Confessioni di un governatore. Intervista ad Attilio Fontana
Di Francesco Subiaco
Attilio Fontana, 70 anni, avvocato, una carriera nell’amministrazione e nel rapporto con il territorio. Sindaco, presidente dell’assemblea dei sindaci, presidente della regione, candidato a questa tornata elettorale per rinnovare il suo secondo mandato come governatore della Regione Lombardia. Eccellente amministratore, volto moderato e responsabile della Lega, che ha attraversato dagli inizi della Lega Lombarda passando per la svolta salviniana e l’attualità, di cui oggi è uno dei più noti ed apprezzati esponenti. Da sempre legato alla cultura liberaldemocratica, si ricandida a questa tornata elettorale con un programma e un pareterre di candidati capace di far convergere conservatori e liberali, leghisti e centristi, popolari e mazziniani (tra i candidati della sua lista Civica spiccano infatti anche i repubblicani Valerio Massimo Antonelli e Silvia Gioventù del Pri lombardo) in una proposta politica capace di conciliare responsabilità e connessione sentimentale nazionalpopolare, senso delle istituzioni e legame col territorio, l’autonomia con la coscienza nazionale. Fontana è nell’immaginario collettivo “il governatore” per antonomasia, il rappresentante di un centrodestra che non solo vuole incarnare le istanze popolari, ma soprattutto trasformarle nell’anima delle istituzioni, che sa guardare oltre le ideologie in nome di una visione dell’amministrazione pragmatica e concreta.
–Presidente Fontana, Lei ha guidato la regione Lombardia durante un periodo durissimo come quella della zona rossa e della pandemia. Che ricordo ha di quei giorni e come ha vissuto quella stagione così complessa? Non scorderò mai le notti a studiare un nemico invisibile che nessuno ci aveva preparato ad affrontare. Abbiamo fatto tutto quello che era possibile fare per salvare il maggior numero di persone. Il dolore per chi ha perso la vita e per le loro famiglie sarà sempre una ferita aperta nel mio cuore. Senza dubbio la difficoltà più grande è stata far comprendere a Roma che la situazione in Lombardia era più grave di quello che loro percepivano. Nel primo periodo ci siamo sentiti abbandonati. Il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza il 31 gennaio 2020, ma non si è preoccupato, pur avendone la competenza esclusiva, di fare provviste di dispositivi e macchinari che poi sarebbero stati essenziali per il personale sanitario. C’è stata una grande sottovalutazione del problema, il resto è storia. Come dicono anche all’Estero se il covid avesse colpito un’altra regione, soprattutto del sud, gli effetti avrebbero potuto essere ben più drammatici. Il nostro eccellente sistema sanitario ha arginato e gestito al meglio una situazione pazzesca.
–Come giudica la sua esperienza di governatore e quali sono stati i momenti più importanti e significativi del suo mandato? È stato un privilegio per me guidare la regione definita locomotiva d’Italia e motore d’Europa. Tra i momenti più significativi di questo mandato c’è sicuramente la gioia per l’aggiudicazione delle Olimpiadi 2026 e poi la ripartenza dopo la pandemia. Il grande piano vaccinale, portato avanti da Bertolaso che ci ha consentito di mettere al sicuro il 91% dei lombardi sopra i 5 anni e il 94% degli over 12, una percentuale che ci ha visto primeggiare non solo in Italia, ma in Europa. Poi il ‘Piano Lombardia’ concepito e lanciato per sostenere la nostra economia e dare un messaggio di speranza. Oltre 8000 interventi ammessi e finanziati per 3mld e 640 milioni, 5700 cantieri aperti e 2700 completati da parte di comuni, province e altri soggetti pubblici. Un investimento di 4,2 miliardi di euro di risorse regionali che ne ha generato da parte degli enti locali ulteriori 2,3. Si stima che il Piano abbia prodotto un incremento del Pil regionale dello 0,8 per cento, con un incremento della occupazione di circa 36mila unità in Lombardia e di altri 12mila fuori regione. Siamo molto orgogliosi di questa scelta che, di fatto, ha anticipato di oltre un anno il Pnrr, e soprattutto perché l’abbiamo realizzata lavorando in sinergia con i Comuni.
-Che considerazioni trae riguardo la prosecuzione del progetto di autonomia differenziata? E come risponde alle critiche mosse al suo partito riguardo questo tema? Alle critiche rispondono i fatti e questi dicono che l’attuazione dell’autonomia differenziata per la Regione Lombardia è un problema politico nazionale e su questo, mi pare, ci sia coesione nella maggioranza e penso che potrà arrivare nel 2023. Anche il presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è resa conto che questa riforma guarda al futuro e all’efficienza degli Enti locali e dei servizi ai cittadini. Il ministro per le Autonomie Roberto Calderoli sta facendo un pressing su tutti i governatori del sud e sta cercando di spiegare come questa riforma sia utile anche per loro. Anche se con qualche sfaccettatura diversa da parte di tutti c’è disponibilità.
–Quali saranno i principali temi su cui verterà la sua candidatura e quali le battaglie saranno prioritarie in caso venisse rieletto? La vision strategica per la Lombardia del futuro ha l’obiettivo di mantenere il suo posizionamento come leader nazionale e di migliorare la propria attrattività internazionale, avendo come punto di riferimento le persone e il miglioramento della loro qualità della vita e agendo su alcuni driver principali: le infrastrutture materiali e digitali, per connettere il territorio in tutte le sue aree e permettere di cogliere le opportunità legate alle trasformazioni tecnologiche anche in un’ottica di transizione ecologica; il sistema dei servizi al cittadino, mantenendo un ecosistema che permetta lo sviluppo delle potenzialità individuali, partendo dal benessere delle persone e sostenendo cittadini e famiglie; gli investimenti sul capitale umano come driver per migliorare competitività e produttività, integrando tra loro le filiere scuola, formazione, lavoro e impresa per garantire lo sviluppo delle competenze del futuro; le strategie di sviluppo territoriale per una Smart Land sempre più connessa e resiliente, potenziando la coesione e l’inclusione sociale e valorizzando il patrimonio paesaggistico e culturale della Regione e, al contempo, garantendo lo sviluppo sostenibile e la protezione delle biodiversità.
-Che opinione ha della possibilità di un ritorno del nucleare in Italia? Credo che il nucleare di ultima generazione sia sicuramente da prendere in considerazione, a patto che sia data ogni tipo di garanzia ai cittadini. Sono ottimista, visto lo sviluppo che sta avendo nel mondo. Viene considerato sostenibile anche da un punto di vista ambientale e infatti l’Europa lo prevede come una delle forme di approvvigionamento energetico.
–Quali sono stati i momenti più importanti del suo percorso politico e quali la hanno formata di più? Sicuramente l’avvicinamento alla Lega. Nella prima fase come osservatore, affascinato dal discorso delle Autonomie. Poi senza dubbio tutti gli incarichi assunti come amministratore, ognuno mi ha dato qualcosa: da sindaco di una piccola cittadina come Induno Olona, a presidente del Consiglio Regionale, a nuovamente sindaco, ma stavolta di una città più grande, a presidente di tutta l’assemblea dei sindaci lombardi e infine l’incarico ancora più impegnativo come presidente di Regione Lombardia.
-Quali sono i riferimenti culturali di Attilio Fontana? Il mio riferimento culturale è stato negli anni della formazione quello del Partito liberale. Mio padre era un simpatizzante e io l’ho seguito. Avevo stima soprattutto per Malagodi.
