Ezio Mauro:”Bisogna servire la cronaca, non rimanere intrappolati in inutili dogmatismi”

Di Francesco Subiaco
Ezio Mauro, direttore di Repubblica per quasi vent’anni, saggista, giornalista è una delle penne più influenti del panorama italiano. La cui carriera costellata di successi e incontri autorevoli ne fa uno dei grandi nomi del nostro giornalismo. Piemontese, classe 1948, Ezio Mauro muove i primi passi ufficiali nel mondo del giornalismo sulla Gazzetta del popolo di Torino, durante la stagione del terrorismo, come uno dei più attenti cronisti degli anni di piombo. Inviato speciale per La Stampa e corrispondente da Mosca per Repubblica diventa in pochi anni la voce del disgelo, raccontando gli anni dello scioglimento dell’Unione sovietica ai tempi della Perestrojka mostrando le mille sfaccettature del crollo delle repubbliche sovietiche. Nel 1996 diventa direttore di Repubblica, subentrando a Scalfari, cercando non solo di continuare quel lavoro di sintesi tra sinistra e valori liberaldemocratici iniziata dal fondatore, ma anche di servire e fare proprio quella identità culturale che è l’anima del giornale. Ha intervistato Putin, Moro, La Malfa, i grandi della storia. Ora, dopo aver lasciato la direzione di Repubblica nel 2016, conduce una trasmissione su Rai 3, “La scelta” inaugurata con una straordinaria quanto discussa intervista a padre Gänswein che promette un interessante seguito. Voce pacata e passione per i viaggi, per Mauro il giornalismo è un mestiere fatto di particolari e di dettagli, che nella cronaca trova un momento essenziale della sua missione. Mostrandoci che in realtà il vero giornalista non è solo chi racconta i fatti, ma chi li rivela
-Per Tre anni lei ha raccontato la grande metamorfosi della Russia Sovietica durante la Perestrojka. A pochi mesi dalla morte di Mikail Gorbacëv cosa resta di questo protagonista di fine novecento?
L’ultima volta che lo vidi gli avevo raccontato che avevo passato una giornata intera con Navalmy; il leader dell’opposizione in Russia, l’uomo che è poi stato avvelenato e imprigionato dal regime di Putin. Mentre gli parlavo dell’incontro con Navalmy, mi guardò e mi disse “vedi che questi sono tutti dei nipotini della Perestrojka, anche se forse non lo sanno, perché il seme che abbiamo gettato allora da anche questi frutti”. Se dovessi formulare un giudizio su Gorbacev devo ammettere che fu sicuramente il leader del disgelo di un mondo pietrificato che sembrava immobile, uno dei personaggi chiave della storia russa, basti pensare che prima di lui c’era Cernenko (un leader che sembra venire da un altro secolo e da una altra storia), ma allo stesso tempo è anche una figura che nel suo paese non è ricordato con favore. Su di lui grava una opinione controversa perchè imprigionata nel paradosso che ha caratterizzato la sua intera azione politica.
–Ovvero?
Che per noi è stato il primo riformatore dell’URSS mentre per i russi è stato invece l’ultimo segretario del partito comunista sovietico.
–E cosa ha pensato quando Putin gli ha negato i funerali di stato?
Non mi aspettavo che ci fossero funerali di stato, perché tra i due c’erano dei rapporti molto freddi e distaccati, se non di fatto inesistenti.
–Parliamo di lei. Come nasce la sua vocazione di giornalista?
Ho sempre sperato di fare questo mestiere fin da ragazzo ed ho sempre cercato di partecipare a dei “giornali”, sia alle medie, sia durante la mia esperienza al collegio e nel mio paese d’origine.
–Che insegnamento la ha formata di più nel suo approccio iniziale al giornalismo?
