RIGHINI (FDI): LAZIO FONDAMENTALE SNODO PER SCELTE STRATEGICHE DELLA NAZIONE
Di Francesco Subiaco
Per i conservatori di Fratelli d’Italia le elezioni regionali non sono solo la prova per confermare e corroborare il loro consenso in una regione storicamente complessa come il Lazio, ma sono soprattutto l’occasione per dimostrare che Fratelli d’Italia, come la Lega ha testimoniato nel Nord Italia, non è solo una forza politica capace di esprimere una vocazione maggioritaria a livello nazionale, ma soprattutto che essa è una forza politica capace di incarnare uomini delle istituzioni, grandi amministratori capaci di rappresentare tutti i cittadini della propria Regione e proporre una classe di futuri governatori e amministratori locali per riqualificare i propri territori. Una vocazione istituzionale che è il nocciolo duro dell’ultimo intervento del consigliere regionale Giancarlo Righini ad un incontro con i candidati a Grottaferrata in piena campagna elettorale, confermando la volontà di proporre Fratelli d’Italia non solo come il partito della destra italiana, ma soprattutto come il partito degli italiani. Per meglio comprendere la proposta elettorale di Giancarlo Righini lo abbiamo intervistato per la nostra testata. Entrato nel 2013 in Consiglio Regionale del Lazio, risultando il più votato di FdI nel collegio di Roma e Provincia, Giancarlo Righini fu anche il primo consigliere regionale del partito di Giorgia Meloni su tutto il territorio nazionale, un rappresentante ideale della nuova volontà di FDI di essere sia un partito istituzionale e laico sia una forza popolare ed identitaria.
Quali saranno le principali priorità dell’azione di una eventuale giunta di centrodestra alla guida della Regione Lazio? La sanità sarà certamente la prima di tante emergenze che saremo chiamati ad affrontare. E intollerabile vedere le file ai pronto soccorso, i pazienti parcheggiati in barella nelle corsie, molto spesso sulla stessa barella dellambulanza che li ha trasportati, generando il fenomeno del fermo ambulanza che determina ulteiori ritardi e disagi nel servizio. Agiremo subito sulle liste di attesa, oggi infinite sia per la diagnostica che per alcuni interventi chirurgici, centralizzando il sistema delle prenotazioni, integrando i posti letto, sia pubblici che convenzionati, avvalendoci delle moderne tecnologie, così come sono in uso in altre regioni. Nel medio e lungo termine ci poniamo gli obiettivi di costruire la sanità territoriale, sviluppare le cure domiciliari, avviare una stagione di programmazione sia per il potenziamento e lefficentamento delle strutture, sia per la valorizzazione del personale, vero grande patrimonio del sistema. Il Pd sarà ricordato per la chiusura degli ospedali ed il taglio dei posti letto. Con Francesco Rocca intendiamo varare una stagione fatta di reparti e ospedali che si aprono. In particolare dedicheremo attenzione allintegrazione socio-sanitaria, alla presa in carico dei fragili, disabili e anziani specialmente, verso cui va diffusa una nuova cultura dell’accessibilità. Quindi le cure oncologiche, con un nuovo piano oncologico regionale, le malattie rare, il disagio mentale e psicologico in rapida crescita, soprattutto tra i giovani, dopo la fase più acuta della pandemia, e restando sempre sul mondo giovanile, un tema che mi sta particolarmente a cuore è la realizzazione di un centro di eccellenza per I disturbi alimentari”. Durante la campagna elettorale ha puntato il focus sulla necessità di tutelare la piccola e media impresa e di contrastare l’immobilismo della burocrazia regionale. In che modo si possono raggiungere questi due obiettivi? Il mondo produttivo chiede prima di tutto fiducia e semplificazione burocratica. Efficace a tal proposito è il motto con cui Giorgia Meloni ha definito lapproccio dei conservatori alle politiche di sviluppo: non disturbare chi vuole fare. E la filosofia che applicheremo anche nel Lazio. Attrarre investimenti, agendo in varie direzioni: potenziare ed efficentare la dotazione infrastrutturale regionale in primo luogo. La Roma-Latina, la Orte-Civitavecchia e la Cisterna-Valmontone per citare le opere viarie, a cui vanno aggiunti ingenti investimenti sul versante ferroviario, sia per le tratte pendolari che per quelle ad alta capacità, insieme al completamento dellanello di Roma. Ma per determinare condizioni favorevoli per la crescita è necessario lavorare sui distretti industriali, collegando più e meglio le politiche di formazione, su cui ci sono molti fondi europei da investire, alle reali esigenze del mondo produttivo. Non da sottovalutare infine il turismo e l’agricoltura, come settori economici dalle grandi potenzialità espansive, così come un occhio particolare riserveremo alla cosiddetta economia blu. La cabina di regia del mare, contenuta nel programma di Francesco Rocca guarda proprio alla valorizzazione del mare come risorsa, ambientale, turistica ma soprattutto produttiva. Dal 