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Perché l’interventismo Usa, anche se imperfetto, è preferibile al disimpegno

Il precipitoso ritiro dall’Afghanistan e l’invasione dell’Ucraina ci mostrano cosa può significare per il mondo un totale disimpegno Usa

– Tommaso Alessandro De Filippo, ripreso da “Atlantico Quotidiano”

Ayn Rand definì gli Stati Uniti d’America la prima società morale della storia, un posto dove l’individuo potesse giovarsi di libertà personale ed economica, mezzo necessario per essere realmente indipendente e capace di perseguire il raggiungimento dei propri obiettivi di vita, ricercando il benessere e la felicità terrena.

Il rispetto della libertà è ciò che gli Usa hanno il merito di aver provato ad esportare ed espandere. La tutela dei diritti umani ha rappresentato a tratti uno degli obiettivi della politica estera americana, capace a volte di liberare altri popoli da dittature e regimi totalitari.

Le critiche di ingerenza

Una politica estera però alla quale non sono state risparmiate critiche feroci e accuse di “ingerenza” negli affari interni di altri stati. Critiche e accuse sempre più frequenti nelle opinioni pubbliche occidentali, pronte a scaricare la colpa di qualsiasi guerra, ultima quella in Ucraina, su Washington, colpevole di un presunto eccesso di interventismo.

Meglio il disimpegno?

Tuttavia, occorrerebbe chiedersi cosa significherebbe un definitivo disimpegno americano dai teatri strategici globali. Prima di tutto, un notevole rafforzamento della minaccia terroristica e degli appetiti imperialistici di potenze come Cina e Russia, che mirano a scardinare la leadership Usa non per beneficenza, ma per rimpiazzarla con la loro.

L’esempio afghano

L’esempio più recente (e doloroso) di disimpegno Usa è il ritiro da Kabul dell’agosto 2021, seguito agli Accordi di Doha del febbraio 2020, che resterà nella memoria come una immagine di fallimento e impotenza paragonabile al ritiro dal Vietnam.

La scelta di abbandonare l’Afghanistan totalmente, e le modalità del ritiro, la frettolosa fuga del presidente della Repubblica afghana Ashraf Ghani e la pessima gestione delle ultime settimane, hanno rivitalizzato il fronte delle autocrazie, giocando probabilmente un ruolo sia nella scelta di Vladimir Putin di invadere l’Ucraina, sia nel portare Pechino a credere di poter facilmente prendere Taiwan nel prossimo futuro.

L’abbandono degli afghani, illusi dopo vent’anni di miglioramenti socio-economici e maggiore libertà, ha inferto una ferita difficilmente rimarginabile alla credibilità Usa.

Il sostegno all’Ucraina

Questo dovrebbe aiutare a comprendere la necessità di poter contare sugli Stati Uniti, per quanto imperfetti e criticabili, e su un Occidente compatto per difendere i nostri interessi e i nostri valori.

Il sostegno all’Ucraina contro l’aggressione russa è quindi importante per un duplice motivo: perché conferma l’impegno Usa per la sicurezza europea (e non solo), lanciando un chiaro messaggio alle autocrazie che pensano di poter facilmente mettere in atto i loro piani.

E perché ci ricorda che la difesa della democrazia e della libertà non è solo un’opzione morale, ma anche lo strumento attraverso il quale garantire stabilità e pace.

Tentazione bipartitismo: perché Meloni e Letta dovrebbero andare all-in

Le difficoltà dei rispettivi alleati offrono a Pd e Fratelli d’Italia l’occasione di coltivare una vocazione maggioritaria e puntare ad un assetto bipartitico

– Tommaso Alessandro De Filippo (articolo ripreso da Atlantico Quotidiano)

Le elezioni amministrative hanno evidenziato una definitiva inversione dei rapporti di forza interni alle coalizioni. Il centrosinistra si è di fatto ridotto esclusivamente al Partito democratico, che resiste ma non splende elettoralmente e non trae alcun vantaggio dall’alleanza con un Movimento 5 Stelle ormai al canto del cigno.