Ricordo quando ero ancora un cronista della Gazzetta del popolo a Torino, uno dei più antichi giornali italiani, e al mio primo articolo mi mandarono a seguire il caso di una donna che era stata gettata nel Po e di scrivere una notizia su questo tema. Andai sul posto, cercai informazioni e poi iniziai, con molta difficoltà a scrivere il pezzo. Mi ricordo un collega passò vicino alla mia scrivania e leggendo le prime righe dell’articolo che avevo appena scritto a macchina mi si avvicinò e mi disse “Auguri”, lasciandomi senza capire se fosse un giudizio positivo o negativo… La sera tardi rimasi in redazione e quando arrivarono le copie del numero su cui c’era, o almeno ci doveva essere, il mio articolo, lo sfogliai immediatamente (era passata da poco la mezzanotte), e cercai alla sezione cronaca il mio articolo. Lo trovai e rimasi molto deluso, perché era stato totalmente riscritto e modificato. Del mio pezzo iniziale c’era poco e niente. Questo evento mi insegnò che avevo molto da imparare, perché potevo scrivere benissimo un reportage o una notizia politica, ma non sapevo ancora confrontarmi adeguatamente con la cronaca, men che meno scrivere una notizia di nera in poche righe, poiché esiste una tecnica, un tatto, una sensibilità per quelle cose che solo con molta esperienza si riesce ad acquisire. Un giornalista non deve mai smettere di mettersi in discussione di essere curioso e di voler conoscere a fondo la realtà che racconta. Un insegnamento che la mia esperienza alla Gazzetta mi ha lasciato molto
–Le ha insegnato molto la cronaca?
Moltissimo. Mi ha insegnato molte cose, il rispetto per le persone coinvolte, il tatto nel trattare questioni delicate, la capacità di sintesi, la curiosità per le cose di tutti i giorni. Perché, vede, tutti credono che fare cronaca sia solo raccontare i fatti, che la cronaca sia gregaria dei fatti, mentre essa, se fatta seriamente e con scrupolo, rivela la realtà delle cose e delle persone, poiché la realtà è molto più forte e più dura dei preconcetti e dei pregiudizi che si nascondono in ognuno di noi e solo immergendosi nel reale si scopre un mondo fatto di sfumature, di dettagli, una realtà fatta di contraddizioni. Una realtà complessa, ambigua a volte ingiusta, ma vera, oltre l’ideologia e le convinzioni di chi lo racconta. Un giornalista che non crede nei fatti e che ha uno schema ideologico che lo guida non si può far sedurre dalla cronaca e dalle rivelazioni che nasconde la realtà che racconta. Chi inventa non è capace di leggere la realtà, perché i fatti sono molto più forti di tutte le invenzioni di chi li vuole interpretare. Bisogna leggere la realtà, aprirla come un libro e comprendere quello che nasconde di più prezioso: i dettagli.
–Per un giornalista i dettagli sono importanti?
Sono fondamentali. Mi ricordo una frase che lessi una volta a casa di Nabokov, in un cassetto quando la andai a visitare in occasione di un mio lavoro sul centenario della rivoluzione russa :”soltanto i particolari e i particolari dei particolari, trasformano una storia inerte in qualcosa che merita di essere letta”.
–Anni fa lei intervistò insieme ad una delegazione di giornalisti occidentali Vladimir Putin. Che ricordo ha di quell’incontro e cosa pensa della metamorfosi di questo personaggio Dostoevskijano?