2013 lei riveste il ruolo di consigliere regionale, quali sono stati i traguardi più importanti che Fratelli d’Italia ha raggiunto in questi anni e quali gli obiettivi principali che vi riproponete per questa tornata elettorale? L’affermazione di Fratelli dItalia sta nella coerenza e nella serietà di Giorgia Meloni. Dopo 10 anni abbiamo costruito una forza capace di innovare la politica, oltre i vecchi schematismi. Se pur restando ben radicati nel solco della tradizione della destra politica italiana, FdI oggi si rivolge a tutti gli elettori, come il partito a difesa degli italiani, che ha iscritto nel suo DNA il patriottismo e linteresse nazionale. Dopo avere ottenuto la fiducia per governare l’Italia, intendiamo conseguire il consenso anche per guidare gli enti locali, a partire dalla Regione Lazio, strategico snodo per le scelte di tutta la Nazione. In un suo intervento ad un incontro con gli elettori ha sottolineato la necessità di salvaguardare l’importanza di Roma capitale ma allo stesso tempo guardare ad un nuovo sviluppo per i territori. Da dove ripartire per valorizzare la provincia? Il Pd ed il Movimento Cinque Stelle su Roma hanno registrato uno dei più grandi fallimenti della loro azione politica, interpretando il governo del territorio come se Roma dovesse utilizzare le sue province come una discarica: a volte di rifiuti, a volte di persone, spesso di responsabilità. Così facendo non hanno risolto alcun problema capitolino, aggravandone molti in provincia. Serve una visione diversa. A Roma vanno affidati poteri di rango costituzionale come si addice ad una grande capitale mondiale, mentre alle province va ridato un assetto istituzionale dignitoso, dopo la rovinosa riforma Delrio, restituendo ai cittadini il potere di scegliersi i propri rappresentanti di governo. Perché la candidatura del presidente Rocca potrebbe risollevare il Lazio dopo l’immobilismo di questi anni? L’Avv. Francesco Rocca è la persona giusta per risollevare il Lazio. Le sue riconosciute grandi capacità manageriali, soprattutto nel campo della sanità, lesperienza diplomatica e di rapporti ad altissimo livello internazionale, il profilo dalle spiccate sensibilità sociali, parlano di una personalità competente e capace di agire, sia nellimmediato che nel fronteggiare grandi crisi sociali, sanitarie ed umanitarie. Quali sono stati i grandi errori del centrosinistra e quali potrebbero essere le soluzioni per superare queste criticità? Credo che il fallimento del Pd e del Movimento Cinque Stelle, in particolare in questa regione, sia stata lassuefazione al potere. Ossia pensare che gestire fosse la stessa cosa di governare. Lo hanno pensato a tal punto da sostituire il primo concetto con il secondo, a volte utilizzando anche dei metodi molto poco ortodossi. Così facendo hanno fatto abdicare la politica, finita in secondo piano rispetto ai più o meno legittimi interessi di parte. Fratelli dItalia ha dimostrato sin dalla sua nascita di avere gli anticorpi nei confronti di un certo conformismo, preferendo la politica alle varie scorciatoie che a volte le circostanzepresentano per arrivare al potere. Quali sono i riferimenti culturali di Giancarlo Righini? Senza dubbio quelli della destra conservatrice e del patriottismo, interpretati storicamente da figure come D’Annunzio, Prezzolini e gli eroi del Risorgimento. Avvicinandoci all’attualità, credo che vi siano stati protagonisti che hanno incarnato i valori di libertà e di identità europea, come Papa Wojtyla e Jan Palach, che andrebbero iscritti in un pantheon comune. Alzando lo sguardo a livello globale, Gandhi e Nelson Mandela, si stagliano come giganti del pensiero che diventa azione. Passando alleconomia credo che i fatti dimostrino limportanza delle teorie interventiste di Keynes.
Polini: “L’economia circolare non deve essere solo una sfida ma una opportunità”
Di Francesco Subiaco
Per Michele Polini, funzionario del Partito Repubblicano Italiano e candidato con la lista civica D’Amato Presidente alle Regionali del 12 e 13 febbraio, non si può pensare l’azione politica se non si considera la centralità della parola “sostenibilità”. Un termine che non vuol dire solo ridurre l’impronta climatica all’interno dei processi produttivi del nostro tessuto economico e sociale, ma vuol dire soprattutto pensare l’azione politica guardando alla simultaneità degli agenti sociali. Sapendo coniugare concorrenza e libertà d’impresa con la tutela della piccola e media imprenditoria locale, lo sviluppo economico e l’economia circolare, le sfide del PNRR e gli obiettivi del rispetto dell’ambiente. Sostenibilità, imprese, futuro su questi temi, per il candidato repubblicano, si deve giocare la partita per la Regione Lazio, per coniugare le tradizioni del territorio e una voglia di innovazione che vuole restituire al Lazio un respiro europeo. Per meglio comprendere le idee del candidato Michele Polini lo abbiamo intervistato per la nostra testata.
