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Mishima, storia di uno scrittore trafitto da una rosa

Mishima, storia di uno scrittore trafitto da una rosa

Di Francesco Subiaco


«Conosci il poeta che venne assassinato da una rosa?»


Yukio Mishima, non è solo il grigio dell’acciaio delle katane dei samurai, il rosso del sangue versato durante il seppuku quel lontano 25 novembre del 1970, o il candido dei crisantemi diafani dell’imperatore e del Giappone dei kami. È anche il giallo aureo del Padiglione d’oro, il nero delle uniformi conformi e tradizionali degli studenti Giapponesi, dietro cui si nascondeva il protagonista delicato e imperdonabile delle Confessioni di una maschera, il viola dei kimoni del teatro Nō e soprattutto è il cremisi fatale e sensuale della rosa e della maledizione che lo lega a questo autore straordinario e dannato delle lettere nipponiche. Tinte che mostrano come Mishima sia un autore ricco di imperdonabili e inconfessabili sfaccettature, che va letto e conosciuto alla luce di tutti i suoi colori proibiti. Yukio Mishima, infatti, vive nella sua figura l’equivoco di essere non solo un grande autore, ma soprattutto di essere un simbolo e una leggenda per gran parte della cultura controcorrente, definizione limitante per un autore di questo spessore. Mishima, infatti, non fu soltanto l’icona mitica e sacrale di una “destra divina” e ribelle, che trovava nel suo seppuku, compiuto il 25 novembre del 1970, il sacrificio di un Che Guevara conservatore e identitario oppure nella sua nostalgica battaglia per un mondo antico e panico la protesta antimoderna di un Pasolini patriottico e guerriero, ma fu anche tanto altro. Fu l’ultimo testimone di una kulturkamph tra identità nipponica e mondo moderno, tra le tentazioni della civiltà di massa e le estasi delle ierofanie dei kami, l’esteta armato che di fronte ad un plotone di soldati e di curiosi il 25 novembre offrì la propria vita in nome di una resurrezione spirituale e morale dell’uomo di fronte alla decadenza del Giappone contemporaneo, pregno di nostalgia degli dei e coraggio titanista. Un arcangelo guerriero del numinoso e dell’identità sciamanica e rituale di un sogno perduto e lontano che riflette l’idea per cui “se Dio non esistesse più bisognerebbe farlo rinascere”. Nella produzione di Yukio Mishima però non esistono solo “Sole e acciaio” e “Lezioni spirituali per giovani samurai”, ma c’è molto di più, c’è l’esteta decadente sacerdote della bellezza e martire dell’assoluto, c’è il cantore della desolazione spirituale del mondo che nel Mare della fertilità rese eterni i temi di sconforto e disperazione presenti nella sua sensibilità, c’è soprattutto l’autore puro e incorruttibile trafitto da una rosa che conservava fiori imperituri contro l’inverno dell’oblio e della perdita. C’è il protagonista controverso e innominabile delle lettere nipponiche che con il suo sacrificio volle mettere una firma, un finale su un’opera d’arte complessa e celestiale fatta di romanzi unici come la tetralogia de “Il mare della fertilità” e le “Confessioni di una maschera”. Per scoprire tutte queste sfumature di Yukio Mishima è fondamentale leggere e rileggere “Trafitto da una rosa” di Atsushi Tanigawa, editi dalla Gog edizioni di Lorenzo Vitelli. Tanigawa estetologo ed acuto conoscitore di Mishima traccia una cartografia dell’autore dei Colori Proibiti innescandosi proprio dal ricordo personale di quel 25 novembre del 1970, il giorno del seppuku, il suicidio rituale dei samurai, quello in cui Mishima si trafigge il ventre, come ultimo, estremo gesto. Da quel ricordo fatale nasce l’immersione totale di Tanigawa nell’opera di Mishima approfondendone le opere e i temi principali: la musica, la flora, il culto del corpo, le contaminazioni elleniche, quelle poetiche, da Rilke a Valéry, l’influenza dannunziana, la cultura liberty e l’identità profonda, tra D’Annunzio e Kawabata. Un viaggio in un mondo fatto di bellezza e morte, di sublime e vitalismo, in cui il lettore troverà un autore straordinario capace di sprofondare negli abissi dell’interiorità e di risorgere nella maestosità di un capolavoro nel richiamo dei passati perduti. Un viaggio tra delicatezza e sensualità, estetismo e ribellione, in cui la rosa, come una maledizione letteraria, incontra il destino di Mishima e dei personaggi, diventando la metafora del rapporto tra l’artista e l’assoluto, l’uomo e la bellezza, il corpo e lo spirito. Come il Rilke di un suo racconto, che si avvicina ad una rosa spinosa, seppur malato e vulnerabile, e ne viene trafitto mortalmente anche Mishima è trafitto dalla bellezza, dal numinoso, dalla potenza, che lo colpiscono, dissanguano e prosciugano fino a trasformare la sua vita in un esile vetro e la sua opera in un miracolo fragile e straordinario. Scoprire quindi l’opera di Tanigawa è scoprire e vivere il rapporto conflittuale e fatale con quella rosa ricca di echi e di misteri. È rivelare che l’opera di Mishima non è solo quella di un santino di una parte, ma il travaglio spirituale di una delle anime più profonde e malinconiche del novecento. Un autore che scrisse romanzi in cui i temi dell’omosessualità, del mito, del rapporto controverso con l’identità, con la cultura toccano, diventano scenari per mostrare con lucida disperazione i luoghi oscuri dell’animo umano, il vento divino e travolgente del sacro che attraversa le vite dei protagonisti rompendone tutte le certezze e conferme poiché “Le emozioni non hanno simpatia per l’ordine fisso”. La delicatezza piena di tatto e profondità che permeerà le atmosfere del capolavori di Nagisa Oshima, “Merry Christmas mr. Lawrence”, ricco di echi mishimiani (la colonna sonora di Ryuichi Sakamoto infatti si chiamerà Forbidden colours). Rileggere oggi il proclama conclusivo dell’esistenza di Yukio Mishima, con la consapevolezza che ci viene dalla lettura di “Trafitto da una rosa”, ci porta a guardarlo come l’ultima speranza, il finale inaspettato che si cela nel Mare della fertilità, un’ultima ribellione romantica dopo l’ammissione finale della Decomposizione dell’angelo (ultimo tomo del Mare della fertilità):”Sono venuto” pensò Honda “nel luogo del nulla, dove ogni ricordo è cancellato”. Un finale che Mishima col suo gesto voleva riscattare far risorgere con un gesto romantico e rituale poiché “la vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”.

