida rappresentata dalla Cina, rafforzando i partenariati con paesi like-minded dell’area. In tale prospettiva, può prefigurarsi una polarizzazione del mondo ma non più delimitata da confini territoriali o geografici, ma da valori di libertà e del rispetto delle regole del diritto. Valori che hanno condotto paesi della regione dell’Indo-Pacifico a partecipare, lo scorso giugno, al vertice NATO di Madrid.

Di fronte a questa polarizzazione quanto la partita tra queste diverse potenze si gioca su Taiwan?
Taiwan costituisce un faro di democrazia nella regione dell’Indo-Pacifico e ha per l’Occidente una valenza strategica di estrema rilevanza allorquando si consideri che Taipei detiene il 66% della produzione tecnologica del mercato mondiale dei microchip e che quel piccolo stretto vede transitare annualmente il 50% dei container che arrivano in Europa e negli Stati Uniti.

Quale dovrebbe essere la bussola del futuro governo Meloni?
Quale presidente del Comitato Atlantico Italiano ho particolarmente apprezzato le dichiarazioni dell’On. Meloni laddove ha inequivocabilmente collocato l’Italia nel solco europeo ed atlantico tracciato dai padri fondatori della Repubblica, i quali ritennero che l’Italia potesse perseguire più efficacemente i propri interessi nazionali attraverso una partecipazione attiva in seno alle organizzazioni euro-atlantiche. Oggi, in particolare, è attraverso un rinnovato rapporto transatlantico e un ancor più incisivo ruolo nella NATO che l’Italia potrà bilanciare talune velleità carolingie di una Europa post-Brexit. Nell’attuale fase di ricerca di una nuova stabilità del sistema internazionale, l’Italia può costituire il perno insostituibile di una rinnovata comunità euro-atlantica che affronti le sfide del futuro, Cina in primis, con un approccio globale bilanciato anche sulla regione del Mediterraneo allargato, ove l’Italia si proietta con 8.000 chilometri di coste, da sviluppare per intercettare i traffici commerciali destinati all’Europa. Una centralità strategica e commerciale dell’Italia che confido il prossimo governo saprà perseguire.

L’indecifrabile dragone: quante partite gioca davvero la Cina in questo conflitto?



– Tommaso Alessandro De Filippo

Abbiamo spesso discusso della Cina e delle sue mire in ambito geopolitico, raccontandone i progressi economici e, soprattutto, militari compiuto nell’ultimo decennio. In occasione dello scoppio del conflitto tra Russia ed Ucraina la posizione del Dragone è stata sin dal principio oggetto di analisi ed osservazioni numerose, con chiavi di lettura piuttosto differenti a seconda degli osservatori.
Non possedendo una sfera magica ci è impossibile definire con certezza i comportamenti del prossimo futuro e dei prossimi anni che Pechino avrà nei confronti dell’Occidente, in uno scenario globale sempre più complesso e ricco di continui colpi di scena. Quel che sappiamo con certezza è che già da anni l’Occidente non ha più il monopolio della finanza mondiale, che gli ha permesso in passato di rappresentare l’unico contenitore economico di cui potersi giovare per qualsiasi nazione estranea al continente americano ed europeo.

Alle origini dell’espansione della Cina

La stessa Cina deve la propria espansione principalmente alle aperture commerciali ricevute durante la presidenza USA di Richard Nixon (che la favorì in funzione anti URSS) e poi all’ingresso nel WTO, che le spalancò il mondo del nostro commercio, utilizzato magistralmente per aumentare la propria potenza economica. Tuttavia, Pechino ha da tempo maturato la decisione di “disconnettersi” dal nostro sistema economico e tecnologico, decidendo saggiamente di sviluppare il proprio piano di uscita diluendolo nel tempo, in attesa del momento effettivo di autonomia economica. Infatti, ad oggi la Cina ha ancora una necessità irrinunciabile di esportare in Occidente prodotti commerciali e soprattutto materie prime come il Litio (estratte dai territori del sudamerica contesi con gli USA) che sono fondamentali per favorire la tanto ricercata riconversione verde ed elettrica. Mira che, connessa con la colonizzazione di buona parte dell’Africa e con il piano d’inglobare l’Eurasia le sta lentamente riuscendo.