Nel centrodestra si afferma la leadership di Giorgia Meloni, che scavalca la Lega anche nel profondo nord e guadagna il diritto di puntare alla conquista di Palazzo Chigi da candidata premier dell’intera coalizione.

Cosa hanno in comune Letta e Meloni

Tuttavia, è necessario osservare alcune delle tessere che andranno a delineare il nostro futuro mosaico politico. Fratelli d’Italia e Partito democratico, divisi praticamente su tutto, sono però attualmente le due maggiori forze politiche che senza esitazioni hanno adottato una linea euro-atlantica nella crisi ucraina.

Contrariamente ai rispettivi alleati, Matteo Salvini e Giuseppe Conte, impegnati a distanziarsi dalle posizioni angloamericane e Nato sulla guerra in Ucraina, nel tentativo disperato di risalire nei sondaggi, i leader di FdI e Pd hanno dimostrato di saper dare garanzie oltreoceano nel caso si trovassero ad occupare i ruoli chiave delle nostre istituzioni nella prossima legislatura.

Che senso ha dunque per Letta e Meloni perseverare con queste alleanze?

Pd e FdI a vocazione maggioritaria

Dal punto di vista del Nazareno, perseverare nell’alleanza con i 5 Stelle risponde allo storico timore di presidiare il fianco sinistro, secondo il motto “nessun nemico a sinistra”, ma l’ipotesi del “campo largo” che esce sostanzialmente bocciata dalle urne, e il quasi totale prosciugamento della forza guidata da Conte, rilanciano la vocazione maggioritaria del Pd.

Sul versante di centrodestra, Salvini e Berlusconi sembrano intenzionati ad unire le forze in vista delle politiche, senza però tener conto del fatto che anche nel caso dovessero raccogliere più consensi della Meloni, difficilmente il leader del Carroccio vedrebbe aprirsi le porte di Palazzo Chigi, visti i suoi errori di posizionamento europeo e internazionale.

L’illusione di Salvini di poter giocare un ruolo da mediatore parallelo a quello del governo italiano in questa crisi ha rianimato i sentimenti filorussi di parte della Lega, temporaneamente sopiti dopo la vicenda dell’Hotel Metropol, che condizionò in parte la crisi di governo dell’estate 2019.

L’indebolimento, e il lento disgregamento, di Forza Italia e Lega, pone Fratelli d’Italia davanti alla prospettiva di progetto politico unico, quel “Partito Repubblicano Italiano”, sulle orme del Gran Old Party, di cui pure aveva parlato in tempi migliori lo stesso Salvini.

Dunque, sia Fratelli d’Italia che il Pd avrebbero interesse – ma chissà se coglieranno l’occasione – a cercare un esito elettorale maggioritario – favorito tra l’altro dal taglio del numero dei parlamentari del 2020 – tale da impedire la necessità di una riedizione della maggioranza che ha sostenuto il governo Draghi, con o senza una figura simile alla guida.

In tal caso, entrambi i partiti, ciascuno nella sua metà campo, avrà l’occasione di completare il percorso verso un assetto bipartitico del sistema politico.

 

 

PROF. MICHELE MARSONET: “GLI USA CONTRASTINO IN OGNI MODO LA RUSSIA. IL MONDO DELL’ISTRUZIONE ITALIANO È DA RIFONDARE”