Oltre la Giudea: Maurizio Grossi tra racconti del mare, pinse napoletane, tradizioni e amor di patria

– Francesco Latilla, Francesco Subiaco

“La cucina è amore, passione verso cui bisogna dedicare sé stessi fino alla fine, utilizzando delle ottime materie prime e studiando moltissimo. Poi, quando i clienti arrivano in una serata addirittura a divorare più di tre pizze capisci che questo mestiere, se fatto bene, è qualcosa di magico. È un’arte a tutti gli effetti. Una volta addirittura un mio amico americano che lavora come produttore televisivo mi ha soprannominato: dottore di cucina. Quest’ultimo ogni anno passa tutto il tempo a sognare il nostro tiramisù per venirselo poi a gustare durante l’estate.”

Su Maurizio Grossi non c’è che dire. È un fuoriclasse della pizza. Napoletano doc, fondano acquisito, l’artista Maurizio porta avanti la propria attività “La Giudea” da oltre vent’anni nel celebre quartiere ebraico all’interno del centro storico di Fondi. Sull’originalità e il buon gusto che lo caratterizzano non vi sono dubbi, come non sorge alcun dubbio quando presenta sé stesso e l’arte culinaria italica in questo modo: “Mi ritengo un tradizionalista, un nazionalista. Sono convinto che sul cibo non ci supera nessuno in tutto il mondo.” Conosciuto ormai da tempo per i piatti e soprattutto per le leggendarie pizze che lo hanno portato a grandi trionfi nazionali, egli è anche e soprattutto un esperto di vino tant’è vero che possiede un’enoteca proprio di fronte al ristorante. Un’enoteca in cui una volta entrati ci si immerge in una moltitudine di vini provenienti da tutta Italia. “La passione per il vino mi ha spinto a creare un’enoteca proprio qui di fronte in cui conserviamo vini e bollicine esclusivamente italiani. Poi mi sono interessato anche al mondo della birra, sempre italiana, prodotta da ragazzi italiani che in diverse zone della penisola producono dei prodotti davvero molto buoni. Devo ammettere che i bordeaux, i vini rossi francesi, possiedono una marcia in più ai nostri ma riguardo alle bollicine siamo noi italiani a dare le sberle ai francesi a suon di Franciacorta e non solo.” Per l’intervista ci ospita di pomeriggio, quando nel vicolo non si ode alcun rumore e le pietre delle antiche case lì accanto donano un senso arcaico e di pace. Appena entrati veniamo accolti da Maurizio che brandisce del pane caldo appena sfornato, del prosciutto crudo e dell’ottimo vino. Ci sediamo a tavola e comincia la sua immersione nei ricordi, partendo dagli albori e facendoci innamorare delle immagini che la nostra mente delinea grazie al minuzioso e articolato racconto.