Spiritismo tecnico. Come le satrapie digitali hanno riscoperto la magia
Di Francesco Subiaco
Magia, potere e alta tecnologia si sono sempre strettamente intrecciati sin dall’origine delle società umane. Stregoni, maghi, alchimisti e cartomanti hanno accompagnato per peso ed influenza scienziati, tecnici e studiosi in tutta la storia del potere. Dalle profezie del consigliere della corona John Dee ai rituali esoterici del regime nazista, dai bagni di misticismo e sciamanesimo del potere sovietico alle witchcraft e alle reti di medium ed astrologi che hanno accompagnato le sfide dell’anglosfera dagli anni 40 in poi, il potere non ha mai abbandonato la sua matrice oscura e rituale della sua origine. Anche il nostro secolo non sfugge a questo legame eterno. La magia, come la tecnologia, si esprime attraverso un linguaggio fatto di metafore ed allusioni, un linguaggio simbolico che come quello della scienza è inaccessibile ai più e incomprensibile ai non iniziati, confermando l’idea dello scrittore Arthur Clarke, che nella sua terza omonima legge diceva che “qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia“. Una visione magica, irrazionale ed alogica che sembrerebbe paradossale nel mondo del razionalismo e del trionfo di una visione scientista se questo binomio di un mondo dalla doppia anima quella superstiziosa, stregonesca e mistica e un altra razionale, tecnica, algoritmica non fosse in realtà soltanto un paradosso apparente. Da questa intuizione parte il saggio di Andrea Venanzoni,“Il trono oscuro”(Luiss Press) che compie non solo una controstoria del rapporto tra potere costituito e magia ed irrazionale, ma allo stesso tempo indaga le pieghe e le contraddizioni di un mondo digitale e virtuale che si nutre di occulto, di mistero, di sigilli. Il mondo del cosiddetto “elettrocene”, l’epoca in cui rotto il sigillo del materialismo l’umanità si riduce a informazione ed a mezzo di condivisione di informazioni, che è caratterizzato da una società dematerializzata dove il virtuale, l’intelligenza artificiale, i social e le nuove scoperte dell’informatica, pongono le fondamenta di una esistenza immersiva in cui reale e virtuali si fondono e in cui la dimensione simbolica, pubblicitaria o esoterica, prende il sopravvento sulla realtà fenomenica. La vita umana sradicata da ogni legame con un ordine terrestre, fatto di comunità, credenze e tradizioni, si rifugia nei paradisi artificiali offerti dalla tecnica, rintanandosi in una vita anestetizzata che fa dell’uomo un feticcio delle sue “conquiste”. La religione, il sacro e l’ideologia perdono peso nelle società modernizzate, ma ad un ordine terrestre che tramonta segue un nuovo ordine, aereiforme ed immateriale, che sorge con le sue ritualità ed i suoi culti, trovando fondamento in una nuova magia hi-tech che è la base di uno spiritismo tecnico, superstizioso ed alchemico, che fiorisce nel bel mezzo del nuovo Eden della civiltà del codice e degli algoritmi. Uno spiritismo che è la sublimazione di una esigenza spirituale che viene surrogata dalla tecnica e dalle sue promesse. Infatti “il paradosso però è davvero solo apparente- dice Venanzoni nel suo saggio- emerge una innegabile centralità della magia nelle maglie sociali del mondo moderno, e tecnologico in particolare: questo processo ha determinato il paradosso di cui sopra, quello di una, solo apparente, espunzione del magico dal campo di azione del moderno a opera della espansione delle logiche tecniche e di progresso, le quali hanno però introiettato nel loro ventre la dinamica costitutiva del magico stesso. Una sorta di cannibalizzazione psichica che prelude alla costruzione di una magia hi-tech. Questo perché all’aumentare della complessità dei processi costitutivi dei fattori tecnologici, della loro sempre più ardua comprensibilità, al rendersi opaco e fantasmatico del linguaggio dei saperi tecnici, corrisponde il necessitato strumento di riduzione della complessità: la magia diventa tool per soluzioni gordiane, per azzerare la difficoltà di risoluzione dei problemi e per far ottenere quanto si vuole, senza, in apparenza, passaggi intermedi”. In questa ottica gli strumenti della tecnica si caricano di significati profondi ed oscuri che resuscitano vecchi miti ancestrali, come il mito di Agartha, e paure archetipiche in una nuova sintesi in cui gli hacker, gli scienziati, i teorici del transumano diventano gli eredi delle funzioni che in passato furono dei maghi, dei corsari, dei santoni, come indagatori e conquistatori di nuove frontiere del possibile, delle possibilità di una altra parte ignota e virtuale. La rete diventa quindi non più solo uno strumento di comunicazione ma un grande subconscio collettivo in cui gli uomini proiettano i propri desideri, i propri sortilegi, facendosi il veicolo perfetto di un nuovo misticismo gnostico che non vuole più connettere l’uomo a dio, ma vuole trasformare l’uomo in una divinità superando i confini del corpo e della terrestrita in nome della singolarità. Un tecnognosticismo che è l’ideologia tacita del mondo della Sylicon Valley, come sottolinea Venanzoni nel suo saggio, poiché, non casualmente, molti dei titani dell’Hi-Tech portano dei marchi di fabbrica simili a sigilli magici: dalla Oracle alla Alphabet passando per la Palantir, moltissime società del digitale, le quali albergano in quella terra cava che è la valle del silicio, tra meditazione trascendentale, misticismo hindu, Zen, occultismo postmoderno con salde radici in California, retaggi della beat generation e della psichedelia, coltivano l’ambizione di plasmare una umanità nuova, che avrà come punto di partenza il superamento della condizione umana forgiata da una vocazione che fonde spiritismo e postumano, Fulcanelli e Neurolink. “Il punto però è che l’ambizione di questo tecnognosticismo della Silicon Valley non è quella di liberare l’individuo dalla sporcizia imperfetta del mondo, ma semplicemente ingenerare una via di fuga in un sottomondo la cui imperfezione rimarrà del tutto palese ed evidente” trasformando la vita in “una mera simulazione, di una sostituzione”. Il mondo si trasforma in una piattaforma immersiva senza confini e senza legami, la rete diventa una cabala elettronica di collegamenti ipertestuali e iperstizionali, le fedi e i culti vengono sostituiti da religioni aziendali e dalla fidelizzazione ai brand, influencer come stregoni e demiurghi creano contenuti immateriali dal valore inenarrabile. Parafrasando quello che scrisse Frazer nel suo “Il ramo d’oro”: “Il selvaggio difficilmente concepisce la distinzione comunemente tracciata dai popoli civili tra il naturale e il soprannaturale/virtuale. Per lui, il mondo è in gran parte determinato da agenti soprannaturali/virtuali, ossia da esseri impersonali che agiscono per impulsi e motivi simili ai suoi, e passibili quanto lui di essere influenzati da appelli alla loro pietà, alle loro speranze, ai loro timori”. Ridotto a feticcio delle utopie transumane l’uomo si trasforma in un selvaggio contemporaneo rinchiuso in caverne di metallo urlante e vittima di spiriti informatici, addotto da sciamani transumani, inconsapevole ed anonimo spettatore di una preistoria ipertecnica. In questo scenario le satrapie digitali dell High tech, divise tra sogno collettivo transumano e deriva libertariana nichilista oscura, scelgono la strada del magico, del simbolico, di una lotta neostregonesca tra tra big state e big tech per ridefinire un mondo in cui l’umano non solo non è gradito ma soprattutto non è richiesto.
Ezio Mauro:”Bisogna servire la cronaca, non rimanere intrappolati in inutili dogmatismi”
Di Francesco Subiaco
Ezio Mauro, direttore di Repubblica per quasi vent’anni, saggista, giornalista è una delle penne più influenti del panorama italiano. La cui carriera costellata di successi e incontri autorevoli ne fa uno dei grandi nomi del nostro giornalismo. Piemontese, classe 1948, Ezio Mauro muove i primi passi ufficiali nel mondo del giornalismo sulla Gazzetta del popolo di Torino, durante la stagione del terrorismo, come uno dei più attenti cronisti degli anni di piombo. Inviato speciale per La Stampa e corrispondente da Mosca per Repubblica diventa in pochi anni la voce del disgelo, raccontando gli anni dello scioglimento dell’Unione sovietica ai tempi della Perestrojka mostrando le mille sfaccettature del crollo delle repubbliche sovietiche. Nel 1996 diventa direttore di Repubblica, subentrando a Scalfari, cercando non solo di continuare quel lavoro di sintesi tra sinistra e valori liberaldemocratici iniziata dal fondatore, ma anche di servire e fare proprio quella identità culturale che è l’anima del giornale. Ha intervistato Putin, Moro, La Malfa, i grandi della storia. Ora, dopo aver lasciato la direzione di Repubblica nel 2016, conduce una trasmissione su Rai 3, “La scelta” inaugurata con una straordinaria quanto discussa intervista a padre Gänswein che promette un interessante seguito. Voce pacata e passione per i viaggi, per Mauro il giornalismo è un mestiere fatto di particolari e di dettagli, che nella cronaca trova un momento essenziale della sua missione. Mostrandoci che in realtà il vero giornalista non è solo chi racconta i fatti, ma chi li rivela
-Per Tre anni lei ha raccontato la grande metamorfosi della Russia Sovietica durante la Perestrojka. A pochi mesi dalla morte di Mikail Gorbacëv cosa resta di questo protagonista di fine novecento?
L’ultima volta che lo vidi gli avevo raccontato che avevo passato una giornata intera con Navalmy; il leader dell’opposizione in Russia, l’uomo che è poi stato avvelenato e imprigionato dal regime di Putin. Mentre gli parlavo dell’incontro con Navalmy, mi guardò e mi disse “vedi che questi sono tutti dei nipotini della Perestrojka, anche se forse non lo sanno, perché il seme che abbiamo gettato allora da anche questi frutti”. Se dovessi formulare un giudizio su Gorbacev devo ammettere che fu sicuramente il leader del disgelo di un mondo pietrificato che sembrava immobile, uno dei personaggi chiave della storia russa, basti pensare che prima di lui c’era Cernenko (un leader che sembra venire da un altro secolo e da una altra storia), ma allo stesso tempo è anche una figura che nel suo paese non è ricordato con favore. Su di lui grava una opinione controversa perchè imprigionata nel paradosso che ha caratterizzato la sua intera azione politica.
–Ovvero?
Che per noi è stato il primo riformatore dell’URSS mentre per i russi è stato invece l’ultimo segretario del partito comunista sovietico.
–E cosa ha pensato quando Putin gli ha negato i funerali di stato? Non mi aspettavo che ci fossero funerali di stato, perché tra i due c’erano dei rapporti molto freddi e distaccati, se non di fatto inesistenti.
–Parliamo di lei. Come nasce la sua vocazione di giornalista? Ho sempre sperato di fare questo mestiere fin da ragazzo ed ho sempre cercato di partecipare a dei “giornali”, sia alle medie, sia durante la mia esperienza al collegio e nel mio paese d’origine. –Che insegnamento la ha formata di più nel suo approccio iniziale al giornalismo? Ricordo quando ero ancora un cronista della Gazzetta del popolo a Torino, uno dei più antichi giornali italiani, e al mio primo articolo mi mandarono a seguire il caso di una donna che era stata gettata nel Po e di scrivere una notizia su questo tema. Andai sul posto, cercai informazioni e poi iniziai, con molta difficoltà a scrivere il pezzo. Mi ricordo un collega passò vicino alla mia scrivania e leggendo le prime righe dell’articolo che avevo appena scritto a macchina mi si avvicinò e mi disse “Auguri”, lasciandomi senza capire se fosse un giudizio positivo o negativo… La sera tardi rimasi in redazione e quando arrivarono le copie del numero su cui c’era, o almeno ci doveva essere, il mio articolo, lo sfogliai immediatamente (era passata da poco la mezzanotte), e cercai alla sezione cronaca il mio articolo. Lo trovai e rimasi molto deluso, perché era stato totalmente riscritto e modificato. Del mio pezzo iniziale c’era poco e niente. Questo evento mi insegnò che avevo molto da imparare, perché potevo scrivere benissimo un reportage o una notizia politica, ma non sapevo ancora confrontarmi adeguatamente con la cronaca, men che meno scrivere una notizia di nera in poche righe, poiché esiste una tecnica, un tatto, una sensibilità per quelle cose che solo con molta esperienza si riesce ad acquisire. Un giornalista non deve mai smettere di mettersi in discussione di essere curioso e di voler conoscere a fondo la realtà che racconta. Un insegnamento che la mia esperienza alla Gazzetta mi ha lasciato molto –Le ha insegnato molto la cronaca? Moltissimo. Mi ha insegnato molte cose, il rispetto per le persone coinvolte, il tatto nel trattare questioni delicate, la capacità di sintesi, la curiosità per le cose di tutti i giorni. Perché, vede, tutti credono che fare cronaca sia solo raccontare i fatti, che la cronaca sia gregaria dei fatti, mentre essa, se fatta seriamente e con scrupolo, rivela la realtà delle cose e delle persone, poiché la realtà è molto più forte e più dura dei preconcetti e dei pregiudizi che si nascondono in ognuno di noi e solo immergendosi nel reale si scopre un mondo fatto di sfumature, di dettagli, una realtà fatta di contraddizioni. Una realtà complessa, ambigua a volte ingiusta, ma vera, oltre l’ideologia e le convinzioni di chi lo racconta. Un giornalista che non crede nei fatti e che ha uno schema ideologico che lo guida non si può far sedurre dalla cronaca e dalle rivelazioni che nasconde la realtà che racconta. Chi inventa non è capace di leggere la realtà, perché i fatti sono molto più forti di tutte le invenzioni di chi li vuole interpretare. Bisogna leggere la realtà, aprirla come un libro e comprendere quello che nasconde di più prezioso: i dettagli. –Per un giornalista i dettagli sono importanti? Sono fondamentali. Mi ricordo una frase che lessi una volta a casa di Nabokov, in un cassetto quando la andai a visitare in occasione di un mio lavoro sul centenario della rivoluzione russa :”soltanto i particolari e i particolari dei particolari, trasformano una storia inerte in qualcosa che merita di essere letta”.