– Tommaso Alessandro De Filippo


Il Prof. Michele Marsonet si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova, e in Filosofia della scienza presso l’Università di Pittsburgh (USA). Dopo la laurea ha svolto periodi di ricerca in qualità di “Visiting Fellow” presso le Università di Oxford e Manchester (UK), City University of New York e Catholic University of America (USA). E’ Professore Ordinario di Filosofia della scienza e di Metodologia delle scienze umane nel Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova. Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova (2001-2002, e 2008-2011). Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova (2002-2005, rieletto per il periodo 2005-2008). Dal 2008 al 2014 Pro-Rettore con delega all’Internazionalizzazione dell’Università di Genova. Dal 17 ottobre 2012 è Preside della Scuola di Scienze Umanistiche dell’Università di Genova. E’ Fellow del Center for Philosophy of Science dell’Università di Pittsburgh (USA). Visiting Scholar all’Università di Melbourne (Australia) nel 1999. E’ stato Visiting Professor presso molti Atenei stranieri: Fribourg (Svizzera, 1989 and 1996), Hertfordshire (UK, 1994), Siviglia (Spagna, 1995), Varsavia (Polonia, 1995), Malta (1996, 1999, 2003, 2005), Pittsburgh (USA, 1992 and 1997), Islanda (1998), Giessen (Germania, 1998), Melbourne (Australia, 1999), Bergen (Norvegia, 2000), Malaga (Spagna, 2001), Oxford (UK, 2001), Université Catholique de Louvain (Belgio, 2001), Stirling (UK, 2002), Cork (Irlanda, 2004), London King’s College (UK, 2005), Babes-Bolyai University (Cluj, Romania, 2007), St Andrews (UK, 2009), Hanoi (Vietnam, 2015). Fellow del Center of Philosophy of Science, University of Pittsburgh (USA). Coordinatore programmi scientifici nazionali, finanziati dal MIUR e dal CNR. Dal 2008 è External Examiner per tesi di Master e Ph.D. della University of Malta. E’ Professore Onorario della Universidad Ricardo Palma di Lima (Perù), e nel 2009 ha ricevuto la Laurea Honoris Causa dalla Universidad Continental di Huancayo (Perù). E’ autore di 28 volumi e curatele, di cui 5 in lingua inglese pubblicati in Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania, e di circa 300 articoli, saggi e recensioni in riviste italiane e straniere. Inoltre, collabora con il magazine online Atlantico, diretto da Daniele Capezzone e Federico Punzi. Abbiamo avuto il piacere di dialogare con lui sul conflitto tra Russia, Ucraina ed USA, oltre che sulle attuali restrizioni pandemiche italiane proprogate nel tempo e le difficoltà del nostro mondo dell’istruzione.

Prof. Marsonet, può esprimerci le sue considerazioni in merito ai venti di guerra tra Russia ed Ucraina?

La Russia ha una responsabilità diretta delle tensioni in corso insieme all’Ucraina, dato il loro scontro frontale protattosi negli anni, dovuto anche a delle ragioni storiche. Credo che il comportamento americano in tale ambito sia dettato dalla necessità di Biden di tenere a bada l’opinione pubblica negli USA. Infatti, lo scenario politico futuro degli Stati Uniti è assolutamente incerto, con i DEM che non sono uniti intorno al presidente espressione del proprio partito ed un GOP alle prese con la necessità di ritrovare degli equilibri interni. Pertanto, ritengo che la pressione esercitata dagli USA su Russia ed Ucraina sia dettata soprattutto da motivazioni interne. Tuttavia, se ciò serve per impedire a Mosca di invadere Kiev ben venga.

Ritiene che l’attuale strategia di USA e NATO volta a difendere il territorio ucraino possa rivelarsi efficace a lungo termine?

Attualmente c’è una tale preponderanza armata di matrice russa che rende difficile ad una NATO così disarticolata immaginare di contrastarne la forza. Inoltre, è da menzionare l’ambiguità e l’incapacità costante della UE in materia di politica internazionale. Ieri come oggi gli unici a poter fare la differenza in situazioni come questa sono gli americani, che sono però stanchi di dover combattere guerre evitabili in difesa di altre nazioni, prive della capacità di difendersi autonomamente.

Quanto pesa l’ambiguità di Parigi e Berlino ed il loro interesse a condurre accordi economici con Russia e Cina sulla stabilità dell’alleanza atlantica?

Purtroppo i principali paesi europei dipendono ad oggi dalle forniture russe di gas ed energia, dati gli accordi presi sui gasdotti NordStream. Anche in ragione di ciò, non possono assumere delle posizioni dure nei confronti di Mosca e devono necessariamente trovare una mediazione. Anche l’Italia nella figura di Mario Draghi credo proverà a fare questo, data la nostra attuale assenza di autonomia energetica.