Il patto con L’Iran

Ne è dimostrazione il patto stipulato nel 2021 con l’Iran, che comprende la creazione di una nuova banca mondiale in Medio Oriente nei prossimi anni. Teheran è infatti un partner fondamentale: contrasta Israele nel territorio e sta riuscendo a stipulare nuovamente un accordo sul nucleare con la presidenza di Joe Biden. Questo scenario comprometterà irrimediabilmente gli Accordi di Abramo stipulati da Donald Trump, dato che la collaborazione tra USA e Teheran di fatto azzera le relazioni statunitensi con l’Arabia Saudita, nemico per definizione dell’Iran, che fino ad oggi si era giovata del supporto militare americano nello Yemen, dove fronteggia la fazione degli Houthi, direttamente collegata a Khamenei ed al governo iraniano.
Tra l’altro, nel trattato tra USA ed Iran sul JPCOA pesa notevolmente la mediazione russa sviluppata fino agli scorsi mesi, motivazione principale per cui Joe Biden, pur sapendo del probabile conflitto in Ucraina non ha applicato deterrenza alcuna verso Mosca. Uno scenario di scontro tra potenze e polveriera mediorientale in cui Pechino si giova ed inserisce come attore protagonista.

Pechino e Mosca

Tuttavia, tra i tasselli necessari per riuscire a creare un continente geopolitico alternativo e capace di competere con il nostro c’è senza dubbio la Russia. Pechino ha da anni supportato Mosca nell’aggirare le nostre sanzioni economiche, pagandone parte del debito e stringendo un rapporto economico che in questa fase va espandendosi. Ad esempio, prima dell’inizio del conflitto Pechino aveva già garantito a Mosca l’acquisto di tutto il gas ed il petrolio che sarebbe stato colpito dalle sanzioni occidentali, con la promessa annessa di pagarlo in Euro. Motivazione che evidenzia come Xi Jinping fosse a conoscenza del piano di Vladimir Putin e probabilmente nel corso della visita dello Zar a Pechino del 4 febbraio scorso avesse richiesto solo l’attesa della fine delle Olimpiadi invernali, momento di propaganda per il regime cinese da non marginalizzare con l’attenzione mediatica rivolta esclusivamente ad un conflitto scoppiato nel cuore d’Europa.

La guerra in Ucraina conviene alla Cina?

Questo porta a compiere un’osservazione necessaria, chiedendoci se alla Cina questa guerra convenga realmente. Sul piano economico imminente assolutamente no. Come ribadito poc’anzi, la Cina ha necessità di esportare in Occidente e non ha al momento la convenienza ad affrontare una disconnessione dal nostro sistema economico, per cui ancora non è pronta. Inoltre, nella contesa nazione Ucraina passa proprio il filo diretto delle “Vie della Seta” che agganciano Pechino alle nostre economie nazionali. Motivazione per cui la guerra le reca un danno economico proficuo nell’immediato e la espone al rischio di ripercussioni finanziarie da parte dell’Occidente, che ritenendola co-belligerante con Mosca potrebbe decidere di sanzionarla, danneggiandola consistentemente.
Ma allora perché la Cina non prova a fermare Putin? Probabilmente per una motivazione più semplice del previsto: pur perdendo nell’immediato dei guadagni finanziari, Pechino sta cogliendo l’opportunità per ripulire la propria reputazione internazionale, provando ad apparire come papabile mediatrice distante dalle logiche imperiali delle altre nazioni. Inoltre, un conflitto in piena Europa ricaccia irrimediabilmente gli USA e la UE nei blocchi della guerra fredda, distraendoli dalle operazioni geopolitiche che Pechino vuol condurre a lungo termine. Infatti, avvicinare una Russia sanzionata pesantemente, sull’orlo del default economico, considerata un paria dalla quasi totalità dell’Occidente è un vantaggio cospicuo per la Cina. Sostenendola economicamente e, se necessario, militarmente potrà inglobarla nel prossimo futuro, o almeno considerarla senza alcun dubbio un partner minore dell’alleanza.