–Anni fa lei intervistò insieme ad una delegazione di giornalisti occidentali Vladimir Putin. Che ricordo ha di quell’incontro e cosa pensa della metamorfosi di questo personaggio Dostoevskijano? È stato un incontro molto lungo e molto orientale. Putin si presentò con 4 ore di ritardo ad un appuntamento con una delegazione di otto direttori di giornali occidentali, tra cui il sottoscritto. Nella lunga attesa prima del suo arrivo riuscimmo a definire con gli altri direttori, all’epoca dirigevo Repubblica, i temi e le domande che volevano porre al presidente della Federazione Russa e convergemmo tutti su un tema principale da mettere per primo: i diritti umani e la questione delle minoranze. Scegliemmo quindi per prima cosa di chiedere a Putin se si volesse impegnare per escludere un atteggiamento duro e repressivo nei confronti dell’opposizione politica una volta concluse le elezioni (eravamo alla vigilia delle elezioni che poi lo avrebbero riconfermato leader del paese) evitando di usare il pugno di ferro contro le minoranze. Gli feci io questa domanda e lui allora mi disse che c’era spazio per tutti nella sua Russia e che non era necessario il pugno di ferro contro l’opposizione, cosa che di fatto smentì soprattutto nei confronti di Navalmy. La prima cosa che mi colpì di lui fu che mentre io gli porgevo la mia domanda sui diritti umani lui rimase in tensione sulla punta della sedia, mentre quando venne il turno del mio collega tedesco, che doveva porgli una domanda sui temi economici, si distese completamente, rilassato, sulla spalliera della sedia. La seconda cosa che mi colpì molto fu che mentre mi presentai prima dell’intervista, gli dissi chi ero e per quale testata scrivessi, mi disse “ho chiesto informazioni su di lei al mio amico Silvio”, sottolineando da una parte l’amicizia tra i due leader, dall’altro una profonda preparazione del leader del Cremlino che non perse nemmeno una occasione casuale per informarsi del suo interlocutore. Ricordo poi che mentre ci salutammo con gli altri colleghi della delegazione, eravamo in una abitazione che ci era stata descritta come residenza di Putin, gli dissi in russo “la prossima volta mi piacerebbe intervistarla al Cremlino” lui mi chiese perché ed io gli risposi che era poiché non avevo mai visto l’ufficio di un segretario generale di Mosca. Lui allora mi guardò e mi disse “perché non viene a vedere la mia partita di hockey che vado a fare con loro” indicando le sue guardie del corpo. In quel momento mi immaginai la copertina de Il venerdì di Repubblica con la foto in primo piano di Putin che gioca ad hockey ed il titolo lapidario:”La maschera di ferro”. Però poi gli dovetti rispondere che a causa di quelle quattro ore di ritardo dovevo correre a scrivere l’intervista per chiudere il numero. Mi sono perso una occasione cruciale per conoscerlo veramente ma dovevo scegliere o la partita o l’intervista e capirà ci sono delle scelte che un direttore a volte deve compiere. –Tra i protagonisti del giornalismo italiano, dalla Russia post sovietica al terrorismo passando per il berlusconismo, quali sono gli incontri che più la hanno formata ed i personaggi che più la hanno colpita? La stagione del terrorismo è stata importantissima per la mia formazione perché per me che all’epoca ero un ragazzo, la definisco come la guerra della mia generazione. Soprattutto perché la vissi in una città come Torino dove passava una frontiera tra il terrorismo e lo stato e poiché come disse una volta l’avvocato agnelli chi non è stato a Torino non può dire di conoscere è stato il terrorismo italiano. Ci si alzava la mattina e si sentiva la radio per capire dove colpivano e che attacchi facevano, ma ogni giorno colpivano, ogni giorno c’erano scontri, attacchi sparatorie, proprio come in una guerra. Ricordo che alla Gazzetta del popolo avevamo una radio che un collega geniale, aveva modificato per permetterci di ascoltare le frequenze delle forze dell’ordine e dei grandi giornali, in modo un po’ piratesco, per permetterci di essere sul posto ogni volta che i terroristi colpivano. Si ascoltava con attenzione le comunicazioni, i discorsi, per correre sul posto prima che i fatti diventassero delle notizie. Veniva messo ad origliare queste comunicazioni di solito il primo arrivato, tra cui anche per un periodo il sottoscritto, e ci accorgemmo che ogni volta che succedeva un attentato un crimine urgente, ma lo avrebbe capito chiunque, quelle frequenze impazzivano e si animavano rocambolescamente. Bisognava solo capire l’indirizzo, per arrivare per primi e cercare di capire cosa stesse accadendo. Di solito eravamo un giornalista e un fotografo o più giornalisti e quando succedeva un evento vicino alla Gazzetta arrivavamo prima delle forze dell’ordine. Mi ricordo di una segnalazione. Era l’ottobre del 1977, le Brigate Rosse avevano compiuto un attacco ad Antonio Cocozzello, consigliere comunale di Torino per la Democrazia Cristiana, che era stato gambizzato alla fermata del tram prima di andare a lavoro. In quel momento capii con i fatti che cos’era il terrorismo, guardando negli occhi la realtà della lotta armata. Pensavo al povero Antonio Cocozzello, mentre lo soccorrevano gli aprirono i pantaloni per cercare di curarlo e si vedeva che indossava un paio di mutande semplici, povere, da mercato. Quelle che poteva aver indossato mio nonno o un signore qualsiasi della campagna piemontese, e mi accorsi che quelle persone con quel delirio ideologico non c’entravano niente, che erano state colpite come maschere di un potere sovranazionale con cui non c’entravano niente, mentre invece erano solo delle persone comuni, ferite e colpite, ricoperte di sangue e lasciate in fin di vita perché erano diventati i bersagli di una lotta che non li riguardava e con cui non c’entravano nulla. –Quali sono stati i grandi incontri della sua carriera giornalistica? I leader politici, Berlinguer, Craxi, Andreotti, De Mita, La Malfa, Moro. Moro ad esempio mi metteva molta soggezione. Una volta mi trovavo di fronte al palazzo della Democrazia Cristiana, lo aspettavo per una circostanza che non ricordo a piazza del Gesù. Io mi ero intrufolato nel palazzo mentre lui entrava e non ricordo come riuscii ad. Entrare nell’ascensore con lui. Mi guardò con due occhi scocciati come a dirmi “non vorrai importunarmi con le tue domande”. Non gli feci nessuna domanda, ero molto in soggezione. Mi ricordo che mi guardò con quel suo sguardo, che mischiava timidezza e riserbo, ma che era capace di suscitare in me molta soggezione. Avevo aspettato almeno un’ora, ma non gli domandai nulla.