È stato un incontro molto lungo e molto orientale. Putin si presentò con 4 ore di ritardo ad un appuntamento con una delegazione di otto direttori di giornali occidentali, tra cui il sottoscritto. Nella lunga attesa prima del suo arrivo riuscimmo a definire con gli altri direttori, all’epoca dirigevo Repubblica, i temi e le domande che volevano porre al presidente della Federazione Russa e convergemmo tutti su un tema principale da mettere per primo: i diritti umani e la questione delle minoranze. Scegliemmo quindi per prima cosa di chiedere a Putin se si volesse impegnare per escludere un atteggiamento duro e repressivo nei confronti dell’opposizione politica una volta concluse le elezioni (eravamo alla vigilia delle elezioni che poi lo avrebbero riconfermato leader del paese) evitando di usare il pugno di ferro contro le minoranze. Gli feci io questa domanda e lui allora mi disse che c’era spazio per tutti nella sua Russia e che non era necessario il pugno di ferro contro l’opposizione, cosa che di fatto smentì soprattutto nei confronti di Navalmy. La prima cosa che mi colpì di lui fu che mentre io gli porgevo la mia domanda sui diritti umani lui rimase in tensione sulla punta della sedia, mentre quando venne il turno del mio collega tedesco, che doveva porgli una domanda sui temi economici, si distese completamente, rilassato, sulla spalliera della sedia. La seconda cosa che mi colpì molto fu che mentre mi presentai prima dell’intervista, gli dissi chi ero e per quale testata scrivessi, mi disse “ho chiesto informazioni su di lei al mio amico Silvio”, sottolineando da una parte l’amicizia tra i due leader, dall’altro una profonda preparazione del leader del Cremlino che non perse nemmeno una occasione casuale per informarsi del suo interlocutore. Ricordo poi che mentre ci salutammo con gli altri colleghi della delegazione, eravamo in una abitazione che ci era stata descritta come residenza di Putin, gli dissi in russo “la prossima volta mi piacerebbe intervistarla al Cremlino” lui mi chiese perché ed io gli risposi che era poiché non avevo mai visto l’ufficio di un segretario generale di Mosca. Lui allora mi guardò e mi disse “perché non viene a vedere la mia partita di hockey che vado a fare con loro” indicando le sue guardie del corpo. In quel momento mi immaginai la copertina de Il venerdì di Repubblica con la foto in primo piano di Putin che gioca ad hockey ed il titolo lapidario:”La maschera di ferro”. Però poi gli dovetti rispondere che a causa di quelle quattro ore di ritardo dovevo correre a scrivere l’intervista per chiudere il numero. Mi sono perso una occasione cruciale per conoscerlo veramente ma dovevo scegliere o la partita o l’intervista e capirà ci sono delle scelte che un direttore a volte deve compiere.
–Tra i protagonisti del giornalismo italiano, dalla Russia post sovietica al terrorismo passando per il berlusconismo, quali sono gli incontri che più la hanno formata ed i personaggi che più la hanno colpita?
La stagione del terrorismo è stata importantissima per la mia formazione perché per me che all’epoca ero un ragazzo, la definisco come la guerra della mia generazione. Soprattutto perché la vissi in una città come Torino dove passava una frontiera tra il terrorismo e lo stato e poiché come disse una volta l’avvocato agnelli chi non è stato a Torino non può dire di conoscere è stato il terrorismo italiano. Ci si alzava la mattina e si sentiva la radio per capire dove colpivano e che attacchi facevano, ma ogni giorno colpivano, ogni giorno c’erano scontri, attacchi sparatorie, proprio come in una guerra. Ricordo che alla Gazzetta del popolo avevamo una radio che un collega geniale, aveva modificato per permetterci di ascoltare le frequenze delle forze dell’ordine e dei grandi giornali, in modo un po’ piratesco, per permetterci di essere sul posto ogni volta che i terroristi colpivano. Si ascoltava con attenzione le comunicazioni, i discorsi, per correre sul posto prima che i fatti diventassero delle notizie. Veniva messo ad origliare queste comunicazioni di solito il primo arrivato, tra cui anche per un periodo il sottoscritto, e ci accorgemmo che ogni volta che succedeva un attentato un crimine urgente, ma lo avrebbe capito chiunque, quelle frequenze impazzivano e si animavano rocambolescamente. Bisognava solo capire l’indirizzo, per arrivare per primi e cercare di capire cosa stesse accadendo. Di solito eravamo un giornalista e un fotografo o più giornalisti e quando succedeva un evento vicino alla Gazzetta arrivavamo prima delle forze dell’ordine. Mi ricordo di una segnalazione. Era l’ottobre del 1977, le Brigate Rosse avevano compiuto un attacco ad Antonio Cocozzello, consigliere comunale di Torino per la Democrazia Cristiana, che era stato gambizzato alla fermata del tram prima di andare a lavoro. In quel momento capii con i fatti che cos’era il terrorismo, guardando negli occhi la realtà della lotta armata. Pensavo al povero Antonio Cocozzello, mentre lo soccorrevano gli aprirono i pantaloni per cercare di curarlo e si vedeva che indossava un paio di mutande semplici, povere, da mercato. Quelle che poteva aver indossato mio nonno o un signore qualsiasi della campagna piemontese, e mi accorsi che quelle persone con quel delirio ideologico non c’entravano niente, che erano state colpite come maschere di un potere sovranazionale con cui non c’entravano niente, mentre invece erano solo delle persone comuni, ferite e colpite, ricoperte di sangue e lasciate in fin di vita perché erano diventati i bersagli di una lotta che non li riguardava e con cui non c’entravano nulla.