La questione indiana

Inoltre, la Russia è fornitrice della quasi totalità degli armamenti all’India, ex colonia britannica e storico alleato occidentale, membro addirittura di Aukus, l’alleanza militare guidata dal Regno Unito e gli USA con l’Australia ed appunto l’India proprio in chiave anticinese. L’astensione dell’India sul voto alle sanzioni a Mosca rischia di allontanarla dall’Occidente, avvicinandola a Putin e, di conseguenza, conducendola a più miti consigli sulle azioni da compiere contro la Cina negli anni a venire. Inoltre, sommando India, Russia, Cina e Pakistan (le principali nazioni contro le sanzioni) raggiungiamo un numerico di circa 3 miliardi di persone. Quasi mezzo mondo contrario pronto se necessario a creare un contesto alternativo volto  a contrastare la supremazia geopolitica occidentale. Uno scenario che potrebbe delinearsi relativamente presto e che, complice l’attuale debolezza di UE e presidenza di Joe Biden, spingerà sempre più i rivali ad avanzare azioni militari per mettere alla prova le capacità di reazione occidentali. Oggi l’Ucraina è un test per il riassetto degli equilibri geopolitici mondiali, magari domani sarà Taiwan a fungere da prova finale per la Cina per provare lo scacco matto nei confronti degli USA.
Tommaso Alessandro De Filippo 

FEDERICO RAMPINI RACCONTA LA MINACCIA CINESE

– Francesco Subiaco

Federico Rampini è tra i massimi giornalisti della nostra epoca, capace di indagare le crisi di un Occidente infetto e diagnosticare le evoluzioni più sconcertanti delle autocrazie. Lo ha fatto tramite saggi come “La seconda guerra fredda”, “Il secolo cinese”, e continua a farlo con il suo ultimo “Fermare Pechino”. Ma cos’è Fermare Pechino? Uno slogan, un auspicio, una illusione? Questo testo è, soprattutto, la lucida e visionaria analisi del risveglio della Neo-Cina, che al contrario dell’affermazione di Henry Kissinger, dopo il suo millenario sonno, non ha più l’illusione di poter fare a meno dell’Occidente, diventando non più una potenza isolata, come si è illuso il vecchio mondo, ma imponendosi come nazione Imperiale, moloch nazionalista, colonizzatore, tecnocratico. Sfatando il mito che fa della Cina la grande miniera di manodopera e merce a basso costo degli stati capitalisti, creandone uno diverso, postumano, che fonda il suo primato sullo sviluppo tecnico, sull’innovazione, sulla solidità granitica e totalitaria del tessuto sociale. Una potenza che abbandona il capitalismo con caratteristiche cinesi, iniziato con Deng Xiaoping, inaugurando un imperialismo con caratteristiche cinesi, che si insinua negli stati balcanici, che lobotomizza i paesi in via di sviluppo con una strategia neocoloniale, in nome di un destino messianico che si incarna nella figura del celeste segretario Xi Jinping. Lanciando una sfida ai paesi occidentali, disgregati ed infetti dal politically correct, molto più sofisticata e terribile di quella che un tempo fu dell’Urss, poiché sfrutta il neoliberismo sfrenato, senza barriere e senza limiti, violandone le regole, imponendosi come leader nei settori in cui si insinua, attraverso una egemonia soft. Una sfida che non potrà essere nemmeno affrontata se non si capisce prima quali sono i punti di forza del proprio sfidante. Come recita il sottotitolo del saggio di Rampini, “capire la Cina per salvare l’Occidente”, è fondamentale comprendere quali sono i punti di forza della Neo Cina, quali sono i terreni su cui i paesi occidentali si devono confrontare, come un tempo la democrazia americana tramite Franklyn D. Roosevelt è riuscita a vincere le sfide del totalitarismo. Riuscendo a rispondere alle grandi domande del nostro tempo, dall’immigrazione all’AI, dall’identità culturale alle disuguaglianze sociali. Nel testo di Rampini molte di queste domande cruciali riescono a trovare una risposta.