–Un momento in cui ha avuto paura e uno che ricorda con gioia? Non credo di aver avuto mai paura, nemmeno durante la stagione del terrorismo, forse per incoscienza più che per coraggio. Ad esempio una volta ero a Torino, durante la mia collaborazione con la Gazzetta del popolo, all’epoca finivano molto tardi e mi ricordo che mentre tornavo a casa avevo visto due ragazzi che amoreggiavano davanti casa mia. In quel momento un preoccupato decisi di rifare il giro, lo feci almeno sei, sette volte, forse anche di più, perché non mi sentivo tranquillo. Dopo poco tempo se ne andarono. Evidentemente erano solo dei ragazzi che cercavano di stare tranquilli per un po’. Però nemmeno in quel caso provai paura, anche se sicuramente c’era molta insicurezza a causa del clima di Torino in quegli anni. Solo chi ha vissuto a Torino quel periodo può capire veramente cosa è stato il terrorismo. Più che paura nella mia carriera ci sono stati dei momenti in cui ho temuto di non riuscire a leggere la lezione dei fatti in maniera corretta, di non avere una bussola per il giornale o di fare un errore. Sono momenti che capitano nella vita di un direttore di giornale, hai dei dubbi, non comprendi la realtà nitidamente, esiti perché vedi le cose in maniera poco chiara o non molto definita, hai paura di non comprendere la realtà, di fare degli errori. E allora aspetti, cerchi di capire ma non puoi aspettare, devi guidare un giornale, e hai l’obbligo di decifrare la realtà… delle persone dipendono da te, si fidano di te e tu gli devi una risposta devi sapere cosa è giusto fare, perché hai il compito di dare rotta e di tenere il timone del giornale. Questi dubbi sono tipici della solitudine di chi guida un grande giornale. In questi casi provai molta inquietudine, ma mi aiutarono molto due cose. Le lezioni dei fatti e l’identità del giornale. Sono queste le coordinate che mi hanno sempre aiutato cercare di essere lucido rispetto alla realtà e cercare di essere coerente con l’anima del giornale che dirigevo. In certi casi la realtà però è complessa e non si riesce a capire il vero volto delle cose, tutto sembra inafferrabile, queste sono le problematiche che affollano la solitudine di un direttore di giornale. –E cosa la aiutata a superare queste problematiche? L’aiuto dei colleghi, il confronto con gli altri, l’ascolto. Tenendo sempre presente la cultura del giornale, poiché è l’identità del giornale di cui fai parte, è una lente che ti aiuta a comprendere la realtà. Il buon giornale nasce dall’incontro dei fatti che urtano e irrompono nell’attualità e la cultura del giornale che determinano la scelta che compie chi dirige e chi scrive. –Ed il momento più bello? Penso ogni volta che ho sentito muoversi il giornale nel suo insieme, come una squadra o una forza intellettuale capace di comprendere e rivelare la realtà, quando tutte le voci le idee e le sensibilità delle persone che compongono un giornale si muovono in maniera univoca, come in una sinfonia. Se vuole un esempio definito invece le dico uno scherzo che mi fecero alcuni colleghi. Una volta andammo a cena con mia moglie e le segretarie di direzione. Finita la cena mi hanno detto di andarci a prendere un caffè all’interno del locale e mentre entrammo trovai una festa con tutti i colleghi di Repubblica. C’erano tutti i colleghi, Eugenio Scalfari, Carlo De Benedetti, mia figlia e anche alcuni colleghi che erano venuti a Roma appositamente per questa festa a sorpresa per me. Sono rimasto frastornato, ma anche molto felice. –
–Dalla segreteria blairiana del PD al governo draghi, che giudizio trae dal percorso politico di Matteo Renzi? Penso che se un leader politico ha l’onore di guidare la sinistra italiana contro la destra, di essere presidente del consiglio per quella forza politica, se messo in minoranza non debba uscire da quel campo politico formando una forza antagonista a quella che ha rappresentato in precedenza, ma deve continuare a testimoniare le sue posizioni politiche dentro quel partito. È un vincolo prima morale che politico. E questo è un discorso che vale sia per Renzi, che per D’Alema e per altri ancora. –Quali sono i Riferimenti culturali. Il Pantheon di Ezio Mauro ? Non lo so. Io non credo di avere un Pantheon che ha guidato la mia formazione, ma piuttosto di aver compiuto una ricerca, una continua ricerca che ha attraversato tutta la mia formazione e che continua tuttora. Un punto cardine sicuramente è stato Norberto Bobbio. Sa a noi piemontesi ci hanno sempre preso molto in giro per la faccenda del cosiddetto “azionismo torinese”, come se fosse un vizio o un difetto. In realtà l’azionismo fu un tentativo più culturale che politico di emancipare la sinistra italiana dai suoi ritardi, dai suoi errori, ed anche dagli orrori della sinistra nel mondo, coniugandoli con i valori liberali. Un tentativo fallito a livello politico, pensi ai risultati deludenti del Partito D’Azione, ma che ha lasciato una inesauribile testimonianza culturale di questo spirito di riforma e di che abbiamo cercato di portare a Repubblica con Eugenio. Lui veniva da una educazione liberale che ha conciliato con la sinistra mentre io da una formazione di sinistra che ho riletto alla luce dei valori del liberalismo. Un esperimento ed un tentativo culturale che abbiamo cercato di portare avanti e che non è ancora concluso perché credo che questo spirito sia l’unica strada per mettere la sinistra italiana al servizio del paese. Credo a livello letterario la letteratura russa e nello specifico Michail Bulgakov, soprattutto Il maestro e Margherita.
–Che ricordo ha di Scalfari e che cosa le manca di lui? Mi manca soprattutto il rapporto umano che avevo con lui. Lo dicevamo sempre, pur non avendo la stessa formazione politico culturale, ci siamo trovati nel giornalismo e nel rispetto del comune DNA di Repubblica. Lui perché lo ha inventato, io perché lo ho servito e lo ho rispettato, perché solo rispettandolo lo ho potuto vivere ed adattare tenendolo al passo con i tempi. Lui mi veniva sempre a trovare nel mio ufficio, fumava, anche se non si poteva, e parlavamo. Parlavamo di tutto, dell’attualità, del passato, della fondazione di Repubblica, oppure semplicemente cazzeggiavamo, poi Eugenio era un grande raccontatore ed era sempre bello sentirlo parlare soprattutto del passato e dell’identità di Repubblica. Mi interessava sempre sapere e capire meglio il rapporto con Carlo Caracciolo perché pure prima di arrivare a Repubblica mi interessava capirne l’identità profonda.
Guzzanti: “Né di destra, né di sinistra. Sono un liberale”
Di Francesco Subiaco
Irriverente, lucido ed istrionico, Paolo Guzzanti è una delle penne più affilate del giornalismo italiano, collaboratore de Il giornale e Il riformista, saggista, politico e autore di testi cruciali sulla politica italiana e i suoi protagonisti. Da Berlusconi a Evangelisti, da Cossiga a De Benedetti, Guzzanti ha raccontato le scene e i retroscena dei protagonisti della politica italiana, indagando l’attualità con articoli incisivi ed una longeva attività politica che lo ha portato ad affrontare le ombre che si nascondono dietro agli scandali della politica dei partiti, dietro le influenze sovietiche nel PCI. Da presidente della commissione Mitrokhin ha mostrato il lato oscuro e inconfessabile del comunismo italiano. Nel suo ultimo libro, “La Maldestra” ha raccontato i vizi e le virtù del centrodestra italiano mostrandone i difetti ancestrali e le possibilità future, mostrando una visione liberale integrale, antagonista ai totalitarismi e alle loro seduzioni ispirata a Winston Churchill, personaggio su cui sta scrivendo un nuovo testo per sottolineare l’essenza dei valori liberali che posizionano tale visione nell’ambito di uno scontro durissimo tra democrazie liberali e autocrazie nazicomuniste all’inizio della WW2 fino alla guerra in Ucraina. Per parlare del suo percorso giornalistico e del suo pensiero abbiamo deciso di intervistarlo nel suo studio, tra i quadri da lui dipinti e i ricordi della sua splendida carriera di giornalista.
–Aldo Cazzullo ha scritto che si sta prefigurando una cultura di destra libera e divina rappresentata da Paolo Guzzanti, Camillo Langone e Giampiero Mughini. Si ritrova in questa definizione? No, assolutamente no. Sono molto amico di Aldo Cazzullo, ma non mi trovo d’accordo con lui su questo tema perché io non sono di destra o di sinistra, io sono un liberale e credo che quando si è liberali veramente lo si è in toto. La distinzione tra destra e sinistra viene dopo le rivoluzioni gemelle fascista/nazista e bolscevica/comunista. Due ideologie la cui natura segna la totale opposizione tra le liberaldemocrazie e i crimini dei totalitarismi gemelli. Le stragi, le deportazioni, i campi di sterminio sono la cifra di cosa sono stati i totalitarismi nazifasciocomunisti, fratelli separati in mostruosità che metto sullo stesso piano come i veri nemici delle democrazie occidentali e quindi del liberalismo. Entrambe, infatti, sono ideologie mostruose, ma con una aggravante, nel caso del nazismo, che riguarda quell’abominio morale che fu la Shoah, che fu interrotto solo dalla sconfitta durante la seconda guerra mondiale sennò avrebbe raggiunto i numeri, ampiamente superiori rispetto al nazifascismo, del comunismo, che intendo nella sua forma più ampia (cubano, stalinista, iugoslavo, cinese), come una fede politica che ha insita nella sua conformazione una visione totalitaria e criminale, come del resto la sua rivoluzione gemella. Per questo i liberali non hanno nulla a che fare con i nazifascisti, di destra, né con i comunisti, di sinistra, ma sono liberali e basta. Churchill, conservatore, anticomunista e antifascista, era un vero liberaldemocratico perché durante la guerra osteggiò queste due pestilenze della storia in ogni modo. -Ma Churchill non era un conservatore oltre che un liberale e quindi un uomo di una altra “destra”? Se consideriamo di destra Churchill allora io posso definirmi “di destra” ma ciò esclude ogni attribuzione a questa definizione di quella robaccia postfascista. Per me quindi i liberali sono liberali e basta.
–Perchè definisce le rivoluzioni dei totalitarismi “gemelle”? Perché sono due facce dello stesso volto. Se cerchiamo nei libri di storia russa e sovietica, soprattutto, un evento come la seconda guerra mondiale non ne troveremmo traccia. Leggeremmo invece di un evento molto particolare: “La grande guerra patriottica”. Un momento del novecento in cui l’alleato dell’Urss, la Germania di Hitler, si è rivoltato contro il popolo russo tradendo il patto di alleanza che avevano firmato negli anni 40. Un tradimento che portò Stalin ad abbandonare l’alleanza militare ed ideologica con Hitler per scegliere un accordo militare e strategico con le democrazie occidentali. Fino a quel momento tutti i comunisti del mondo, su indicazione del Cremlino e di Stalin tramite i suoi comunicati sulla Pravda, hanno tifato per Hitler affinché vincesse la guerra minando l’integrità “dell’imperialismo angloamericano e portando alla sconfitte le borghesie plutocratiche occidentali”. Solo i socialisti si opposero a questa alleanza ideologico-militare e per questo furono attaccati ed etichettati come socialfascisti. Tutte le forze di sinistra dopo l’aggressione nazista cambiarono radicalmente la loro posizione, passando da un pacifismo filonazista ed antioccidentale, ad un forte interventismo, ma quella mutazione a mio avviso fu solamente strategica e non ideologica, tanto che chiusa la seconda guerra mondiale l’opposizione al liberalismo e alle democrazie continuò durante la Guerra Fredda manifestando quanto entrambi questi mondi fossero equivalenti nella loro avversione agli ideali liberali. La cosiddetta guerra fredda fu nient’altro che la continuazione della seconda guerra mondiale contro l’Occidente con altri mezzi. Una minaccia equivalente a quella nazista come sostengo in un libro che sto scrivendo sul tema. I sovietici non a caso hanno sempre alimentato il mondo dei naziskin e dell’eversione nera contro l’occidente. –E i liberali? Sono un mondo opposto a queste ideologie. Noi liberali siamo i nemici di costoro, e lo siamo perché loro stessi ci hanno dichiarato più volte una guerra senza quartiere. Ma il liberalismo non è solo il voto, tutti i maggiori paesi possono votare. Votano in Cina, in India, in Russia, in Pakistan e non c’è nulla di più comune di una democrazia autoritaria che conferma un governo antidemocratico. Cosa avrebbero fatto gli italiani nel 1936 se avessero potuto votare, probabilmente avrebbero confermato il regime fascista, perché non è solo il voto che definisce le liberaldemocrazie, ma sono la libertà e la concorrenza. La possibilità pluralista di fare scelte differenti, di avere visioni anche contrapposte, che sono la conseguenza della concorrenza e della libertà di scambio senza cui non ci può essere una vera libertà. Una concezione che purtroppo capii nella mia vita un po’ troppo tardi.