–Quali sono stati i grandi incontri della sua carriera giornalistica?
I leader politici, Berlinguer, Craxi, Andreotti, De Mita, La Malfa, Moro. Moro ad esempio mi metteva molta soggezione. Una volta mi trovavo di fronte al palazzo della Democrazia Cristiana, lo aspettavo per una circostanza che non ricordo a piazza del Gesù. Io mi ero intrufolato nel palazzo mentre lui entrava e non ricordo come riuscii ad. Entrare nell’ascensore con lui. Mi guardò con due occhi scocciati come a dirmi “non vorrai importunarmi con le tue domande”. Non gli feci nessuna domanda, ero molto in soggezione. Mi ricordo che mi guardò con quel suo sguardo, che mischiava timidezza e riserbo, ma che era capace di suscitare in me molta soggezione. Avevo aspettato almeno un’ora, ma non gli domandai nulla.
–Un momento in cui ha avuto paura e uno che ricorda con gioia?
Non credo di aver avuto mai paura, nemmeno durante la stagione del terrorismo, forse per incoscienza più che per coraggio. Ad esempio una volta ero a Torino, durante la mia collaborazione con la Gazzetta del popolo, all’epoca finivano molto tardi e mi ricordo che mentre tornavo a casa avevo visto due ragazzi che amoreggiavano davanti casa mia. In quel momento un preoccupato decisi di rifare il giro, lo feci almeno sei, sette volte, forse anche di più, perché non mi sentivo tranquillo. Dopo poco tempo se ne andarono. Evidentemente erano solo dei ragazzi che cercavano di stare tranquilli per un po’. Però nemmeno in quel caso provai paura, anche se sicuramente c’era molta insicurezza a causa del clima di Torino in quegli anni. Solo chi ha vissuto a Torino quel periodo può capire veramente cosa è stato il terrorismo. Più che paura nella mia carriera ci sono stati dei momenti in cui ho temuto di non riuscire a leggere la lezione dei fatti in maniera corretta, di non avere una bussola per il giornale o di fare un errore. Sono momenti che capitano nella vita di un direttore di giornale, hai dei dubbi, non comprendi la realtà nitidamente, esiti perché vedi le cose in maniera poco chiara o non molto definita, hai paura di non comprendere la realtà, di fare degli errori. E allora aspetti, cerchi di capire ma non puoi aspettare, devi guidare un giornale, e hai l’obbligo di decifrare la realtà… delle persone dipendono da te, si fidano di te e tu gli devi una risposta devi sapere cosa è giusto fare, perché hai il compito di dare rotta e di tenere il timone del giornale. Questi dubbi sono tipici della solitudine di chi guida un grande giornale. In questi casi provai molta inquietudine, ma mi aiutarono molto due cose. Le lezioni dei fatti e l’identità del giornale. Sono queste le coordinate che mi hanno sempre aiutato cercare di essere lucido rispetto alla realtà e cercare di essere coerente con l’anima del giornale che dirigevo. In certi casi la realtà però è complessa e non si riesce a capire il vero volto delle cose, tutto sembra inafferrabile, queste sono le problematiche che affollano la solitudine di un direttore di giornale.
–E cosa la aiutata a superare queste problematiche?
L’aiuto dei colleghi, il confronto con gli altri, l’ascolto. Tenendo sempre presente la cultura del giornale, poiché è l’identità del giornale di cui fai parte, è una lente che ti aiuta a comprendere la realtà. Il buon giornale nasce dall’incontro dei fatti che urtano e irrompono nell’attualità e la cultura del giornale che determinano la scelta che compie chi dirige e chi scrive.