Qual è il volto inquietante e nascosto della Cina che le élite occidentali e soprattutto europee non riescono a vedere? Che cosa si continua ad ignorare della principale superpotenza antagonista?

“Nel libro Fermare Pechino descrivo molti volti inquietanti: un nazionalismo aggressivo che viene inculcato anche nell’insegnamento scolastico, una visione egemonica e imperiale, una cultura razzista che assegna ai cinesi Han la missione civilizzatrice”. 

Cosa comporta l’abolizione del limite di mandato al segretario del partito comunista cinese? E che giudizio trae della segreteria di Xi?

“Xi Jinping smonta tutte le riforme politiche che furono introdotte da Deng Xiaoping nel tentativo di mitigare i difetti dell’autoritarismo del regime. I due correttivi principali furono la direzione collegiale (per impedire le atrocità di cui si era macchiato Mao) e il limite di durata del mandato, sempre per evitare l’accentramento eccessivo di potere in un leader. Con Xi stanno scomparendo tutti e due. Quand’anche lo si giudichi un leader efficace, lui sta creando le premesse per dei problemi enormi in futuro”.

Perché la sfida che pone la Cina all’occidente è così sofisticata e differente rispetto a quella posta in passato dall’Urss?

“L’Unione sovietica fu sempre una potenza militare e ideologica, mai una vera rivale industriale e finanziaria per gli Stati Uniti. La Cina è tutto questo, e si è conquistata un ruolo enorme dentro le nostre economie. In più ha una stazza demografica che l’impero sovietico non aveva. Pechino ha dimostrato di poter copiare e perfino superare l’Occidente sul terreno industriale; ha sviluppato di recente una capacità d’innovazione autonoma, ci tallona o ci sorpassa nelle tecnologie avanzate. La Repubblica Popolare ha ottenuto questi risultati conservando un regime autoritario, che presenta in modo esplicito come il sistema politico più efficiente e più avanzato. È una sfida frontale all’Occidente, tanto più temibile perché coincide con delle pulsioni autodistruttive dentro le società occidentali”.

I profitti dei colossi digitali hanno segnato in piena pandemia il massimo trionfalismo dei mercati rispetto alle economie reali, sia ad oriente che ad occidente. È la vittoria delle Big Tech sul Big state? E come sta rispondendo la politica di fronte alla deriva della classe medio bassa in conseguenza con la vittoria degli “imperi digitali?

“Big Tech ha stravinto la sfida della pandemia perché tutte le sue piattaforme digitali erano pronte per un mondo in lockdown: dal commercio online all’insegnamento a distanza, dalle videoconferenze allo smartworking, dal cinema casalingo ai videogame. Big Tech oggi è equamente suddiviso tra campioni americani e campioni cinesi, con una preoccupante assenza dell’Europa. Lo strapotere di Big Tech ha già provocato una reazione politica, per adesso molto più forte in Cina che negli Stati Uniti. Xi Jinping ha lanciato nuove politiche di antitrust per contrastare l’abuso di posizioni dominanti, e una campagna per la riduzione delle diseguaglianze. I miliardari cinesi di Big Tech sono sotto attacco. Xi Jinping lo fa per riaffermare il primato indiscusso del partito comunista, ciò non toglie che stia facendo anche delle cose giuste. Biden vorrebbe a sua volta aprire una nuova stagione di antitrust, ma è in ritardo. La spiegazione è semplice: in America quasi tutti i miliardari di Big Tech sono alleati del partito democratico”.