Dal suo punto di vista a cosa è dovuta la fascinazione di alcuni occidentali verso Vladimir Putin e le modalità di governo di stati come la Russia?

È dovuta al fatto che Putin rappresenti l’immagine di uomo e politico forte, dotato di un “pugno di ferro” che utilizza per governare la propria gente. Inoltre, in Italia ed in parte delle nazioni occidentali c’è un sentimento di sfiducia verso le classi politiche che vengono ritenute deboli. Ciò porta ad essere attratti da figure istituzionali differenti. Storicamente le grandi potenze hanno sempre praticato una politica di forza volta ad imporre i propri interessi in ambito internazionale.

In che modo valuta le attuali restrizioni delle libertà individuali prorogate dall’esecutivo italiano attraverso i recenti decreti?

Non condivido le polemiche verso le restrizioni avanzate da molti liberali. Ritengo che il momento sanitario sia complesso e meritevole di attenzione da parte della politica. Il governo italiano con la guida di Mario Draghi ha raggiunto dei risultati eccellenti in materia di campagna vaccinale ed io francamente giustifico alcune limitazioni delle libertà individuali condotte al fine di tutelare la salute.

Di che riforme in campo economico e sociale avrebbe urgente bisogno l’Italia?

Sul piano economico sarebbe necessaria una maggiore attenzione verso le industrie, le attività produttive ed il mondo dell’istruzione. Settori che non possono essere abbandonati perchè fondamentali per la formazione ed il mantenimento del tessuto sociale ed economico nazionale.

Come sarebbe possibile apportare dei miglioramenti al mondo dell’istruzione italiano?

In primis bisogna cercare di stoppare la politica della Didattica a distanza. Io stesso da professore universitario ho avuto modo di utilizzarla e la ritengo devastante per gli studenti di ogni grado scolastico. Spero realmente che si possa investire di più nel mondo dell’istruzione italiano e migliorarne le qualità, onde evitare un futuro disastroso per le nuove generazioni.

In chiusura, ritiene che i referendum sulla giustizia previsti in primavera possano dare la spinta necessaria per giungere ad una vera riforma della magistratura in Italia?

È molto difficile. Possono sicuramente avere una certa efficacia ma la magistratura ha raggiunto in Italia un potere quasi assoluto che sarà, al netto dei risultati delle votazioni, molto difficile da modificare.

STEFANO MAGNI: “IN ITALIA TROPPI SONO AFFASCINATI DA PUTIN. LA GERMANIA HA TRADITO LA NATO”

– Tommaso Alessandro De Filippo

Stefano Magni è uno dei massimi esperti di politica estera, attento alle dinamiche geopolitiche che il mainstream non racconta. Si occupa principalmente delle vicende ucraine, argomento cardine del nostro dialogo insieme alla fascinazione verso Putin che troppi in Italia subiscono e manifestano. Attualmente, Magni è costante collaboratore de La Nuova Bussola Quotidiana, Il Giornale.it ed Atlantico Quotidiano. L’ascolto delle sue analisi e prospettive rappresenta per noi una preziosa fonte di ascolto e formazione.

Può esprimerci una sua considerazione sui venti di guerra attuali tra Ucraina e Russia?