“La passione l’ho avuta sin da bambino per via di alcuni parenti che lavoravano già nel campo, uno zio a Latina e un altro in Liguria e ricordo che l’estate partivo con la mia famiglia e andavo ad aiutarli e così credo sia nata l’infarinatura di quel che poi si è rivelato il mio percorso, il mio mestiere. Una volta conclusi gli studi nelle scuole medie decisi di intraprendere l’Istituto Alberghiero in quel di Napoli, ad Ottaviano per essere esatti. Così scelsi il corso di sala bar e dato che avevo la passione per la pizza venni fortunatamente richiesto come pizzaiolo presso il lago di Bolsena, avevo quindici anni, era il mio primo lavoro e il fatto che a differenza dei miei compagni io gudagnavo un milione era una cosa bella perché si trattava di un bel budget per un ragazzo dell’epoca e sicuramente potevi usufruirne durante l’inverno. L’anno successivo, il proprietario mi richiamò aggiungendo altri soldi alla mia paga facendo maturare in me la gioia nel tornare a lavorare. Qualche tempo dopo vennero a scuola gli ispettori del famoso Club Méditerranée   per selezionare dei ragazzi da far lavorare in uno dei loro villaggi sparsi in tutto il mondo. Io fui scelto e andai a Corfù, in Grecia, dovendomi abbassare un po’ lo stipendio ma tanto ero affascinato dall’esperienza all’estero che non mi importava molto di guadagnare di meno e poi era magnifico il fatto di poter incontrare culture diverse e parlare lingue che non mi appartenevano. Fu un’esperienza strepitosa, ebbi la fortuna di confrontarmi con persone provenienti da tutta Europa. Voglio precisare che a pranzo mi occupavo di cucinare la pasta italiana da servire ai tavoli, un piatto molto semplice ma efficace per la bontà, e la sera ero nominato responsabile dell’angolo ristorante dove servivamo carpaccio, spaghetti al pomodoro e pizza. Il quarto anno invece capitai a Roccaraso, ero già maggiorenne, poi fece un’esperienza al centro di Parma adiacente il Teatro Regio e poi tra la fine dell’89 e l’inizio del ’90 mi trovai a Fondi per via di situazioni sentimentali e decisi di restare in questa splendida cittadina. Dopo qualche esperienza da dipendente, nel giro di pochissimo riuscii ad aprire con alcuni amici un American Bar. Creammo questo locale con il forno a legna e io lo gestii fino al 1997 ed infine, dopo alcuni anni di pausa, ebbi un’illuminazione. Ero tra i vicoli del centro storico fondano e capii che avrei potuto aprire un ristorante proprio tra questi scorci e donando così anche qualcosa di buono alla città. Adesso sono passati tanti anni dall’apertura avvenuta nel novembre 2001, pochi mesi prima che entrasse l’euro, e adesso siamo nella bella stagione del 2022 e nonostante i due anni sofferti per la pandemia siamo ancora qui e credo proprio di aver vinto la scommessa che assieme alla mia compagna mi ero preposto sin dall’inizio. Poi sono sempre aperto a nuove sfide, frequento diverse manifestazioni e gare legate al mio ambito proprio perché mi permettono conoscere gente nuova e di proporre i miei prodotti artigianali. Sottolineo l’artigianalità verso cui siamo estremamente legati in virtù del fatto che secondo il mio pensiero acqua, farina, sale e lievito sono la base per creare qualcosa di buono, come la semplicità della pasta aglio olio e peperoncino. Semplicità, ricerche delle materie prime sempre accurata, attenzione metodica ad ogni impasto sono fondamentali per questo mestiere. Non sono interessato a produrre delle pizze “commerciali” legate solo al guadagno ma voglio invece pensare alla salute dei miei clienti e quindi cerco di stare al passo coi tempi trovando il modo di poter accontentarli nonostante le diverse problematiche alimentari di molti.” L’arte di Maurizio è frammentata dai sapori della terra italiana, la storia locale e il desiderio di portare in alto il nome di questa città che ha dato i natali a grandi figure della cultura del ‘900 come il poeta Libero De Libero, il pittore Domenico Purificato, il produttore cinematografico Giovanni Addessi e i fratelli Giuseppe e Pasqualino De Santis, rispettivamente regista e autore della fotografia. Frequentata da turisti provenienti da ogni parte del mondo, “La Giudea” è un luogo caratteristico perfetto se si ha voglia di provare una pizza che abbia le caratteristiche a metà tra Napoli e Roma, proprio come la città stessa, che prende il nome di “Pinsa napoletana”. Inoltre, questo per il nostro pizzaiolo è un periodo importante grazie alle sue apparizioni in importanti manifestazioni come quella organizzata sulla nave da crociera MSC dal titolo “Navigando con gusto” attraverso cui ha girato il Mediterraneo partendo da Napoli e passando per Genova, Marsiglia e così via. Maurizio in quell’ occasione   ha seguito dei corsi sulla pizza assieme a degli altri concorrenti e poi, a Genova, ognuno di loro ha presentato una propria pizza con i condimenti che erano stati messi a disposizione per l’evento e si è classificato quarto su 59 partecipanti. Poi ha partecipato ad un format televisivo dal titolo “Piazza talent show” dove è stato selezionato tra le 10 pizzerie migliori del centro Italia, così come vi erano 10 del sud e 10 del nord, un programma ad eliminazione in cui si è posizionato sesto in classifica. Infine, un’ulteriore prova dell’ormai irrefrenabile successo che sta ottenendo la troviamo grazie a “Mistery box pizza” un format che si tiene in Campania e che è molto seguito. 