Fermare Pechino, obiettivo o follia? C’è forse da imparare dall’idea di politica industriale e stato interventista, come ai tempi di Roosevelt rispetto alle autocrazie?

“Fermare Pechino è un titolo o uno slogan che non esito a definire irrealistico, perfino presuntuoso e arrogante, se si guarda alla Storia con la esse maiuscola, nei tempi lunghi. La Cina ha 1,4 miliardi di abitanti e 3.500 anni di storia, durante i quali è stata quasi sempre più avanzata e più ricca di noi. La visione di una Cina povera e arretrata è legata ad una fase breve e recente. Nel lungo periodo non fermeremo la sua ascesa. Però a noi interessano anche i tempi brevi, quelli della nostra vita. Nell’immediato dobbiamo cercare di limitare i danni che questa Cina autoritaria può infliggerci. Dobbiamo costruire delle coalizioni e alleanze che possano contenere il suo espansionismo. Anche a costo di copiare la Cina quando attua politiche efficaci. La sua politica industriale, il sostegno dello Stato alle imprese, l’ha portata avanti con un protezionismo duro e spregiudicato. Come Franklin Roosevelt, anche noi dobbiamo essere cinici nel copiare le ricette giuste dei regimi autoritari: tra i cervelli che progettarono il New Deal c’erano simpatizzanti del comunismo e del fascismo”.

Biden sta cercando di usare il politicamente corretto e le istanze del movimento woke come collante sociale di un paese diviso, come Pechino sta sfruttando il nazionalismo come punto di incontro? E perché questo non riesce al POTUS americano?

“Il politically correct, la woke culture, non funzionano affatto come collanti: sono strumenti di sopraffazione, di censura, di dittatura ideologica. Per riparare vecchie ingiustizie ne creano di nuove. Biden è condizionato dall’ala radicale del suo partito che lo porterà a una sconfitta nell’elezione congressuale di metà termine. Ma al di là del ciclo elettorale il fenomeno del politically correct è ben più ampio e più grave: è un suicidio occidentale. Di fronte a una Cina orgogliosa di sé fino alla superbia, c’è la “meglio gioventù” americana che descrive l’Occidente come l’Impero del Male”.

Che ne pensa del wokism, di questo neopuritanesimo iconoclasta? Può essere il collante per la società globale o diventa una giustificazione di una struttura neoliberale selvaggia con una sovrastruttura incapace di risolvere i problemi delle disuguaglianze sociali, puntando il focus esclusivamente sui diritti civili?

“Bisogna chiedersi perché il wokism è stato abbracciato con entusiasmo dall’establishment. È l’ideologia dei miliardari digitali della West Coast, dei grandi media, di Hollywood. La politica identitaria consente di ignorare la questione sociale, le diseguaglianze. L’establishment è felice di promuovere per cooptazione un’élite di afroamericani alla Obama, per intenderci, e disprezza quei bifolchi degli operai bianchi i cui figli non possono andare all’università”.

Quali sono i principali riferimenti culturali, filosofici e politici di Federico Rampini?

“Sono stato un marxista gramsciano a vent’anni, e al tempo stesso ebbi l’immenso privilegio di partecipare ai seminari del liberale Raymond Aron a Parigi, in quella che allora si chiamava l’Ecole Pratique. Ho una formazione eclettica, nella quale da anni prevale lo studio della storia e della geopolitica. Tra i miei autori preferiti: Fernand Braudel, Paul Kennedy, Samuel Huntington, Henry Kissinger, Graham Allison”.

STEFANO MAGNI: “IN ITALIA TROPPI SONO AFFASCINATI DA PUTIN. LA GERMANIA HA TRADITO LA NATO”

– Tommaso Alessandro De Filippo

Stefano Magni è uno dei massimi esperti di politica estera, attento alle dinamiche geopolitiche che il mainstream non racconta. Si occupa principalmente delle vicende ucraine, argomento cardine del nostro dialogo insieme alla fascinazione verso Putin che troppi in Italia subiscono e manifestano. Attualmente, Magni è costante collaboratore de La Nuova Bussola Quotidiana, Il Giornale.it ed Atlantico Quotidiano. L’ascolto delle sue analisi e prospettive rappresenta per noi una preziosa fonte di ascolto e formazione.