La Russia non ha mai digerito la separazione ucraina, ieri dall’URSS ed oggi dalla Russia stessa. Ha tollerato la distanza fino al 2014, perchè poteva permettersi di controllare per motivazioni economiche e politiche il governo ucraino, attraverso l’utilizzo di presidenti fantoccio, ultimo in ordine cronologico Viktor Fedorovyč Janukovyč. Tuttavia, con la ribellione popolare del 2014 la Russia ha compreso di dover iniziare ad utilizzare le maniere dure nel territorio. In primis, ha occupato la Crimea a mano militare, per poi manovrare ad hoc il referendum nella zona, vinto non a caso con il 95%. Inoltre, ha alimentato la guerriglia nel Donbass, dove ci sarà pure una popolazione russofona affine a Mosca, che non avrebbe potuto però innescare una guerriglia senza l’appoggio di forze speciali del Cremlino, che hanno addestrato l’esercito locale. Ciò a cui stiamo assistendo ora è un semplice proseguo ed aggiornamento di un conflitto già esistente da 8 anni, che ha già causato oltre 16mila morti ed un milione di sfollati e profughi interni. Tuttavia, le motivazioni del conflitto attuale sono solo nella mente di Putin: non è cambiato il governo ucraino rispetto agli anni scorsi, il presidente Volodymyr Zelens’kyj è stato eletto dai 2/3 del popolo (compresi i russofoni). Pertanto, ciò lo rende uno dei presidenti maggiormente ben disposti al dialogo con Mosca. Dal novembre del 2021 Putin ha iniziato a schierare al confine 150mila uomini armati senza alcuna ragione plausibile, che rappresentano una chiara intimidazione. Dal mio punto di vista l’autocrate sta provando a mettere a dura prova l’Ucraina ed il livello di reattività dell’Occidente, in un momento in cui esso è diviso e debole.

Crede che USA e NATO non stiano attuando una strategia efficace nella trattativa con Mosca e si stiano rilevando deboli?

La NATO sta dimostrando di essere disunita, dato che due nazioni chiave come Germania e Francia stanno conducendo una diplomazia autonoma. I tedeschi dimostrano la veridicità di quanto denunciato qualche anno fa da Donald Trump, cioè la propria dipendenza dal gas russo. La politica tedesca è dettata primariamente dai propri interessi economici, che attraverso i due nuovi gasdotti NordStream la legano a Mosca. Tutto questo la rende anello debole della NATO e finta alleata dell’Ucraina: non invia armi a Kiev ed ha impedito ad altri paesi come la Lettonia l’invio di armi di fabbricazione tedesca, volto a sostenere il governo e l’esercito ucraino. Una politica di sabotaggio interna all’alleanza a cui si aggiunge la Francia che sotto traccia cerca di condurre trattative a nome della UE, senza alcun fine chiaro ed annunciato pubblicamente. La politica francese ha sempre dimostrato il proprio egoismo e disinteresse verso la NATO. A tali problematiche si aggiungono quelle comportate da paesi minori come l’Ungheria, stato nazionalista indipendente che ha più vicinanza alla Russia piuttosto che all’Ucraina, con cui ha uno storico contenzioso territoriale in atto. Infatti, alcune regioni all’estremo occidente ucraino sono rivendicate da Bupadest. Tuttavia, anche la nostra nazione dimostra la propria vicinanza ideologica al Cremlino, dato che soluzioni alternative al rifornimento del gas proveniente da Mosca non si stanno trovando in fretta, la vicenda TAP ne è un esempio.

Sarà possibile contrastare l’ambiguità di alcune nazioni UE nei riguardi di Russia e Cina? Se si, come?

Cina e Russia sono di fatto alleate e rappresentano una problematica comune da affrontare a viso aperto. Come si riusciranno a contrastare le ambiguità europee dipende dagli USA: dovrebbero giocare a carte scoperte come avvenuto con Trump, che ha denunciato il doppio gioco della Germania. Anche in ragione di ciò, non dovrebbero permettere che la UE si difenda da Cina e Russia grazie alla NATO ed agli Stati Uniti stessi e poi vada a fare accordi commerciali non necessari con Mosca e Pechino.

A cosa è dovuta la fascinazione di alcuni occidentali verso Vladimir Putin?