– Quali sono per lei gli obiettivi fondamentali che dovrebbe avere la futura giunta regionale? Ci sono molte tematiche contenute nel programma di Alessio D’Amato che abbiamo condiviso nel momento in cui abbiamo scelto di essere candidati nella Lista Civica per D’Amato Presidente come Partito Repubblicano Italiano. La futura giunta regionale dovrebbe avere la massima attenzione allo sviluppo ed all’attuazione, la così detta messa a terra, dei progetti finanziati dal PNRR. Ora più che mai la futura giunta regionale dovrà lavorare in maniera attenta e sinergica con le amministrazioni locali ed in particolare con l’amministrazione di Roma Capitale, per utilizzare appieno ed al meglio le risorse provenienti dal PNRR, che sono una grande opportunità di cambiamento e sviluppo della nostra regione e della Capitale, che può diventare guida per tutto il Paese e per l’Europa intera. Come è già successo durante l’emergenza pandemica, dove grazie all’azione di Zingaretti, Presidente della Regione, ma soprattutto grazie all’azione pensata ed attuata con competenza, professionalità, efficienza ed efficacia da Alessio D’Amato, la Regione Lazio ha potuto limitare al massimo i danni del covid 19 ed essere nel contempo regione presa a modello in Italia ed in Europa per il sistema di vaccinazioni, di prenotazione e contenimento dell’emergenza pandemica. È indispensabile che l’occasione offerta dal PNRR non vada dispersa e possa essere una vera occasione utilizzata al meglio per pensare ad una Regione moderna che guardi al futuro.
–Quanto sarà importante l’attenzione per le piccole e medie imprese nell’azione della candidatura del presidente D’Amato? Le piccole e medie imprese rappresentano nel tessuto economico nazionale una solida realtà, propria della cultura e tradizione italiana, che ha garantito anche in momenti difficili condizioni economiche e sociali di stabilità e di sicurezza, occupazione ed economia, fondamentali durante le crisi finanziarie e durante la pandemia covid 19 ed anche ora che viviamo gli effetti della guerra in Ucraina. Il Presidente D’Amato ha pensato ad un programma che punti oltre che al reddito di formazione, che mira alla formazione mirata per i giovani in cerca di prima occupazione, al rilancio della nostra economia basata su tre direttrici: innovazione, ricerca e sviluppo. Le misure pensate sono quelle di incentivi per promuovere gli investimenti nelle tecnologie digitali e green; una nuova rete di servizi informativi e di assistenza per le aziende; un programma di formazione 4.0 pe la diffusione di nuove competenze; il rafforzamento della sinergia tra impresa e ricerca, con progetti innovativi come “Rome Technopole” e “10Kmdi scienza”.
–Perché ha scelto di candidarsi e quali saranno le principali battaglie che l’unione romana vuole portare avanti per questa tornata elettorale? La scelta di candidarmi nasce dall’aver individuato in Alessio D’Amato le qualità e le competenze utili e necessarie affinchè il Lazio possa essere una Regione moderna che guardi al futuro. La scelta passa anche per una ragione prettamente politica, ovvero quella di dare esatta identificabilità alla presenza del Partito Repubblicano Italiano nella competizione elettorale, essendo io il Segretario Politico dell’Unione Romana ed il Coordinatore del Lazio, nonché componente della Direzione Nazionale del Partito. La mia candidatura rappresenta pertanto un impegno diretto e politicamente qualificato del PRI, utile a consentire agli amici repubblicani l’individuabilità della nostra partecipazione. La mia azione punta su tre punti in particolare: 1) potenziamento della raccolta differenziata (in particolare a Roma) e creazione di Impianti di trattamento e riciclaggio di rifiuti, secondo i principi dell’economia circolare ed in attuazione di uno dei pilastri del PNRR legati alla transizione ecologica, con l’intento di utilizzare al meglio le opportunità e gli strumenti offerti dal PNRR; 2) rafforzamento e integrazione del sistema viario e del trasporto pubblico regionale: da attuarsi con una razionalizzazione dei sistemi di trasporto, volto a portare una migliore fruizione della rete dei trasporti pubblici regionali e che favorisca una maggiore capacità dei sistemi di trasporto pubblico di offrire opportunità di movimento che abbiano il più possibile minor impatto sull’ambiente e sulla qualità di vita dei cittadini; 3) creazione di circuiti culturali, artistici, turistici, enogastronomici volti a valorizzare le realtà e le bellezze del Lazio, con attenzione alla storia, cultura e tradizioni locali, per favorire sviluppo economico, opportunità lavorative per i giovani e per consolidare le attività esistenti senza che siano disperse. Questo valorizzando e qualificando al massimo l’offerta culturale ed artistica della Capitale, inserendo circuiti turistici, culturali e tradizionali delle altre provincie del Lazio, al fine di avere un’offerta il più ampia e variegata possibile (mare montagna, collina, art, cultura, storia, tradizioni, etc.) ed unica al mondo.