Maurizio, alla domanda: Cosa pensi dell’idea di alcuni paesi dell’UE riguardo ai prodotti alimentari da controllare mediante un semaforo che possa rilevare il grado di nocività alla salute? Risponde da buon intenditore che più di qualunque cosa ama il proprio mestiere e le proprie pietanze che tratta come opere sacre.

“Su queste dinamiche mi incazzo tantissimo. Come dicevo, io sono per il made in Italy totale e quindi per me queste assurdità non hanno senso, soprattutto perché non hanno fondamenta. Il mio motto è: Mangia italiano, bevi italiano, ama l’Italia. Sono più che nazionalista e sul cibo non ammetto che venga imposta qualcosa che non combacia con la nostra cultura, tradizione solo per accordi. Penso che ogni paese debba occuparsi del proprio cibo valorizzandolo al massimo, così come qualunque altro aspetto della propria identità nazionale. Ad esempio, in Olanda sono bravi a coltivare i fiori e continuino a fare questo senza provare a distruggere la mozzarella, i prosciutti o il pomodoro. Stessa cosa vale per altri paesi come la Cina. L’eccellenza del cibo l’abbiamo noi e che ci lasciassero produrre il nostro cibo come vogliamo, alla nostra maniera.”

Insomma, la chiacchierata con lui sembra essere più un’intervista un racconto narrato come nell’antichità da figure chiavi dei borghi e probabilmente, in questo maledetto tempo in cui stiamo percorrendo quel viaggio chiamato vita, le parole di quest’artista della cucina suonano come un esempio per riprendere confidenza con la semplicità e con la bellezza del quotidiano. “Nulla è più importante di vivere una bella vita tranquilla e gustando i piatti di una sana cucina accompagnati con del buon vino e un dolce a fine pasto condito di risate, chiacchiere tra amici e nulla più.”