In Italia soprattutto la si vede tanto. Pur non avendo affinità storiche o culturali con la Russia assistiamo ad una grande fascinazione di intellettuali ed opinionisti verso il Cremlino e la sua propaganda. In passato avevamo il PCI che era alle dipendenze dell’URSS. Oggi non c’è più ma abbiamo ancora esponenti che credono il male sia l’Occidente, sia a sinistra che a destra. Questa cultura antiamericana ha visto aggiungersi una campagna di successo di Soft Power russo, che affonda le proprie origini nel 2004, in seguito alle rivoluzioni colorate della Georgia e dell’Ucraina, che hanno fatto temere a Putin che una rivoluzione potesse scoppiare anche con l’appoggio dell’Occidente. Pertanto, da lì ha iniziato ad incrementare la propaganda televisiva e creare strutture che finanziassero e contattassero Think Thank italiani, università, redazioni dei quotidiani e grandi aziende, in particolar modo del settore bancario ed energetico. Anche all’interno della Chiesa cattolica si è strutturata una influenza dovuta ai rapporti con il mondo ortodosso. Questo lavoro ha proseguito il progetto dell’URSS, creando un senso comune filo-russo a cui assistiamo ogni volta che la Russia affronta problematiche geopolitiche.

Come valuta le attuali restrizioni della libertà personale decise dall’esecutivo italiano?

Purtroppo siamo un caso quasi unico nel mondo. La pandemia sta finendo ma nonostante ciò si persiste nelle chiusure e nelle limitazioni delle libertà individuali. Ultimo oggetto di propaganda sono stati i non vaccinati, a cui è stata attribuita la colpa del proseguo dell’emergenza sanitaria. È questa una politica superflua ed antiscientifica che opprime chi vorrebbe esercitare dei semplici diritti costituzionali, come quello di andare a lavorare e percepire poi uno stipendio. Una violazione dei diritti che richiederebbe una vera opposizione politica, sociale e nazionale che al momento però non si vede.

In chiusura, le chiedo se ritiene che i referendum sulla giustizia previsti in primavera possano dare realmente il via ad una riforma di tipo garantista in Italia.

Sono scettico perchè tutti i referendum del passato o quasi sono stati poi facilmente aggirati dal Parlamento italiano. Ad esempio, quello sulla privatizzazione RAI del 1995 che non ha visto alcun seguito politico ed istituzionale. Inoltre, bocciando le proposte referendarie su Cannabis ed Eutanasia legale si è di fatto ridotta e di parecchio la fetta di cittadini che si recheranno alle urne. Molti non capiranno le ragioni e le proposte reali di questi 5 quesiti da votare e resteranno a casa. Infine, ritengo che la magistratura sia ormai un potere troppo forte per essere trasformato attraverso un semplice referendum popolare. Servirebbe anche una lotta di sistema interna ai palazzi del potere, con la reale volontà della politica di rischiare per imprimere una svolta garantista ed il proprio primato.

DANIELE MELONI OLTRE IL MAINSTREAM: BORIS JOHNSON, UK E GLOBAL BRITAIN NEL SUO NUOVO LIBRO

Daniele Meloni rappresenta uno dei massimi esperti di UK nel panorama geopolitico italiano. Collaboratore di Atlantico Quotidiano, alla cultura del Regno Unito, alla Brexit ed alla vita reale della nazione ha dedicato i suoi studi ed il suo impegno, culminati nella scrittura di “BORIS JOHNSON. L’ascesa del leader conservatore ed il Regno Unito post Brexit” edito dalla sempre attenta Giubilei Regnani, casa editrice valida nella scelta di testi che superino la narrazione mainstream. All’interno del manoscritto, in uscita il prossimo 3 gennaio nelle librerie, il racconto della vera UK post Brexit ed il percorso di Bojo in seguito a quel 23 giugno 2016 che ancora non smette di dividere e far discutere gli osservatori. Pertanto, analisi e prospettive dell’autore rappresentano per noi fonte di apprendimento notevole su una nazione che contribuirà a segnare il futuro geopolitico globale.

In che modo nasce e si sviluppa l’idea di scrivere questo libro?

Nasce da due considerazioni. La prima è che volevo scrivere qualcosa che mettesse a frutto le mie conoscenze e la mia passione per la politica britannica. La seconda è la mia insoddisfazione relativamente allo story-telling sul Regno Unito e su Boris Johnson dalla Brexit in poi. Abbiamo davvero letto troppe fake news. Davvero si può credere che Johnson sarebbe stato arrestato in caso di mancata ottemperanza di una sentenza della Corte Suprema? O che la Regina sarebbe stata evacuata da Buckingham Palace in caso di hard Brexit? La mia idea era di scrivere qualcosa di più equilibrato sul nuovo corso che ha intrapreso lo UK negli ultimi anni. Spero che i lettori apprezzeranno.