Può esprimerci una sua considerazione sui venti di guerra attuali tra Ucraina e Russia?

La Russia non ha mai digerito la separazione ucraina, ieri dall’URSS ed oggi dalla Russia stessa. Ha tollerato la distanza fino al 2014, perchè poteva permettersi di controllare per motivazioni economiche e politiche il governo ucraino, attraverso l’utilizzo di presidenti fantoccio, ultimo in ordine cronologico Viktor Fedorovyč Janukovyč. Tuttavia, con la ribellione popolare del 2014 la Russia ha compreso di dover iniziare ad utilizzare le maniere dure nel territorio. In primis, ha occupato la Crimea a mano militare, per poi manovrare ad hoc il referendum nella zona, vinto non a caso con il 95%. Inoltre, ha alimentato la guerriglia nel Donbass, dove ci sarà pure una popolazione russofona affine a Mosca, che non avrebbe potuto però innescare una guerriglia senza l’appoggio di forze speciali del Cremlino, che hanno addestrato l’esercito locale. Ciò a cui stiamo assistendo ora è un semplice proseguo ed aggiornamento di un conflitto già esistente da 8 anni, che ha già causato oltre 16mila morti ed un milione di sfollati e profughi interni. Tuttavia, le motivazioni del conflitto attuale sono solo nella mente di Putin: non è cambiato il governo ucraino rispetto agli anni scorsi, il presidente Volodymyr Zelens’kyj è stato eletto dai 2/3 del popolo (compresi i russofoni). Pertanto, ciò lo rende uno dei presidenti maggiormente ben disposti al dialogo con Mosca. Dal novembre del 2021 Putin ha iniziato a schierare al confine 150mila uomini armati senza alcuna ragione plausibile, che rappresentano una chiara intimidazione. Dal mio punto di vista l’autocrate sta provando a mettere a dura prova l’Ucraina ed il livello di reattività dell’Occidente, in un momento in cui esso è diviso e debole.

Crede che USA e NATO non stiano attuando una strategia efficace nella trattativa con Mosca e si stiano rilevando deboli?

La NATO sta dimostrando di essere disunita, dato che due nazioni chiave come Germania e Francia stanno conducendo una diplomazia autonoma. I tedeschi dimostrano la veridicità di quanto denunciato qualche anno fa da Donald Trump, cioè la propria dipendenza dal gas russo. La politica tedesca è dettata primariamente dai propri interessi economici, che attraverso i due nuovi gasdotti NordStream la legano a Mosca. Tutto questo la rende anello debole della NATO e finta alleata dell’Ucraina: non invia armi a Kiev ed ha impedito ad altri paesi come la Lettonia l’invio di armi di fabbricazione tedesca, volto a sostenere il governo e l’esercito ucraino. Una politica di sabotaggio interna all’alleanza a cui si aggiunge la Francia che sotto traccia cerca di condurre trattative a nome della UE, senza alcun fine chiaro ed annunciato pubblicamente. La politica francese ha sempre dimostrato il proprio egoismo e disinteresse verso la NATO. A tali problematiche si aggiungono quelle comportate da paesi minori come l’Ungheria, stato nazionalista indipendente che ha più vicinanza alla Russia piuttosto che all’Ucraina, con cui ha uno storico contenzioso territoriale in atto. Infatti, alcune regioni all’estremo occidente ucraino sono rivendicate da Bupadest. Tuttavia, anche la nostra nazione dimostra la propria vicinanza ideologica al Cremlino, dato che soluzioni alternative al rifornimento del gas proveniente da Mosca non si stanno trovando in fretta, la vicenda TAP ne è un esempio.

Sarà possibile contrastare l’ambiguità di alcune nazioni UE nei riguardi di Russia e Cina? Se si, come?