“Intervistare gli irregolari è fondamentale per ragionare meglio”: Gianmarco Aimi e il valore dell’intervista

– Francesco Latilla

Gianmarco Aimi, tra le giovani firme più interessanti del giornalismo nostrano, è lo sguardo che fortunatamente ancora esiste in questo campo. Una penna che non si accontenta del semplice chiacchiericcio in forma d’intervista ma invece tenta di riportare alla luce la galassia interna a determinate figure strane e dalle mille contraddizioni che rispondono al sacro nome di “artisti”. Aimi si tuffa nelle storie da raccontare con la cultura e il modo di intendere l’intervista come nel passato, partendo dalla concezione di mestiere che è alla base di un lavoro artigianale come quello del giornalista, ma con uno sguardo verso il futuro e a volte anticipando i tempi. Dopo la collaborazione con Il Fatto Quotidiano arriva a scrivere per Rolling Stone e Mow. In questo nostro dialogo abbiamo cercato di cogliere gli aspetti fondamentali di una sana intervista e cosa davvero significa oggi essere un giornalista.

Perché qualcuno dovrebbe voler diventare un giornalista al giorno d’oggi?

Questa è una bella domanda. Parto col dire che sconsiglierei a tutti di fare il giornalista se non ci credono davvero, se non pensano che questo possa essere il loro lavoro, anche perché a volte diviene una missione personale. Non si tratta soltanto di un lavoro, preferisco la definizione di “mestiere” come si usava un tempo chiamare gli antichi mestieri e quindi sono legato ad una visione artigianale. Oggi tutti provano a mascherarsi da giornalista, anche coloro che in realtà non vogliono fare questo nella vita ed infatti la macchina del giornalismo la trovo ingolfata di tantissima gente e questo è dovuto anche al fatto che le testate pagano sempre meno e tutti ci provano, anche per farsi conoscere. C’è anche chi svolge un altro lavoro nella vita e per passione si dedica alla scrittura giornalistica. Diciamo che i veri giornalisti sono coloro che cercano di andare oltre lo scrivere semplicemente per esserci, per apparire, insomma si tratta più di un lavoro di ricerca che tenta di fornire diverse chiavi di lettura al pubblico. È un lavoro che non ha a che fare col marketing e lo sconsiglio perché oggi è abbastanza difficile riuscire ad avere una retribuzione che possa mantenere te ed una eventuale famiglia ma dall’altro lato per me si tratta del lavoro più bello del mondo.

Scrivi per testate importanti e hai intervistato personalità influenti e diverse tra loro. Qual è stata l’intervista che più ti ha reso soddisfatto?

Sicuramente quella a Piergiorgio Bellocchio per “L’inchiesta” che risale ad alcuni anni fa. Prendo questa come riferimento perché trovo che ci sia proprio tutto ciò che io desidero da un’intervista ossia un personaggio da (ri)scoprire, una figura non appartenente al mainstream e che magari è stato accantonato per tanti motivi. Poi facendola dal vivo ed essendo entrambi piacentini ho potuto scavare meglio proprio perché ci siamo trovati su una stessa linea d’onda. Infine, dato che si tratta di una delle prime interviste svolte in uno stile approfondito, senza tener conto del numero di battute, riportando il dialogo come un flusso di coscienza tra me e lui, è sicuramente quella che ricordo con più affetto.

Cosa ricerchi attraverso un’intervista?

Ad un certo punto della mia vita mi sono trovato senza lavoro perché ha chiuso la radio per cui lavoravo e si è interrotta la mia collaborazione con “Il Fatto Quotidiano”. Siccome era tanto forte la mia voglia di tornare nel giornalismo ho incontrato dei personaggi e partendo da semplici chiacchierate sono venute fuori delle nuove interviste. Per cui mi sono accorto che non si diventa artisti per caso o perché lo si vuole ma invece lo si è a causa di vite particolari, di scelte che sono state fatte prima di creare un’opera e quindi la mia ambizione sta nel tirare fuori dalla loro memoria la genesi della loro creatività e delle relative opere. Cerco di scavare nella personalità dell’intervistato, artisti per la maggior parte, per tirare fuori quel che davvero sono queste figure da un punto di vista personale. Un tempo si cercava di fare delle interviste per mostrare qualcosa di originale della figura in questione studiandola a fondo prima di tutto, sia la vita che le opere. Oggi si è perso un po’ questo modo di concepire le interviste, forse per il fatto che ormai tutto deve essere veloce e pronto per il giorno dopo o addirittura un’ora dopo. Per quanto mi riguarda posso dire di aver recuperato lo spirito del passato e quindi di valorizzare l’intervista come genere giornalistico.