–Quali sono i riferimenti culturali di Michele Polini? I miei riferimenti culturali sono quelli del libero pensiero, di una visione laica della società, dove l’uomo è parte integrante di un sistema naturale, di cui deve rispettarne principi e valori e vivere in equilibrio con esso. Ritengo che occorra pensare ad una società che veda tornare al centro dell’attenzione l’essere umano, questo è per me fondamentale. In questo il pensiero mazziniano di rispetto e di considerazione dell’uomo quale elemento fondamentale della società, della sua realizzazione in una società di eguali e dove tutti hanno diritto ad avere la stessa dignità di uomini, rispettando le diversità altrui, trovo sia la chiave di lettura di una visione attualissima. Il pensiero repubblicano riesce a cogliere lo spirito mazziniano e sintetizzarlo in una declinazione politica di grande attualità, per questo ritengo che il Partito Repubblicano Italiano, di cui mi onoro di fare parte, rappresenta una grande opportunità di valori e principi, ma soprattutto di grande ispirazione per la politica nazionale, in questo momento dove la politica sembra aver perso definitivamente la propria funzione ed il rapporto con i cittadini.
–Quanto è importante per lei il tema del green e dell’economia circolare per una nuova gestione della regione Lazio? Ritengo la tematica prioritaria e di assoluto interesse per immaginare una regione che possa guardare al futuro e al benessere dei propri cittadini. Le diverse risorse messe a disposizione dal PNRR offrono occasioni importanti per la realizzazione di un adeguato piano regionale che veda tra i suoi interventi prioritari ed immediati la realizzazione di impianti di trattamento, rigenerazione e riciclaggio dei rifiuti, realizzati secondo i principi dell’economia circolare. La creazione di impianti specifici di trattamento consentirebbe l’immissione nel sistema produttivo delle così dette “materie prime seconde”, risultanti dal trattamento di particolari categorie di rifiuti ed in alcuni casi consentirebbe la cogenerazione di energia, con vantaggio di riduzione delle dispersioni inquinanti (percolati ed altro) ed il ricorso ad una fonte energetica alternativa. L’attuazione di adeguate politiche che realizzino la transizione ecologica, uno dei pilastri del PNRR, passano anche attraverso la realizzazione delle Comunità Energetiche Rinnovabili, che rappresentano un utile risorsa per limitare l’accesso alle fonti energetiche di produzione da idrocarburi e gas, e veda invece il ricorso alle fonti rinnovabili, puntando sempre di più ad un efficientamento energetico, ad un più consapevole utilizzo delle risorse naturali esauribili e ad un ricorso sempre più importante a fonti alternative (pannelli solari, ……..).