Cina e Russia sono di fatto alleate e rappresentano una problematica comune da affrontare a viso aperto. Come si riusciranno a contrastare le ambiguità europee dipende dagli USA: dovrebbero giocare a carte scoperte come avvenuto con Trump, che ha denunciato il doppio gioco della Germania. Anche in ragione di ciò, non dovrebbero permettere che la UE si difenda da Cina e Russia grazie alla NATO ed agli Stati Uniti stessi e poi vada a fare accordi commerciali non necessari con Mosca e Pechino.

A cosa è dovuta la fascinazione di alcuni occidentali verso Vladimir Putin?

In Italia soprattutto la si vede tanto. Pur non avendo affinità storiche o culturali con la Russia assistiamo ad una grande fascinazione di intellettuali ed opinionisti verso il Cremlino e la sua propaganda. In passato avevamo il PCI che era alle dipendenze dell’URSS. Oggi non c’è più ma abbiamo ancora esponenti che credono il male sia l’Occidente, sia a sinistra che a destra. Questa cultura antiamericana ha visto aggiungersi una campagna di successo di Soft Power russo, che affonda le proprie origini nel 2004, in seguito alle rivoluzioni colorate della Georgia e dell’Ucraina, che hanno fatto temere a Putin che una rivoluzione potesse scoppiare anche con l’appoggio dell’Occidente. Pertanto, da lì ha iniziato ad incrementare la propaganda televisiva e creare strutture che finanziassero e contattassero Think Thank italiani, università, redazioni dei quotidiani e grandi aziende, in particolar modo del settore bancario ed energetico. Anche all’interno della Chiesa cattolica si è strutturata una influenza dovuta ai rapporti con il mondo ortodosso. Questo lavoro ha proseguito il progetto dell’URSS, creando un senso comune filo-russo a cui assistiamo ogni volta che la Russia affronta problematiche geopolitiche.

Come valuta le attuali restrizioni della libertà personale decise dall’esecutivo italiano?

Purtroppo siamo un caso quasi unico nel mondo. La pandemia sta finendo ma nonostante ciò si persiste nelle chiusure e nelle limitazioni delle libertà individuali. Ultimo oggetto di propaganda sono stati i non vaccinati, a cui è stata attribuita la colpa del proseguo dell’emergenza sanitaria. È questa una politica superflua ed antiscientifica che opprime chi vorrebbe esercitare dei semplici diritti costituzionali, come quello di andare a lavorare e percepire poi uno stipendio. Una violazione dei diritti che richiederebbe una vera opposizione politica, sociale e nazionale che al momento però non si vede.

In chiusura, le chiedo se ritiene che i referendum sulla giustizia previsti in primavera possano dare realmente il via ad una riforma di tipo garantista in Italia.

Sono scettico perchè tutti i referendum del passato o quasi sono stati poi facilmente aggirati dal Parlamento italiano. Ad esempio, quello sulla privatizzazione RAI del 1995 che non ha visto alcun seguito politico ed istituzionale. Inoltre, bocciando le proposte referendarie su Cannabis ed Eutanasia legale si è di fatto ridotta e di parecchio la fetta di cittadini che si recheranno alle urne. Molti non capiranno le ragioni e le proposte reali di questi 5 quesiti da votare e resteranno a casa. Infine, ritengo che la magistratura sia ormai un potere troppo forte per essere trasformato attraverso un semplice referendum popolare. Servirebbe anche una lotta di sistema interna ai palazzi del potere, con la reale volontà della politica di rischiare per imprimere una svolta garantista ed il proprio primato.

UNA NUOVA GUERRA FREDDA È NEL DESTINO DELL’OCCIDENTE?