–Ed il momento più bello?
Penso ogni volta che ho sentito muoversi il giornale nel suo insieme, come una squadra o una forza intellettuale capace di comprendere e rivelare la realtà, quando tutte le voci le idee e le sensibilità delle persone che compongono un giornale si muovono in maniera univoca, come in una sinfonia. Se vuole un esempio definito invece le dico uno scherzo che mi fecero alcuni colleghi. Una volta andammo a cena con mia moglie e le segretarie di direzione. Finita la cena mi hanno detto di andarci a prendere un caffè all’interno del locale e mentre entrammo trovai una festa con tutti i colleghi di Repubblica. C’erano tutti i colleghi, Eugenio Scalfari, Carlo De Benedetti, mia figlia e anche alcuni colleghi che erano venuti a Roma appositamente per questa festa a sorpresa per me. Sono rimasto frastornato, ma anche molto felice.
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–Dalla segreteria blairiana del PD al governo draghi, che giudizio trae dal percorso politico di Matteo Renzi?
Penso che se un leader politico ha l’onore di guidare la sinistra italiana contro la destra, di essere presidente del consiglio per quella forza politica, se messo in minoranza non debba uscire da quel campo politico formando una forza antagonista a quella che ha rappresentato in precedenza, ma deve continuare a testimoniare le sue posizioni politiche dentro quel partito. È un vincolo prima morale che politico. E questo è un discorso che vale sia per Renzi, che per D’Alema e per altri ancora.
–Quali sono i Riferimenti culturali. Il Pantheon di Ezio Mauro ?
Non lo so. Io non credo di avere un Pantheon che ha guidato la mia formazione, ma piuttosto di aver compiuto una ricerca, una continua ricerca che ha attraversato tutta la mia formazione e che continua tuttora. Un punto cardine sicuramente è stato Norberto Bobbio. Sa a noi piemontesi ci hanno sempre preso molto in giro per la faccenda del cosiddetto “azionismo torinese”, come se fosse un vizio o un difetto. In realtà l’azionismo fu un tentativo più culturale che politico di emancipare la sinistra italiana dai suoi ritardi, dai suoi errori, ed anche dagli orrori della sinistra nel mondo, coniugandoli con i valori liberali. Un tentativo fallito a livello politico, pensi ai risultati deludenti del Partito D’Azione, ma che ha lasciato una inesauribile testimonianza culturale di questo spirito di riforma e di che abbiamo cercato di portare a Repubblica con Eugenio. Lui veniva da una educazione liberale che ha conciliato con la sinistra mentre io da una formazione di sinistra che ho riletto alla luce dei valori del liberalismo. Un esperimento ed un tentativo culturale che abbiamo cercato di portare avanti e che non è ancora concluso perché credo che questo spirito sia l’unica strada per mettere la sinistra italiana al servizio del paese. Credo a livello letterario la letteratura russa e nello specifico Michail Bulgakov, soprattutto Il maestro e Margherita.
–Che ricordo ha di Scalfari e che cosa le manca di lui?
Mi manca soprattutto il rapporto umano che avevo con lui. Lo dicevamo sempre, pur non avendo la stessa formazione politico culturale, ci siamo trovati nel giornalismo e nel rispetto del comune DNA di Repubblica. Lui perché lo ha inventato, io perché lo ho servito e lo ho rispettato, perché solo rispettandolo lo ho potuto vivere ed adattare tenendolo al passo con i tempi. Lui mi veniva sempre a trovare nel mio ufficio, fumava, anche se non si poteva, e parlavamo. Parlavamo di tutto, dell’attualità, del passato, della fondazione di Repubblica, oppure semplicemente cazzeggiavamo, poi Eugenio era un grande raccontatore ed era sempre bello sentirlo parlare soprattutto del passato e dell’identità di Repubblica. Mi interessava sempre sapere e capire meglio il rapporto con Carlo Caracciolo perché pure prima di arrivare a Repubblica mi interessava capirne l’identità profonda.