L’IMPERO COLPISCE ANCORA. TIQQUN E L’ANATOMIA DELLA GUERRA CIVILE
Tiqqun è il nome di uno dei più interessanti progetti collettivi della tradizione filosofica politica italiana. Nato nel 2001 come una testata collettiva, anonima di matrice anarchica, situazionista e rivoluzionaria tale testata italo francese si pone come un laboratorio sperimentale di decostruzione del mondo neocapitalista, un pulsante di autodistruzione del mondo della sorveglianza che mischia Carl Schmitt e Hegel, Foucault e Marx, Bakunin e Hobbes, il cui prodotto più interessante è “Introduzione alla guerra civile”(GOG EDIZIONI) da poco pubblicato dalla casa editrice romana di Lorenzo Vitelli. Un testo complesso e rivoltoso, che non vuole solo diagnosticare da un punto estremo la società capitalistica, ma portarla al collasso e all’implosione. Strutturato come un trattato teologico politico del medioevo biopolitico, l’introduzione è un testo dinamitardo e fulminante che configura nelle sue numerose pagine un glossario, un arsenale di rivolta contro il mondo moderno. Le teorizzazioni di Tiqqun aldilà di una adesione ai principi professati sono dei diamanti concettuali, che analizzano le contraddizioni delle forme politiche realizzando una storia segreta del potere e della società nelle loro ipertrofiche confusioni. In principio non è il verbo o il corpo, ma la forma di vita. La forma di vita, non è l’individuo, il corpo, la vita, è la polarizzazione intima della vita stessa, non ciò che si è, ma come si è ciò che si è. Forma di vita è la prima parola da tenere a mente. Tale concetto però non riguarda i predicati che si sussumono all’uomo, (nazionalità, etnia, genere, ruolo sociale, appartenenza religiosa) bensì la sua inclinazione più profonda, la cui natura è il bersaglio del Bloom. Il Bloom è, l’indole, l’umore, lo stato di agitazione che riguarda l’uomo alienato dalla società capitalistica che tende inevitabilmente verso il nulla. È l’anestesia di ogni forma di vitalità dell’uomo della end of history. Disinnescato da ogni emozione, da ogni vera inclinazione, tale creatura vive come un (ni)ente del mondo del nichilismo realista capitalista cullandosi tra l’assenza di gusto ed il gusto dell’assenza. Assenza del sacro, di radici, di pulsioni, di conflittualità, come in un acquario macchinico in cui il tempo e l’esistenza sono affogati dalla pubblicità e dalle inibizioni. Bloom è la seconda parola da tenere a mente. Ora la forma di vita il cui stato d’animo ed umore caratterizzante è il Bloom è ostaggio della rete della comunicazione, dell’acquario del consumismo, delle catene dell’alienazione neocapitalista a livello spirituale ed esistenziale, mentre a livello politico, o meglio biopolitico è imprigionata dal potere della società della sorveglianza, che si realizza come società totalitaria, in cui lo stato e la pervasività del potere si confondono in una struttura di panopticon diffuso in cui tutti sono sorvegliati e sorveglianti. La congiunzione di questa cappa “spirituale” la cui massima rappresentazione è lo “spettacolo”, con il potere biopolitico dello stato di polizia permanente è “l’impero”. L’Impero è la forma in cui si è costituita la società capitalista moderna. Servendosi dell’apparato spettacolare e di quello biopolitico, esso è dissolto nelle sue manifestazioni; è ovunque, perché non è in nessun luogo. Appare solo laddove l’ordine imperiale viene contestato, per ristabilire una normalità la cui cifra ideologica è l’indifferenza. Impero è la terza parola della Trinità di Tiqqun. Ora le forme di vita hanno una natura che le orienta al conflitto, alla guerra civile; lo scontro tra forme di vita, aldilà dei vari predicati che ad esse sono collegate, è intrinseco nella esperienza umana diventando il principio fondante della coesistenza di esse. Lo scontro ed il conflitto è l’assunto fondante della politicità delle forme di vita per Tiqqun, le quale si uniscono per affinità di inclinazioni in comunità, le quali sono perennemente orientate allo scontro. La società capitalistica, il cui garante è l’impero, per mantenere il primato del mercato, che disintegra la comunità in atomi che proiettano le loro pulsioni alla guerra civile nel mercato, come estensione del dominio della lotta, in realtà si nutre di surrogati per entità che sono alienate e disinibite. Non potendo continuare una dialettica conflittuale le forme di vita surrogano la loro indole alla guerra civile in guerre di predicati, simulazioni e surrogazioni della guerra civile, che si traducono in conflitti su temi come la differenza etnica, di genere, d’orientamento, di appartenenza religiosa. Conflitti che frammentano ancora di più il tessuto sociale e allo stesso tempo scaricano le forze sociali da ogni forma di emancipazione per Tiqqun, non contestando o difendendo la società capitalistica e l’impero ma proiettando verso di essa scontentezza e indifferenza. Per tale ragione l’impero si configura come degenerazione finale della modernità che da stato liberale a stato totalitario a stato sociale, realizza una forma di governo in cui la società è statalizzata e lo stato è socializzato, configurandosi come una struttura ibrida tra una integrazione di asset orizzontali ed un potere diffuso ed immateriale. Da qui il dissolvimento di ogni forma di sovranità personale, di limite geografico politico, privilegiando invece una struttura dematerializzata e transnazionale. Senza