– Andrea Mauro

Abbiamo spesso trattato delle attuali difficoltà dell’Occidente, ancora costretto a dover scontare le conseguenze della pandemia: il numero dei contagiati in rialzo, un possibile ritorno delle restrizioni, l’inflazione che grava sui cittadini e le imprese, i postumi della recessione del 2020. Tuttavia, anche l’ambito geopolitico presenta delle difficoltà. Infatti, le immagini del disastroso ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan sono ancora drammaticamente impresse nella nostra mente. Casa Bianca, Pentagono, NATO e cancellerie europee hanno provato a mascherare il fallimento con giustificazioni che non trovano appiglio dinanzi ai numeri. Il costo umano della spedizione è stato di 3846 vittime (di cui 53 nostri connazionali), mentre quello economico si aggira sui 5,4 mila miliardi di euro. Inoltre, è drammatico anche ciò che sta avvenendo al confine tra Polonia e Bielorussia. Migliaia di migranti sono ammassati alla frontiera di Kuzinika, nel tentativo di arrivare in Europa passando per la Polonia. Quest’ultima però ha dichiarato, tramite il proprio Ministro degli Interni Mariusz Kaminsky, di voler costruire un muro alla frontiera lungo 180 chilometri e alto 5,5 metri. Il rappresentante per la Politica Estera UE Josep Borrell ha denunciato Aleksandr Lukashenko e Vladimir Putin, accusandoli di aver agitato il clima e di essere burattinai del dramma che avviene nella zona. Una spiegazione di ciò potrebbe essere nei 6 miliardi di euro che l’Unione Europea ha sborsato alla Turchia di Erdogan per la gestione dei migranti siriani. Pertanto, quello di Minsk rappresenterebbe un attacco ibrido ai danni dell’Europa, al fine di porla ancor più sotto pressione. Tuttavia, a Bruxelles è già stato annunciato un nuovo pacchetto di sanzioni contro Minsk, con molti che hanno però iniziato a puntare il dito anche contro Mosca, convinti della regia di Vladimir Putin dietro le tensioni. Complessa è anche la situazione oltreoceano per il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, reo di aver vietato l’ingresso negli States al Presidente della Repubblica del Guatemala Daniel Ortgea e ad altri funzionari del paese, accusati di aver attentato alla democrazia. È sopratutto la Cina di Xi Jinping quella che più complica le strategie del POTUS. Martedi 16 novembre si è tenuto un summit virtuale tra i capi di Stato di Cina e Stati Uniti con la tensione sfociata giunti a dibattere di Taiwan. Biden ha consigliato al suo omologo cinese di astenersi dal compimento di azioni che possano cambiare lo status quo dell’isola. Tuttavia, Xi Jinping ha ribadito la sacralità del principio di una sola Cina, affermando senza alcun giro di parole che cercare l’indipendenza di Taiwan significa “giocare con il fuoco” e che, dovessero presentarsi interferenze, la Cina si ritroverebbe costretta a dover adottare le misure necessarie. A complicare ulteriormente la realtà è l’invito trappola di Xi Jinping all’amministrazione Biden di presenziare ai giochi olimpici invernali di Pechino che inizieranno a febbraio 2022. Indiscrezioni parlano di un boicottaggio diplomatico all’invito, in segno di protesta verso le numerose violazioni dei diritti umani da parte della Cina nello Xinjiang, in Tibet e ad Hong Kong. Venisse confermata tale decisione i rapporti tra Pechino e Washington finiribbero ancor di più per deteriorarsi. Nel caso opposto, l’amministrazione DEM, dovesse presenziare, riceverebbe critiche dal mondo occidentale. Alla luce di tali considerazioni il quadro evidenzia un Occidente orfano di forte leadership, avallata da scarsa coesione in ambito geopolitico. La minaccia cinese è sempre più concreta anche perchè ormai imprescindibile per molti Paesi nell’ambito della cooperazione economica. Pertanto, Taiwan potrebbe fungere da casus belli. Inoltre, alla minaccia di Pechino si aggiungono i cattivi rapporti che le cancellerie europee hanno con il Cremlino. Auspichiamo dunque in una rivalsa dell’Occidente, volta a ritrovare compattezza, che salvaguardi la propria supremazia in futuro.