–Lei quando divenne un liberale? Gradualmente. Io venivo dal Partito Socialista e quando il PSI si sciolse c’erano due opzioni o andare con i postcomunisti o partecipare a quella ventata di grande rinnovamento portata da Berlusconi con Forza Italia, a cui aderirono Lucio Colletti, Giuliano Ferrara e Marcello Pera ad esempio. In quello scenario si sentiva una forte esigenza per il paese di portare liberalità alla società italiana e aprirla ad una nuova visione del mondo, questa condizione non poteva appartenere ai postcomunisti che in tutto il loro passato non erano stati in grado, pur volendo, di dire di no all’Unione sovietica in nessun momento della loro storia e anche dopo la caduta del Muro hanno deciso di opporsi a questa idea di liberalizzazione della società.
–E che ne pensa di quel mito del Pci, come di un partito libero e pulito, contro la corruzione e i suggerimenti atlantici, descritta dal clero post comunista? Nulla di più falso. Prima di tutto il PCI ha sempre votato e deciso seguendo le indicazioni del Komintern e di Mosca, pur non volendo in alcuni momenti. In secondo luogo tornando alla questione morale dei comunisti c’è da dire che in Italia solo un partito era autorizzato ad avere un ingente e irregolare finanziamento illecito, ovvero il Partito comunista. Il PCI si riforniva irregolarmente e illecitamente ogni anno di sontuosi e abbondanti finanziamenti, come disse e spiegò più volte l’ex presidente della Repubblica Cossiga. La procedura era la seguente: un alto funzionario comunista partiva da Roma con una valigetta vuota verso Mosca; arrivato a Mosca si incontrava col signor Ponomarëv con cui conversava amabilmente di fronte ad una tazza di tè caldo, mentre alcuni funzionari del PCUS riempivano di dollari la suddetta valigetta; tornato a Roma due agenti del tesoro americano controllavano che i dollari portati da Mosca fossero validi e veri, per evitare l’immissione di dollari falsi e contraffatti nel mercato, e verificata la qualità del denaro riprendevano l’ultimo aereo per tornare negli States; a quel punto due alti notabili dello stato, tra cui una volta lo stesso Cossiga, accompagnavano l’emissario del Pci in Vaticano, dallo Ior, per farsi cambiare il denaro importato in valuta nazionale. Tutti gli altri partiti lo sapevano e per tale motivazione anche loro si rifornivano in maniera illecita. Tangentopoli poteva essere scoperta già a fine anni settanta ed anzi io, per caso, riuscii a mostrare il mondo che sarebbe salito alla ribalta con Mani Pulite già nel 1979, proprio con una notizia che raccontava l’ambiente del potere della Prima Repubblica in relazione con i finanziamenti illeciti.
–Allude al caso Evangelisti che raccontò ai tempi di Repubblica e che portò anche in teatro? Esattamente –Ci può raccontare come è andata? Andai ad intervistare l’allora Ministro della Marina Mercantile Franco Evangelisti, perché Eugenio Scalfari voleva avere una risposta o una smentita, se vogliamo, di un accusa, mossagli da L’Espresso, nel suo coinvolgimento in attività illecite riguardanti la marina mercantile. Era il 1979 ci incontrammo al ministero e nonostante fosse la prima volta che ci incontrassimo lui mi accolse calorosamente con il suo accento marcato romanesco e mi disse “A Pa’ viè qua” io allora mi avvicinai con il taccuino in mano per segnare la sua dichiarazione al che lui mi guardò e mi disse “ma che fai lascia perde leva sto coso, prima te devo da Er background per farti capire de che stamo a parla” ed inizia a raccontarmi come funzionava la politica dei partiti. “A Pa’ qui avemo rubato tutti” e descrisse quello che era il mondo del finanziamento del sistema dei partiti, il famoso “a Fra che te serve?”. Lì mi sembrò di sognare, il braccio destro di Andreotti, ministro dii un governo, mi stava raccontando il dietro le quinte del potere democristiano, le chiamate, i contatti, le relazioni. In quel discorso era tutto nero su bianco. Finito di parlarmi informalmente mi disse “mo puoi tirare fuori quel coso” e mi iniziò a dare istruzioni su cosa dire, che domande fargli e che risposte scrivere. Io tornato in redazione però non scrissi nulla di questo, ma trascrissi il reale contenuto dell’intervista. La feci pubblicare in fretta senza farlo passare per troppe mani. Il giorno dopo scoppiò il pandemonio, con dodici anni di anticipo avevo raccontato il volto segreto della politica dei partiti che solo DOPO Di Pietro e il pool di Milano mostrarono, e lo sa cosa successe? –Cosa? Niente. Nonostante il ministro fu costretto a dimettersi per le verità che aveva rivelato, ovvero che sia all’opposizione che al governo tutti i partiti si nutrivano di aiuti esterni, di ambiguità col mondo imprenditoriale e con altre nazioni, l’opinione pubblica non si indignò per la fonte illecita dei finanziamenti ai partiti, ma per il modo in cui tali fatti venivano raccontati. Fu più l’arroganza e la spavalderia romanesca di Evangelisti che la verità che raccontava a costringerlo a dimettersi ed ad avviare il suo declino politico. Per l’opinione pubblica era normale ricorrere ad aiuti “esterni” per fare politica, “la politica ha i suoi costi” dicevano, la cosa che li scandalizzava era che un ministro della Repubblica parlasse in quel modo, si comportasse così di fronte ad un giornalista, del resto non importava niente a nessuno, un po’ di clamore e poi si tornò per altri dodici anni alla normalità. Quell’evento mi colpì molto dopo averci riflettuto successivamente poiché mi rese chiaro la natura di Tangentopoli. –Ovvero? Che Tangentopoli fu una grande operazione di sostituzione della vecchia classe dirigente della prima Repubblica, che aveva esaurito il suo compito con la fine della guerra fredda, con quei bravi ragazzi del polo post comunista, molto più affidabili dei vecchi democristiani e dei vecchi socialisti, inaffidabili e ambigui. Poi arrivò Berlusconi e con un tentativo unico di rivoluzione liberale, con un partito nato in pochi mesi, scompigliò le carte del mazzo cambiando la rotta del nostro paese.
Che giudizio trae di Silvio Berlusconi? Lui è stato un eroe. Uno degli uomini più ricchi del mondo che al posto di crogiolarsi nel proprio successo ha deciso di dedicarsi alla politica e di iniziare un percorso di profonde riforme e innovazioni del paese che lo hanno portato a sfidare la macchina da guerra del centrosinistra, e ad impedire, da solo contro tutti, di trasformare il PCI, forte del suo sostegno statunitense, nel partito egemone dell’establishment italiano. Una impresa eroica che gli è costata processi, attacchi, campagne d’odio ed attentati per cercare di avverare una rivoluzione liberale. Ha cambiato il corso della storia ed ha impedito ad una banda di clericali e dogmatici, figli della peggiore sinistra e della peggiore DC, di dare il colpo di grazia a questo paese. Umanamente è una persona deliziosa, politicamente ha fatto degli errori e delle cose giustissime, ma non voglio parlare dei suoi errori perché ne parlano tutti, anche con estrema precisione ed in maniera esigente, abitudine che purtroppo non vale per altri personaggi con minor meriti e maggiori errori.
–Per lei cosa vuol dire quindi essere veramente liberale? Vuol dire garantire la libertà di scambio, di merci, di idee, di informazione. Non è solo il voto o la possibilità di essere ricchi, quanti oligarchi russi, mandarini del partito comunista cinese e gerarchi fascisti erano ricchissimi e pieni di soldi?, ma la possibilità di essere liberi di garantire la libertà di scambio, di poter fare affari con chi si vuole e quindi in sostanza di non avere la libertà come un privilegio concesso dall’alto per pochi. Per questo i liberali sono inconciliabili con la visione nazifasciocomunista.
–Ricorda quando si avvicinò nettamente al pensiero liberale? Probabilmente con Cossiga che ha risvegliato in me una visione liberale e durante il mio soggiorno nei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Un giorno, quando era presidente della Repubblica, Cossiga mi chiamò la mattina presto a casa, tanto che mio figlio ancora bambino si impressionò e mi chiese cosa avessi fatto a Bush (per lui il presidente era infatti quello americano) per meritarmi una sua chiamata. Mi chiamò e mi disse “Lei cosa sa sui Cattolici liberali in Italia?” ed io non ne sapevo nulla e così mi invitò ad un convegno in cui si parlava di Cavour e dei liberali italiani, quello fu un primo approccio al liberalismo che ritengo fondamentale. Anche se devo dire che non apprezzo molto Benedetto Croce per la sua umiliazione della scienza e della psicanalisi. Poi in generale sono molto critico verso la scuola hegeliana, perché penso che i problemi del pensiero novecentesco nascano tutti da Hegel e dalla sinistra e dalla destra hegeliana, pensiamo a Marx, al fascismo, al nazismo.