confini, senza leggi, in cui governano norme e predicati per frammentare e condensare il reale. Un Moloch fluttuante che non elimina le differenze, ma le sradica e disinnesca trasformandole in simulacri. Una forma di egemonia planetaria e immateriale che si invera nel reale solo dissolvendo ed annichilendo ogni forma di differenza sostanziale, ogni impeto conflittuale, ogni vera manifestazione di radicamenti e legami e che quindi vede nel disarmo nella decostruzione il linguaggio principale della sua espansione. Una espansione impersonale la cui cinghia di distribuzione è la tecnostruttura del sistema capitalista e che in questa definizione trova la sua massima spiegazione: impersonale, diffusa, totalitaria, pianificatrice, dogmatica. L’impero per Tiqqun non è infatti il capitalista o il dittatore o il manager, che in questa fase non sono altro che proiezioni cinematografiche di questo potere, simulacri irreali di sublimazioni collettive; in realtà l’impero va concepito come un ambiente ostile che aliena e condiziona l’agire umano. Tiqqun quindi si pone come il media sperimentale di una insurrezione totale contro tale ambiente che non vuole correggere ma spingere al collasso. Un manuale di guerriglia intellettuale che si pone come il bottone del giorno del giudizio della società della sorveglianza e che lancia la sua sfida per la rivolta del partito rivoluzionario contro l’impero. Una teorizzazione infruttuosa per quanto interessante che mostra come l’impero colpirà ancora…
Per Sossio Giametta la filosofia è la terapia dell’essere umano, un farmaco capace di portare ordine e dare un senso ai grandi dubbi che tormentano l’umanità senza scadere né nelle religioni delle illusioni né nelle illusioni delle religioni, attraverso domande che decostruiscono i miti dell’antropocentrismo, delle utopie dei totalitarismi, delle finzioni sulle sorti magnifiche e progressive dell’umanità, e che sono il vero bagaglio del filosofo. Per tali motivazioni Sossio Giametta è un vero filosofo e non uno storico o un pedante divulgatore del pensiero, poiché con il suo percorso intellettuale ha prodotto un corpus filosofico capace di sfidare i pregiudizi del tempo, di affrontare i temi del presente con il metro dell’eterno, di non essere solo l’ombra dei pregiudizi del tempo, ma una voce dei grandi turbamenti dell’individuo, che non solo risolve, ma vive, affronta e rilegge in modo unico nei suoi testi. Un’opera che lo pone come l’ultimo vero maestro del sospetto della nostra epoca. Un maestro capace di delineare il nucleo di una idea filosofica in grado di rispondere al più urgente tema della filosofia contemporanea: “come si può pensare il mondo dopo il cristianesimo?”. Questa domanda trova risposta nella filosofia dell’ “essenzialismo-organicismo”, una visione argomentata già nella Trilogia dell’essenzialismo” (composta dal Bue squartato, L’oro prezioso dell’essere e Cortocircuiti) e nello splendido Codicillo, in cui declina i massimi problemi del pensiero in minimi spazi ed in cui si ritrovano le idee e le scoperte che poi verranno riprese e sviluppate nel Caleidoscopio, nei commentari filosofici dell’opera di Nietzsche e nei suoi ultimi scritti. Scritti che affrontano la filosofia dei grandi maestri del sospetto della storia, come Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche nel piccolo, ma densissimo, “La filosofia di Spinoza e il duello con Schopenhauer e Nietzsche” (Bollati Boringhieri) dove Giametta confronta la filosofia del massimo filosofo con gli affondi del dinamitardo Nietzsche e del pessimista Schopenhauer, la cui filosofia non solo ha decostruito il mito antropocentrico e cristiano ma ha formulato l’idea di una filosofia capace di andare oltre il fanatismo e gli antidoti delle illusioni cristianesimo. Una filosofia che si fa racconto e narrazione nel romanzo più riuscito di Giametta, “La gita di Ognissanti”(Olio officina), in cui l’autore, critico del 68 e le illusioni della modernità, demolisce i tabù e le chiusure di un establishment intellettuale di stampo marxistico e dell’inquinamento ideologico con cui il comunismo ha contaminato la cultura e in cui è presente, inoltre, una interessante stroncatura di Pasolini. Opere in cui Sossio Giametta si mostra come un vero Mago del sud, (come suggerisce il titolo dell’omonima antologia critica sul filosofo frattese curata da Marco Lanterna), che ha ripagato bene i suoi maestri, Spinoza, Croce, Bruno e Colli, non rimanendone solo un allievo, bensì diventando a sua volta un maestro. Il maestro di una grande filosofia capace di ripensare la modernità in modo unico come un vero filosofo, forse l’ultimo, ovvero “come persone che compiono sforzi estremi per sperimentare fino a che altezza l’uomo possa elevarsi”. E con il pensiero di Giametta ci si innalza oltre le vette.
–In Caleidoscopio filosofico hai detto che la storia umana è divisa in tre fasi di cui la prima aristocratica-elitaria-pagana e la seconda cristiana-democratica. Quale sarà la terza fase della storia e perché il panteismo sarà la filosofia fondante di questo terzo evo? Dopo paganesimo e cristianesimo, il secondo in contrapposizione al primo come tesi e antitesi, segue levo moderno come sintesi, letà della secolarizzazione e per conseguenza del panteismo, soprattutto ad opera di Spinoza. Segue necessariamente, perché la religione, cioè il vincolo dellindividuo con la natura (la specie e il mondo), permane.