Come valuti la figura del premier britannico nell’attuale scenario geopolitico globale? Ti riconosci nelle sue decisioni recenti?

Boris Johnson è un unicum, non ci sono figure simili nel partito Conservatore e nella politica inglese. È un uomo dotato di un grande fiuto politico e di grande scaltrezza. Paradossalmente tra lui e Cameron era lui il più europeista dei due, come background e percorso politico-intellettuale. La Brexit è stata anche la storia di come BoJo ha cercato di far sloggiare David da Downing Street. Nel libro lo spiego. Johnson è sicuramente molto ambizioso. La nuova Global Britain, il piano per riequilibrare le disuguaglianze tra Londra e il resto dello UK, la riforma della PA, gli investimenti nella difesa e le nuove politiche commerciali all’insegna del free trade fanno di lui e del suo paese dei protagonisti di assoluto rilievo nel panorama della politica internazionale contemporanea.

Boris Johnson attraversa un periodo di riscontri elettorali altalenanti, tra ampie vittorie e qualche recente batosta. Credi che le decisioni prese in merito alla pandemia abbiano influito sui risultati?

L’ultima suppletiva nello Shropshire è stata un massacro per i Tories. Si votava nel seggio di Owen Paterson, il parlamentare dimessosi per lo scandalo sul lobbying e gli elettori hanno punito Johnson e il suo partito. Tuttavia, le suppletive spesso e volentieri si risolvono in voti di protesta contro i governi. Le decisioni prese dall’esecutivo per contrastare il COVID hanno lasciato il segno soprattutto nel partito di Johnson. Novantanove deputati hanno votato contro di lui settimana scorsa sul Covid Pass, per gli eventi a rischio assembramento. Nel paese, invece, i sondaggi dicono che la gente è a favore di misure restrittive se in ballo c’è la salute. Secondo me il calo di consensi nei confronti del Premier è iniziato quando ha aumentato le tasse per finanziare la riforma del Servizio Sanitario Nazionale (NHS) e dell’assistenza sociosanitaria. Molti thatcheriani nel partito non lo hanno digerito e anche le associazioni di categoria come la CBI – la Confindustria britannica – non hanno certo fatto salti di gioia.

In cosa Boris Johnson potrebbe e dovrebbe fungere da esempio per i leader conservatori nostrani?

Io credo sia molto difficile esportare un modello politico da un paese all’altro. La politica britannica è molto diversa dalla nostra. Basti pensare alla legge elettorale o al modello di competizione politica di Westminster e paragonarlo a quello italiano. Credo, però, che in questa fase storica il governo Tory sia l’unico governo di centrodestra tra i paesi più importanti in Europa. È chiaro che può rappresentare un punto di riferimento per il centrodestra italiano, specie ora che il termine “conservatore” sta acquisendo terreno nel dibattito politico. Non dimentichiamo che i Tories governano il Regno Unito da quasi due secoli e che sono il partito del potere per eccellenza in UK. La differenza più lampante con il nostro centrodestra è proprio questa ma è anche la sfida che Salvini e Meloni hanno di fronte: rendere il loro schieramento la “naturale coalizione di governo italiana”.

In che modo valuti l’attuale scenario politico italiano? Come ne prospetti il futuro?

In Italia si deve ripristinare il prima possibile il rapporto tra eletti ed elettori sulla base di un forte legame territoriale. Via il proporzionale e via le candidatura plurime. Gli eletti devono essere espressione dei loro territori di provenienza e rispondere agli elettori ancor prima che ai segretari di partito. Va ripristinata anche la normale dialettica tra maggioranza e opposizione che è stata diluita dalla nascita del governo di (quasi) unità nazionale, con i risultati che stiamo vedendo nel dibattito politico e nella cloroformizzazione di quello mediatico. Sembra che anche il prossimo governo sarà legato mani e piedi all’attuazione del PNRR da quì al 2027 e ai pareri dell’UE sulle nostre leggi di bilancio e non solo. Dobbiamo recuperare fiducia in noi stessi e nella nostra politica anche per avere un rapporto più dialettico e meno prono nei confronti di Bruxelles e dei nostri alleati internazionali.