Chi sono stati i suoi maestri e riferimenti? Sono stati i protagonisti della storia che hanno sfidato la guerra per difendere la libertà, come Winston Churchill. Perché chi è liberale è una persona intransigente nel difendere libertà anche a costo della guerra. Sicuramente sono stati i miei maestri gli autori del pensiero liberale. I grandi incontri della mia vita, Cossiga, ma anche Scalfari.
–Che ricordo ha di Cossiga? Io all’epoca ero un giornalista de La stampa e in quel periodo tutti erano incuriositi di questo presidente che tutti definivano pazzo e allora Ezio Mauro mi disse di andare a Gela per un evento in cui presenziava Cossiga. Io allora andai a Gela e il giorno dell’evento ero insieme ad una schiera di giornalisti di varie testate ed aspettavamo l’arrivo del presidente della Repubblica. Ad un certo punto arriva Cossiga, che io non conoscevo, ma che aveva potuto vedermi in una puntata di una trasmissione, chiamata Harem, in cui parlavo di mia figlia Sabina, all’epoca non ancora famosa, che faceva l’accademia di arte drammatica. Cossiga mi vede e si stacca dalla delegazione presidenziale e si dirige verso la flotta di giornalisti e si avvicina a me. Io allora incredulo mi guardo intorno e cerco di capire verso chi si stia dirigendo, fino a quando lui si dirige verso di me, mi prende sotto braccio estraendomi dalla schiera, strappandomi la giacca tra l’altro, verso il palco mentre mi dice col suo inconfondibile accento: “Non sapevo sua figlia facesse l’attrice” e mi trascinò sul palco dove eravamo io, lui e il sindaco di Gela. Lì fece un discorso contro Giorgio Bocca, in difesa dell’arma dei carabinieri, erano i tempi dell’uno bianca. Allora raccontai quello che aveva detto, che impressione mi fece, ma non scrissi quello che era comune nell’opinione pubblica, ovvero non dissi che era pazzo come tutti dicevano allora, rompendo un patto sacrale che si era creato nel panorama giornalistico italiano, attirandomi le ire e l’odio dei decani dei massimi giornali, primo fra tutti Repubblica. Cossiga saputo dell’accaduto mi invitò ad un usanza che non conoscevo, la colazione al Quirinale alle 7. Li arrivai e trovai Cossiga circondato da tutti giornalisti di sinistra, del Manifesto e dell’Unità soprattutto, con cornetto e cappuccino.
–Perché di sinistra proprio? Perché gli piaceva, perché vedeva i comunisti come una banda di galantuomini con cui si era costretti ad essere avversari ma che trattava col massimo rispetto. Non a caso, da cugino di Berlinguer, diceva sempre “con i comunisti si mangiava l’agnello la domenica di Pasqua”.
–E invece del suo periodo a Repubblica? Ma è vero che licenziava i colleghi con la voce di Scalfari? Non proprio. Più che altro facevo una ottima imitazione della voce di Scalfari e con altri colleghi ci divertivamo a fare degli scherzi in redazione. Ad esempio chiamavo con l’interfono Barbara Spinelli con la voce di Scalfari e gli dicevo “Barbara puoi venire un attimo in ufficio?”. Lei andava in ufficio da Scalfari e gli chiedeva “Dimmi Eugenio” lui la guardava e gli diceva “guarda non mi sembra di averti chiamato”. Allora aspettavo che ritornasse in ufficio e poi la richiamavo “Barbara scusami mi sono ricordato che ti volevo dire”. E reiteravo questo scherzo. il licenziamento era invece una cosa che feci solo una volta ad un collega con cui non avevo splendidi rapporti. Lo chiamai, lui era un livornese, e con la voce di Scalfari gli dissi “Il giornale come vedi non va bene, stiamo perdendo copie e le notizie non sono più brillanti come un tempo, queste sono cose di cui sei tu responsabile”, lui allora prova a giustificarsi e a dirmi “Che devo fare, come posso cambiare?” Ed io inesorabile gli risposi “Ma che puoi fare, non puoi fare niente, è un processo irreversibile. Se vai al sesto piano trovi l’ingegner Piana con pronta la tua liquidazione”. Invece se devo pensare ad un giudizio su quel periodo devo ammettere che Repubblica in una prima fase era la speranza di una certa sinistra liberalsocialista, radicalsocialista, comunista dissidente, azionista, che poi naufragò con l’avvicinamento al PCI e con la fusione con Paese sera anche se fu un periodo per me altamente formativo e pieno di nuove e fondamentali esperienze.
I personaggi cardine della tua vita? Scalfari sicuramente poichè mi permise di viaggiare in giro per il Medio Oriente e nei paesi post comunisti poco dopo la fine del patto di Varsavia oppure affidandomi servizi letterari come quelli sul carteggio dei Fratelli Verri, e con queste letture e questi viaggi mi hanno permesso di avere una università di fatti e di esperienze che mi hanno permesso di conoscere il mondo oltre le lenti dell’ideologia. Mio padre che era un razionalista e un liberale e mi ha formato moltissimo e sicuramente Francesco Cossiga.
Antonelli:”Con Fontana per difendere i valori europei e liberaldemocratici della Lombardia”
Il 12 e il 13 Febbraio si svolgeranno le elezioni regionali in Lombardia per l’elezione del presidente di Regione e del Consiglio Regionale, una competizione elettorale che vede sfidarsi tra loro Attilio Fontana, già ex presidente della Regione, Letizia Moratti e Pierfrancesco Majorino. A sostegno della candidatura di Fontana i repubblicani lombardi hanno candidato Valerio Massimo Antonelli, segretario regionale della FGR e membro della segreteria nazionale del Pri. Antonelli, a 19 anni, è il candidato più giovane di tutta la competizione elettorale e con la sua candidatura vuole portare avanti una voce laica, repubblicana, europea e mazziniana all’interno della lista a sostegno dell’ex governatore.
–Perché ha scelto di candidarsi per le elezioni regionali in Lombardia e quali sono le principali iniziative che propone con la sua candidatura?
Ho scelto di candidarmi, come ho scritto nel mio messaggio elettorale, perché credo nella forza della politica, che è la forza del fare. Gran parte delle cose che oggi diamo per scontate si devono non alla provvidenza, ma a uomini che si sono rimboccati le maniche e hanno afferrato le grandi opportunità per la coda. Avendo 19 anni, credo di poter rappresentare bene il mondo studentesco. La sola città metropolitana di Milano dispone di sette università e più di 2000 scuole di ogni ordine e grado. È un mondo, di residenti come di fuorisede, che esige una solida rappresentanza nelle istituzioni, perché saremo noi in primis a pagare le conseguenze delle scelte di oggi.
–Quali saranno le iniziative che proporrete per rispondere alle esigenze del mondo giovanile?
È necessario un coordinamento sempre maggiore tra istituzioni regionali e scuola. Non di invasione dei reciproci campi, ma di reciproca collaborazione. Per questo sarebbe ottima cosa continuare a organizzare incontri come quelli promossi dal Consiglio Regionale della Lombardia l’inverno scorso, dal titolo “I giovani incontrano le istituzioni”, in giro per i licei, ma penso anche per le università. Credo che iniziative del genere, facendo educazione civica, sarebbero un primo rimedio contro il forte sentimento di antipolitica che tra i giovani purtroppo spopola. Un coordinamento più capillare con l’apparato scolastico e le consulte studentesche provinciali, andrebbe poi a beneficio soprattutto della Regione e degli enti che sono chiamati a decidere sul futuro dei giovani.
–Quanto sono attuali i valori repubblicani e mazziniani in questo scenario?
Tantissimo. Non solo in questo scenario. Da Mazzini e Cattaneo i Repubblicani vogliono solo un’Italia moderna. Che sia più giusta, ma anche più ricca e più libera. Sono orgoglioso di candidarmi nella circoscrizione di Milano perché qui è dove Giovanni Spadolini venne eletto consigliere comunale, con quasi 40 mila preferenze. Il quale non a caso, all’apice della sua carriera politica, amava definirsi “Senatore a vita di Milano”. Perché Milano è una città europea, civile, competitiva, moderna, dove il lavoro, e solo il lavoro, come pensava Mazzini, ha realizzato il futuro che oggi viviamo.
-Perché come Repubblicani avete scelto di proseguire il sostegno alla candidatura di Fontana?
Ha spiegato bene le ragioni l’amico Franco De Angelis. La candidatura Moratti è priva di un reale intento di governo, e il terzo polo che la appoggia altrettanto. Inoltre, dalle elezioni comunali di Roma sono molti gli episodi che hanno fatto pensare al Partito Repubblicano non solo lombardo che possano esistere alleati ben più validi. Quanto a Majorino, per sua stessa ammissione i valori liberali non lo riguardano. Fontana, invece, si è rivelato, al netto di una campagna mediatica segnata da una opposizione molto marcata, un amministratore equilibrato, moderato, che in certe zone della Lombardia, vedi Varese, ha fatto cose che non si era mai riuscito a fare da quando le regioni esistono.
-Quali saranno le priorità dei candidati repubblicani in questa competizione elettorale?
Porre l’attenzione sullo sviluppo economico di Milano, e della Lombardia, perché essenziale per la vita della regione; aumentare ancora di più l’attrattività verso i mercati, come ha fatto benissimo Fontana in questi 5 anni; guardare alla scuola (soprattutto a quella pubblica, perché la formazione dell’uomo libero non può essere lasciata alle paritarie) non come un bene secondario ma come la fonte di tutto il resto.
Mishima, storia di uno scrittore trafitto da una rosa
Di Francesco Subiaco
«Conosci il poeta che venne assassinato da una rosa?»