–Oggi in preda ad una nuova “rivoluzione culturale” si giudicano i filosofi e gli scrittori in base alle lenti del politically correct. Che ne pensi di questo nuovo tribunale ideologico? Giudicare i filosofi e gli scrittori con giudizi che non siano filosofici e letterari, come sono quelli politici, è sbagliato. La filosofia è la ricerca della verità e quindi il giudizio filosofico è quello che stabilisce che valore ha un certo filosofo, cioè la sua filosofia, in relazione alla ricerca della verità: se lha fatta progredire o se ha imboccato vie sbagliate.
–Come può secondo te la filosofia confrontarsi con la complessità della tecnica e del mondo digitale. L’intelligenza artificiale e la “virtualizzazione” del mondo come cambieranno a tuo avviso il rapporto del filosofo con il mondo e il pensiero? la filosofia si è sempre confrontata con la vita e il mondo, le cose più complesse in assoluto. si confronterà anche con la tecnica e il mondo digitale, come di ogni altra cosa che ne fa parte. quanto a come lintelligenza artificiale e la virtualizzazione del mondo cambieranno il rapporto del filosofo con il mondo e il pensiero, wait and see.
–Perché definisci Spinoza il filosofo, Schopenhauer un mezzo filosofo e mezzo moralista e Nietzsche soltanto un moralista? Spinoza è certamente il filosofo, ma il filosofo che ha fatto la rivoluzione più importante dopo quella di Gesù Cristo, in senso inverso, sostituendo il cristianesimo con il panteismo. Non ho definito Schopenhauer un mezzo filosofo e mezzo moralista e Nietzsche soltanto un moralista. Schopenhauer è un (grande) filosofo e in più un grande moralista e un grande artista (stilista). Nietzsche è un grande moralista, ma anche filosofo, poeta, psicologo, critico della civiltà (kulturkritiker) e genio religioso, come tale co-fondatore della religione laica.
–Che cos’è per te la filosofia e quale dovrebbe essere la missione del filosofo? La filosofia potrebbe non esistere come disciplina particolare, perché è una riflessione sulla vita e sulla natura aperta a tutti.
–Una volta hai detto che ci sono tanti professori di filosofia e pochi filosofi. Come mai siamo diventati nell’ambito filosofico dei “guardiani” del pensiero e non abbiamo più coraggio di essere filosofi? Per Pitagora, inventore del termine filosofo, il filosofo è chi osserva e studia la natura, le cose, non in primo luogo i concetti. Solo che il filosofo è anche chi si dedica a quuesto studio e non ignora i risultati dei filosofi precedenti.
–Nel novecento Kojeve e Strauss si confrontarono a lungo sul rapporto tra filosofia e potere, nel lungo epistolario “Sulla tirannide”. Secondo te che rapporto ci deve essere tra il filosofo e il potere e verso quale posizione propendi? Sono per lassoluta libertà della ricerca filosofica, per lassoluta libertà di pensiero, indipendente da qualsiasi autorità, da ogni potere, soprattutto quello religioso e politico.
–Longanesi diceva che cultura è tutto quello che non ti dà l’università. Credi che la filosofia sia incompatibile con l’accademismo? Sì. La vera filosofia è vocazione e non professione. Può però anche diventarlo, fermo restando che la vocazione deve sempre precedere la professione. Non si sceglie la fillosofia, ma se ne è scelti, in genere con grande sorpresa. Philosophus nascitur. Schopenhauer ha scritto un saggio significativo contro la filosofia delle università.
–Che legame c’è tra il Giametta filosofo e quello romanziere? E come nasce la Gita di Ognissanti? Giuseppe (Peppo) Pontiggia diceva che i miei saggi sono scritti con tensione narrativa. Io aggiungo che la mia narrativa è scritta con tensione moralfilosofica. In essa, narrazione e pensiero non sono sovrapposti o giustapposti, nascono intimamente intrecciati, anzi fusi, cioè i racconti sono veri racconti, non contes philosophiques che vogliono dimostrare una tesi filosofica. La Capria diceva che ero un centauro. E in effetti ho scritto Tre centauri. La gita dOgnissanti nasce come le altre narrazioni: da ispirazione, esperienza e pensiero. Vi stronco Pasolini, non il 68 e il movimento della contestazione, che giudico in parte positivamente, in parte negativamente. Pasolini, non negoche fosse anche artista, nel cinema e nella letteratura, forse anche nella poesia dialettale, che però non conosco. Il primo dei due romanzi è valido, come i due film romaneschi. Sono ispirati dalla gioventù perduta delle periferie romane. Il secondo romanzo ha un inizio bello e originale, travolgente, ma ilresto è maniera. Pasolini era più un effettista che un artista e aveva la presunzione di esprimere con singoli film intere civiltà: araba, greca, cristiana, inglese, eccetera. Quanto alla critica sociale, ha detto in forma popolare ciò che era stato detto seriamente quasi un secolo prima. Ha approfittato del successo per esprimere in più modi e con vari pretesti la sua depravazione, che non consiste nella sua omosessualità, ma nel modo di viverla e di obbrobriosamente sbandierarla.