Puoi esprimerci un tuo giudizio sull’operato comunicativo della classe giornalistica italiana nel corso della pandemia?

Abbiamo assistito a pregevoli reportage anche tra le corsie dei malati di COVID e a delle inchieste di tutto rispetto ma, nel complesso, mi sembra che invece di rendere il potere accountable si stia cercando di attaccare alcune categorie sociali e di pensiero, attribuendo loro ogni colpa per l’aumento dei contagi e per il mancato ripristino della normalità pre-pandemia. In primis, il giornalismo deve essere watchdog del potere, non di Stefano Puzzer, il cui destino mi può interessare molto relativamente. Il narcisismo di alcuni colleghi e delle virostar sta incrinando il rapporto di fiducia tra cittadini e informazione e, di conseguenza, anche quello tra i cittadini ed istituzioni.

Di che misure sociali ed economiche avrebbe bisogno il nostro paese per ottenere una piena ripartenza?

Visto che di “buonsenso” e “responsabilità” parlano tutti, io dico che abbiamo bisogno di più libertà. Quando la pandemia sarà finita – e finirà quando vorremo che finirà – dovremo attuare un programma di tagli alle tasse per essere concorrenziali con i maggiori paesi europei e attrarre imprese e capitali nella nostra nazione. Non mi riferisco al solito pannicello caldo ma ad un vero e proprio shock fiscale. Da anni seguiamo il solito canovaccio: aumenta il debito pubblico e “bisogna” aumentare le tasse per ripianarlo. Poi scopri che il debito pubblico aumenta comunque, i servizi peggiorano e le tasse aumentano (specie per alcune categorie che si trovano nella condizione di doverle sempre pagare). Ma un percorso di crescita è impossibile in questo modo. Anche il vecchio adagio “pagare le tasse per pagarne di meno” – molto popolare a sinistra – è fuorviante: se tutti pagassero le tasse lo Stato sperpererebbe di più e non risparmieremmo un centesimo. Dobbiamo concentrarci sulle politiche energetiche, sull’aumento dei salari (siamo l’unico paese in Europa che negli ultimi 30 anni ha visto una loro compressione e non una loro espansione) e sulla crescita di una classe dirigente all’altezza della complessità del mondo contemporaneo.

Quanto sarà importante introdurre una proposta politica ambientalista che non sfavorisca lavoratori ed imprenditori?

La transizione energetica e la green economy non devono essere pagate dai ceti più deboli e devono avvenire con gradualità e senza ulteriori tasse punitive per le attività imprenditoriali. No alla Plastic Tax – che penalizzerebbe, tra l’altro, un ampio comparto della nostra economia – no a misure che contraggono la crescita economica invece di espanderla. I vertici internazionali sull’ambiente, come l’ultimo di Glasgow, di solito si risolvono in passerelle politiche e aggiungono ben poco alla causa. Mettere d’accordo quasi 200 paesi su un tetto alle emissioni di CO2 tra oltre trent’anni è una chimera che qualsiasi adepto alla realpolitik non può che rigettare. Se anche noi limitiamo le nostre emissioni e una sola azienda cinese ne produce più di Pakistan, Giappone e Sud Corea messi insieme non si può credere alla retorica di “salvare il pianeta”.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Sono entusiasta dell’uscita di questo libro, che rappresenta anche il primo libro su Boris Johnson e la Global Britain in Italia. La mia è un’istantanea non solo del percorso politico dell’attuale Premier, ma anche della politica e della società britannica dall’ormai celebre 23 giugno 2016 ad oggi. In futuro vorrei scrivere ancora della politica e della storia di questo paese.