Yukio Mishima, non è solo il grigio dell’acciaio delle katane dei samurai, il rosso del sangue versato durante il seppuku quel lontano 25 novembre del 1970, o il candido dei crisantemi diafani dell’imperatore e del Giappone dei kami. È anche il giallo aureo del Padiglione d’oro, il nero delle uniformi conformi e tradizionali degli studenti Giapponesi, dietro cui si nascondeva il protagonista delicato e imperdonabile delle Confessioni di una maschera, il viola dei kimoni del teatro Nō e soprattutto è il cremisi fatale e sensuale della rosa e della maledizione che lo lega a questo autore straordinario e dannato delle lettere nipponiche. Tinte che mostrano come Mishima sia un autore ricco di imperdonabili e inconfessabili sfaccettature, che va letto e conosciuto alla luce di tutti i suoi colori proibiti. Yukio Mishima, infatti, vive nella sua figura l’equivoco di essere non solo un grande autore, ma soprattutto di essere un simbolo e una leggenda per gran parte della cultura controcorrente, definizione limitante per un autore di questo spessore. Mishima, infatti, non fu soltanto l’icona mitica e sacrale di una “destra divina” e ribelle, che trovava nel suo seppuku, compiuto il 25 novembre del 1970, il sacrificio di un Che Guevara conservatore e identitario oppure nella sua nostalgica battaglia per un mondo antico e panico la protesta antimoderna di un Pasolini patriottico e guerriero, ma fu anche tanto altro. Fu l’ultimo testimone di una kulturkamph tra identità nipponica e mondo moderno, tra le tentazioni della civiltà di massa e le estasi delle ierofanie dei kami, l’esteta armato che di fronte ad un plotone di soldati e di curiosi il 25 novembre offrì la propria vita in nome di una resurrezione spirituale e morale dell’uomo di fronte alla decadenza del Giappone contemporaneo, pregno di nostalgia degli dei e coraggio titanista. Un arcangelo guerriero del numinoso e dell’identità sciamanica e rituale di un sogno perduto e lontano che riflette l’idea per cui “se Dio non esistesse più bisognerebbe farlo rinascere”. Nella produzione di Yukio Mishima però non esistono solo “Sole e acciaio” e “Lezioni spirituali per giovani samurai”, ma c’è molto di più, c’è l’esteta decadente sacerdote della bellezza e martire dell’assoluto, c’è il cantore della desolazione spirituale del mondo che nel Mare della fertilità rese eterni i temi di sconforto e disperazione presenti nella sua sensibilità, c’è soprattutto l’autore puro e incorruttibile trafitto da una rosa che conservava fiori imperituri contro l’inverno dell’oblio e della perdita. C’è il protagonista controverso e innominabile delle lettere nipponiche che con il suo sacrificio volle mettere una firma, un finale su un’opera d’arte complessa e celestiale fatta di romanzi unici come la tetralogia de “Il mare della fertilità” e le “Confessioni di una maschera”. Per scoprire tutte queste sfumature di Yukio Mishima è fondamentale leggere e rileggere “Trafitto da una rosa” di Atsushi Tanigawa, editi dalla Gog edizioni di Lorenzo Vitelli. Tanigawa estetologo ed acuto conoscitore di Mishima traccia una cartografia dell’autore dei Colori Proibiti innescandosi proprio dal ricordo personale di quel 25 novembre del 1970, il giorno del seppuku, il suicidio rituale dei samurai, quello in cui Mishima si trafigge il ventre, come ultimo, estremo gesto. Da quel ricordo fatale nasce l’immersione totale di Tanigawa nell’opera di Mishima approfondendone le opere e i temi principali: la musica, la flora, il culto del corpo, le contaminazioni elleniche, quelle poetiche, da Rilke a Valéry, l’influenza dannunziana, la cultura liberty e l’identità profonda, tra D’Annunzio e Kawabata. Un viaggio in un mondo fatto di bellezza e morte, di sublime e vitalismo, in cui il lettore troverà un autore straordinario capace di sprofondare negli abissi dell’interiorità e di risorgere nella maestosità di un capolavoro nel richiamo dei passati perduti. Un viaggio tra delicatezza e sensualità, estetismo e ribellione, in cui la rosa, come una maledizione letteraria, incontra il destino di Mishima e dei personaggi, diventando la metafora del rapporto tra l’artista e l’assoluto, l’uomo e la bellezza, il corpo e lo spirito. Come il Rilke di un suo racconto, che si avvicina ad una rosa spinosa, seppur malato e vulnerabile, e ne viene trafitto mortalmente anche Mishima è trafitto dalla bellezza, dal numinoso, dalla potenza, che lo colpiscono, dissanguano e prosciugano fino a trasformare la sua vita in un esile vetro e la sua opera in un miracolo fragile e straordinario. Scoprire quindi l’opera di Tanigawa è scoprire e vivere il rapporto conflittuale e fatale con quella rosa ricca di echi e di misteri. È rivelare che l’opera di Mishima non è solo quella di un santino di una parte, ma il travaglio spirituale di una delle anime più profonde e malinconiche del novecento. Un autore che scrisse romanzi in cui i temi dell’omosessualità, del mito, del rapporto controverso con l’identità, con la cultura toccano, diventano scenari per mostrare con lucida disperazione i luoghi oscuri dell’animo umano, il vento divino e travolgente del sacro che attraversa le vite dei protagonisti rompendone tutte le certezze e conferme poiché “Le emozioni non hanno simpatia per l’ordine fisso”. La delicatezza piena di tatto e profondità che permeerà le atmosfere del capolavori di Nagisa Oshima, “Merry Christmas mr. Lawrence”, ricco di echi mishimiani (la colonna sonora di Ryuichi Sakamoto infatti si chiamerà Forbidden colours). Rileggere oggi il proclama conclusivo dell’esistenza di Yukio Mishima, con la consapevolezza che ci viene dalla lettura di “Trafitto da una rosa”, ci porta a guardarlo come l’ultima speranza, il finale inaspettato che si cela nel Mare della fertilità, un’ultima ribellione romantica dopo l’ammissione finale della Decomposizione dell’angelo (ultimo tomo del Mare della fertilità):”Sono venuto” pensò Honda “nel luogo del nulla, dove ogni ricordo è cancellato”. Un finale che Mishima col suo gesto voleva riscattare far risorgere con un gesto romantico e rituale poiché “la vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”.
L’Italia vista da un liberale. Intervista a Angelo Panebianco
Di Francesco Subiaco
È una controstoria dell’Italia vista da una prospettiva laica e radicale quella scritta dal professor Angelo Panebianco e da Massimo Teodori, che nel loro ultimo saggio, “La parabola della Repubblica. Ascesa e declino dell’Italia liberale”(Solferino). In questo testo Panebianco e Teodori raccontano controcorrente la storia del nostro paese vista dal un punto di vista repubblicano, libertario, liberale e radicale, oltre i pregiudizi e le calunnie di cui è vittima questa tradizione di minoranza. Una storia che parte dai delitti eccellenti del fascismo, da Gobetti e Amendola, fino alla ricostruzione, che passa per Einaudi, Pacciardi e Parri fino a Spadolini, Pannella e Malagodi, raccontando una altra Italia, Risorgimentale e eterodossa, liberale e libertina, che agognava la modernità e anelava una società libera dai dogmatismi delle due grandi chiese dell’Italia repubblicana, quella comunista e quella clericale. Una storia fatta di protagonisti che hanno segnato per sempre la storia nazionale nonostante il peso minoritario della loro tradizione, dalle prediche inutili di Einaudi alla Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, fino alla contemporaneità, mostrando come costante la volontà di costruire un’Italia diversa, fondata sull’individuo e sulle sfide della modernità. Tramite le pagine di Panebianco si scoprono le dinamiche di una Italia che esita e traspare oltre le risse del cattocomunismo e che sogna un avvenire diverso ispirato ai principi della democrazia liberale, fatta di grandi occasioni perse e straordinari esempi di uomini che hanno fondato e cambiato per sempre le nostre istituzioni. Per parlare di questa controstoria italiana abbiamo intervistato il Professor Panebianco tra gli editorialisti più acuti e pungenti del Corriere della sera che attraverso il suo lavoro accademico ha diffuso e analizzato i grandi temi del pensiero liberale.
–La cultura laica e liberale in Italia nonostante l’influenza e i successi ottenuti è un progetto minoritario e ancora incompiuto da cui si potrebbe trarre molto? È stata soprattutto una tradizione di minoranza che ha contato di più nella storia del nostro paese di quanto fosse la sua consistenza elettorale reale. Ciò è dovuto a varie ragioni, soprattutto internazionali, poiché dopo l’ottocento la cultura liberale diventò una cultura politica minoritaria e divissima nel paese, che nonostante queste problematiche svolse un peso culturale nella storia italiana, dall’unità d’Italia al presente, fondamentale.
–Che giudizio trae della figura sciamanica e libertariana di Marco Pannella? Il suo Partito Radicale nonostante le numerosi battaglie modernizzatrici ha rappresentato una rivoluzione incompiuta per il liberalismo? Quella di Marco Pannella fu certamente una rivoluzione incompiuta, causata da due fattori che spiego ampiamente nel libro. Il primo fattore è dato dalle circostanze, poiché Pannella attraverso il Partito Radicale voleva “conquistare” il Partito Socialista per trasformarlo in un “Partito liberale di massa” a cui avrebbe attribuito una tendenza profondamente radicale che avrebbe sconvolto i quadri politici del paese. Un tentativo che purtroppo nel 1979 non gli riuscì, soprattutto perché in quegli anni si insediò nel Psi la leadership di Bettino Craxi che ne sconvolse il destino. L’altro fattore è dato dai limiti caratteriali di Pannella, che non è mai riuscito ad essere un aggregatore ed un mediatore e per questo è stato incapace di conciliare e mediare posizioni diverse che gli avrebbero permesso di realizzare il suo progetto. La sua era una operazione molto a la Mitterand che non poteva essere svolta da una personalità come Pannella, che aveva certamente portato delle notevoli innovazioni modernizzatrici nella politica italiana col suo Partito Radicale, ma che allo stesso tempo non riuscì a compiere un salto di qualità capace di compiere il suo progetto e soprattutto di realizzare una rivoluzione liberale nel paese.