Spesso i personaggi da te intervistati sono degli irregolari, dei politicamente scorretti come il già citato Massimo Fini ma anche Morgan, Isabella Santacroce, Stefano Bonaga, Enrico Ruggeri, Giovanni Lindo Ferretti. In un’era stracolma di presunti buoni, quanto serve invece essere dalla parte sbagliata?

Credo sia fondamentale per riuscire a ragionare bene. Anni fa mi sono accorto che leggere i giornali o le testate online che la pensavano come me, seguire soltanto i personaggi che erano del mio mondo non mi dava più nulla e allora ho cominciato a cercare figure che potevano pensarla diversamente da me e con i quali potevo anche trovarmi in disaccordo e devo dire che tutto ciò mi ha arricchito. Ho cercato personaggi scorretti, controversi, controcorrente che dessero a me e soprattutto al lettore delle chiavi di lettura originali sul mondo e credo sia stata una grossa crescita dal mio punto di vista.  MI hanno anche portato molta fortuna facendomi ritornare nel giornalismo. Insomma, posso dire che uscire dai soliti schemi ha pagato sia per un mio interesse personale, tornare a divertirmi con quello che era il mio lavoro primario, e anche per i lettori che sono rimasti stupiti ed hanno apprezzato il mio modo di introdursi nelle storie. La mia ricerca è nel riscoprire coloro che sono usciti dal grande mercato oppure portare alla luce qualcuno di nuovo, anticipando i tempi, come la filosofa Ilaria Gasparri la cui intervista è stata la più letta di Rolling Stone per vari giorni o Mattia Tarantino, un poeta giovanissimo che ho paragonato a Rimbaud. Il contemporaneo è importante per me però sento che è già troppo abusato da chi giornalmente fa un lavoro standard.

Quali sono i lampi di genio che possono venir fuori dal dialogo con uno di questi personaggi?

Guarda, io in realtà non li definirei neanche personaggi perché altrimenti li confonderei con quelli televisivi che puntano solo all’immagine. Invece li chiamo per quello che sono, artisti. Dialogando con loro ti accorgi che non riuscirai mai a delineare un vero profilo, sono come un fiume che scorre, li incontri un giorno e credi che in trentamila battute riesci a coglierne tutte le sfumature ma poi li ritrovi l’anno dopo e cambiano tutto. Sono in completa trasformazione, certe volte non sono neanche d’accordo con quanto hanno detto qualche mese prima addirittura. Per quanto riguarda Morgan, credo sia uno degli artisti più originali non solo dal punto di vista musicale ma anche perché ad ogni domanda di qualunque argomento riesce a spiazzati per la sua cultura, infatti penso anche che sia molto sottovalutato. Devo dire che gli artisti veri sono persone scoperte, perché si spogliano completamente a differenza delle star televisive e non hanno paura di raccontare determinati passaggi della loro vita. Citando Aurelio Picca, un grande scrittore che ho intervistato, è come se gli artisti avessero una ferita che tutti possono vedere ma che li nobilita e non li rende fragili ma più veri.

Un tuo ricordo di Antonio Pennacchi?

Quando ho saputo della sua scomparsa mi sono davvero commosso perché l’intervista che gli feci fu molto particolare. Nel lavoro del giornalista servono tanti fattori tra cui l’intuito nel capire quando scrivere di una determina cosa o di una persona. Non appena venni a sapere che sarebbe uscito il suo nuovo libro “La strada del mare” proposi un’intervista e il suo ufficio stampa non mi fece sapere nulla e non so perché. Allora sono andato sulle pagine bianche, ho trovato il numero del telefono di casa sua e l’ho chiamato. Di questa storia mi ha stupito il fatto che ho sentito di dovergli fare quell’intervista e dopo un mese è scomparso e quello che mi ha toccato di più è che lui dopo tanti anni di successi nella letteratura, dopo il Premio Strega, sognava ancora di notte i suoi compagni di fabbrica. In fondo è rimasto fino alla fine quell’operaio lì, incazzato.