-Durante la stagione del centrismo degasperiano che ruolo hanno giocato figure come Pacciardi, Einaudi, Croce, La Malfa, nonostante il peso elettorale minoritario, nella ricostruzione del paese? Basta solo ricordare i nomi di questi statisti per vedere quanto le personalità abbiano un peso enorme in politica. Infatti nonostante essi appartengano a culture politiche con un peso elettorale minoritario, sono riusciti a rappresentare questa tradizione attraverso ruoli decisivi nella storia del nostro paese che superano la consistenza elettorale del Pri, del Pli e del Partito d’azione, riuscendo a essere alternativi tra un mondo massimalista e comunista da una parte e una tradizione cattolica democristiana dall’altra. Una componente minoritaria che permane nella storia politica italiana insieme alla spaccatura tra tradizione massimalista e gradualista all’interno della sinistra politica.
–Il mito patriottico costituzionale ha impedito una modernizzazione del paese, chiudendo aprioristicamente a qualsiasi revisione? Secondo me si, poiché la costituzione, figlia di un determinato momento storico, garantisce certamente ampi e diffusi poteri di veto rispetto gli esecutivi che non aiutano i governi durante la loro azione, ma rendono più complessa la gestione dei governanti. Queste criticità sono emerse sempre di più durante la fine della prima Repubblica, ai tempi della prima commissione bicamerale, presieduta dall’on. Bozzi, ma non vennero affrontate dalla classe politica, dimostrando che la proposta della modifica della costituzione resta ancora oggi un tabù che non abbiamo minimamente superato. Nel nostro paese per ragioni culturali da una parte, per interessi personali dall’altra, permane la volontà di non permettere all’esecutivo di avere gli stessi poteri che hanno, per esempio, i primi ministri in Gran Bretagna ed in altri paesi occidentali.
–Oggi molti cronisti parlano di restaurazione liberale, che ne pensa? Io quando sento parlare di Restaurazione Liberale non riesco a rimanere serio, sono solo parole in libertà. Non vedo restaurazione di nessun tipo.
–Da tangentopoli ai 5 stelle lo spirito giustizialista non solo non si è mai sopito ma sta facendo nuovi anticorpi contro i tentativi di riforma garantisti, come quelli della Cartabia? Certamente ci sono forti interessi che vogliono impedire una riforma dell’ordinamento giudiziario e che non si sono mai sopiti. Il problema è che con la fine del vecchio sistema dei partiti si è creato un vuoto di potere in Italia che è stato riempito non dalla politica ma da altri, ovvero dalla burocrazia e dal potere giudiziario.
–Berlusconi, padre della rivoluzione liberale nostrana a distanza di anni è stato più un Crono o uno Zeus nella storia del nostro paese? Certamente c’erano in Berlusconi, o almeno nel primo ingresso di Berlusconi in politica, elementi liberali, che hanno attirato intellettuali vicini al pensiero liberale, come Marcello Pera e Lucio Colletti, ma successivamente questa componente si è rapidamente esaurita. Per questo motivo non riesco a mettere Berlusconi sullo stesso piano di Pannella.
– Chi sono i suoi riferimenti culturali? Da un lato i grandi autori del pensiero sociologico e politico e dall’altro gli autori esponenti del pensiero laico e liberale Italiano. Certamente Einaudi è uno dei miei punti di riferimento.
–Come è diventato un liberale? Credo che questa adesione sia nata in reazione al sessantotto, cercando riferimenti alternativi a quelli della stagione sessantottina, quando ero una matricola universitaria. Sicuramente mi formarono molto la lettura dei testi dell’illuminismo e la vicinanza al mio maestro, Nicola Matteucci. Matteucci, fortemente liberale, è stato il mio punto di riferimento per la mia formazione personale e a lui devo moltissimo.
Bisogna essere molto forti per amare profondamente Pier Paolo Pasolini. Non si devono temere le sue profezie sul mondo post-storico a cui egli assiste per privilegio d’anagrafe, il suo amore che solo è nella tradizione ed il suo smarrimento nella ricerca di fratelli che non sono più. Ricostruendo l’opera di Pasolini come giustamente riconosce Vincenzo Cerami, si assiste alla storia d’Italia dalla decadenza del fascismo sino al boom economico.La storia che un poeta narra è sempre una storia interiore poiché il poeta svela i codici, rivela l’anima del tempo dinanzi al divenire quotidiano, sottopone al dubbio perpetuo le verità che sembrano intramontabili e dispera di quei valori eterni tramontati nell’illusione che non potessero più ’servire’, i valori che il poeta riconosce alla luce della loro vitalità come i doveri a cui sottoporsi per rendere la vita degna del suo valore.In questi trent’anni di storia interiore improvvisamente si cade in un abisso, in cui non è più possibile riconoscere realtà particolari, il mondo contadino paleo-capitalista ed il dialetto inventato ogni mattina dai poveri, per non farsi capire, per non condividere con nessuno la loro allegria. Ci si inabissa nel baratro interclassista in cui la mutazione antropologica degli italiani si è compiuta in nome ‘’della libertà, dell’uguaglianza e dell’umanità’’o almeno così sostiene il potere ma gli occhi del poeta rivelano che questa ‘’rivoluzione’’ si è compiuta in nome della schiavitù, dell’omologazione e della postumanità.’’In Italia ognuno sente l’ansia degradante di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero.Mai la diversità è stata una colpa come in questo periodo di tolleranza.’’:così Pasolini condanna chi ‘’è diverso essendo egli comune’’, l’edonismo di massa, la sregolatezza non del genio ma dello stolto che a tutti i costi deve palesare le sue catene invisibili, la sua incosciente coscienza d’infelice.Nell’epoca del tramonto del passato Pier Paolo non può più neanche ammirare assieme al fanciullo Dillio ‘’sui nostri corpi la fresca rugiada del tempo perduto’’poiché il ‘’nuovo potere è un potere che manipola i corpi trasformandone la coscienza’’, il Dopo-storia albeggia e non lascia alle spalle alcun tramonto, calpesta le carcasse del passato e le incide di un’eterna colpevolezza per giustificare la morte di cui si nutre, al poeta vecchio-ragazzo come si legge nella ri-scrittura di ‘’Dilli’’ del 74’ non resta che essere ‘’il sogno di un corpo’’, ’’conchiglia contro il male, di cui nessuno sa’’, non gli resta che ‘’rimanere fedele al proprio scopo’’ in un mondo privo di destinazione.Notiamo dunque come la componente idealistica dell’autore vinca sulla morte dell’deale, espressa magistralmente in quello che secondo C.B è l’unico film a possedere qualcosa che non appartiene al cinema, ovvero il Salò-Sade del 75’,dove quest’ultima si abbandona al senso esteriore e dunque tangibilmente reale rovesciando i canoni estetici dell’etica e rivelando nel sado-masochismo il peccato originale:l’anarchia del Potere. Nonostante il poeta, in quanto parte attiva della massa, subisca i valori falsi e alienanti dell’ideologia consumistica, egli non li interiorizza, ne è schiavo su un piano prettamente formale, esteriore ma questa volta irreale ,egli è salvato dalla stessa cultura che gli permette di contestare l’ideologia dominante. Assistiamo ad una contraddizione pulsante:la crisi della modernità abita il mondo ed il suo senso esteriore e questa volta reale ma nel poeta risiedono con nostalgia e disperata vitalità i valori del vecchio mondo a cui la realtà non lascia spazio ma divengono interiori e solo apparentemente irreali.Il poeta dunque non abbandonerà il suo rapporto col sacro intriso di contemplazione pittorica e pur ‘’girando per la Tuscolana come un pazzo, come un cane senza padrone’’ conserverà dentro di sé l’ingenuità della miseria, la veracità del sottoproletariato romano, dei ragazzi di vita che non imitavano i ragazzi della borghesia ma rimanevano fedeli a sè stessi ,alla loro cosciente incoscienza del mondo esterno, segregati fra la fame ,l’abbandono e la gaiezza di una vita violenta.A dispetto del Neorealismo, contraddistinto da un forte carattere prospettivistico-marxista ,la produzione letteraria e cinematografica che riguarda le borgate romane nasce dal disincanto e dall’accettazione di una realtà istintuale e immorale ma non per questo priva di codici etici e tradizioni proprie.Pasolini considera questa realtà come l’ultima sponda in cui il naufragio del consumismo non ha contaminato le rive ma anche il rimpianto di un mondo contadino ,un mondo che non esiste più e che egli rivive attraverso l’amore dannato e apollineo per sua madre, vertiginoso e imprescindibile ,quell’amore che gli impediva di innamorarsi di tutte le altre donne.Nota brillantemente Marcello Veneziani nel suo atlante ‘Imperdonabili’ come Pasolini sia in realtà un conservatore nel nome della madre, ’’all’amor patrio preferì l’amor matrio, più che le radici amava le matrici:la madre terra, la madre Chiesa e la madre lingua.’’Risiede in questa tensione l’eresia dell’intelettuale corsaro e come ogni eretico P.P.P morirà ucciso, il suo omicidio ancor oggi è avvolto nel mistero, sospeso fra le plurime e contradittorie dichiarazioni del ragazzo di vita Pino Pelosi e gli ipotetici indizi dell’assassino di Enrico Mattei nel romanzo rimasto incompiuto ‘’Petrolio’’.Noi non conosciamo le cause, i dettagli e le motivazioni ma di certo non può stupirci che in una società come la nostra un poeta venga ucciso.Ammazzare un poeta è il gesto fondativo ,l’atto che redime la coscienza dalla realtà, nell’illusione che la coscienza sia una prigione da cui evadere, una statua da abbattere, una libro al rogo, una memoria da abolire. La morte ‘’santa’’ di Pasolini tuttavia conferisce ad egli un valore ancora più alto ed ad oggi il suo spirito è la bussola che ci conuduce nella notte del mondo alla luci dell’eterno ,Pier Paolo ha accolto la lezione di Cristo che è venuto a portare la spada e non la pace, ovvero a rovesciare gli ordini pre-costituiti piuttosto che conformarsi passivamente ad essi.La sua anima aleggiando fra le vette del mondo ci sussurra il comandamento a cui prestare fedeltà per farci scudo fra la breccia della modernità: “Ama, prega, conserva!”.