–Nel tuo romanzo “La gita di Ognissanti” compi una netta stroncatura di Pasolini e del 68. Quali critiche muovi verso questo autore e il movimento della contestazione? Ho cominciato con Croce, ho continuato con Goethe, poi con Nietzsche e Schopenhauer, su cui ho lavorato di più; poi ancora ho aggiunto Giordano Bruno.
-Hai ancora dei sogni? Veder pubblicati i libri già sotto contratto e ripubblicato qualcun altro.
–Quali sono stati i grandi incontri della tua vita e perché? Umanamente, soprattutto Marco Lanterna e Giuseppe Girgenti, due persone più miracolose che straordinarie, oltre che due eccellenti scrittori.
–Roger Scruton superata la soglia dei settant’anni ha detto di aver compreso che il vero senso della vita è la gratitudine. A pochi anni dalla soglia dei 90 anni che cosa hai imparato e quale è il senso della vita umana per te? Il senso della vita delluomo è la lotta per affermarsi e sopravvivere e per ricambiare il bene ricevuto dalla vita e dagli uomini del passato. La nostra origine è divina, ma siamo immersi nella vicissitudine delle condizioni di esistenza, fin troppo spesso infernali.
–Quale è l’opera che hai scritto in cui ti rispecchi e perché? Ritengo i Grandi problemi risolti in piccoli spazi (Bompiani 2017) il mio miglior libro di filosofia, perché vi ho risolto problemi millenari in tre, quattro o cinque pagine. Il mio pezzo migliore è lultimo, quello su Gesù Cristo. Dimostra come un uomo può diventare Gesù Cristocon un percorso laico.
–In Senecione hai stroncato duramente il filosofo Blaise Pascal. Perché questa stroncatura? Lo spiego in un libro che spero esca questanno. In unepoca in cui si lottava contro la religione e infierivano le guerre di religione, si è ributtato, per lincapacità di sopportare il mondo senza un Dio personale, cioè per viltà, nella religione invece di combatterla, come facevano, a rischio della vita e del carcere, migliaia di cosiddetti eretici.
–La visibilità quanto può essere pericolosa per un filosofo? Dipende dal filosofo,dalla sua filosofia, dall’epoca e dalle circostanze.
-Hai in programma nuove opere? Due libri nuovi, uno su Schopenhauer e uno su Pascal, e delle ripubblicazioni.
–Che opinione hai della scena politica attuale? Più o meno disastrosa. Ma non voglio perdere la speranza.Ci sono forze positive in atto. Speriamo tutti.
Confessioni di un governatore. Intervista ad Attilio Fontana
Di Francesco Subiaco
Attilio Fontana, 70 anni, avvocato, una carriera nell’amministrazione e nel rapporto con il territorio. Sindaco, presidente dell’assemblea dei sindaci, presidente della regione, candidato a questa tornata elettorale per rinnovare il suo secondo mandato come governatore della Regione Lombardia. Eccellente amministratore, volto moderato e responsabile della Lega, che ha attraversato dagli inizi della Lega Lombarda passando per la svolta salviniana e l’attualità, di cui oggi è uno dei più noti ed apprezzati esponenti. Da sempre legato alla cultura liberaldemocratica, si ricandida a questa tornata elettorale con un programma e un pareterre di candidati capace di far convergere conservatori e liberali, leghisti e centristi, popolari e mazziniani (tra i candidati della sua lista Civica spiccano infatti anche i repubblicani Valerio Massimo Antonelli e Silvia Gioventù del Pri lombardo) in una proposta politica capace di conciliare responsabilità e connessione sentimentale nazionalpopolare, senso delle istituzioni e legame col territorio, l’autonomia con la coscienza nazionale. Fontana è nell’immaginario collettivo “il governatore” per antonomasia, il rappresentante di un centrodestra che non solo vuole incarnare le istanze popolari, ma soprattutto trasformarle nell’anima delle istituzioni, che sa guardare oltre le ideologie in nome di una visione dell’amministrazione pragmatica e concreta.
–Presidente Fontana, Lei ha guidato la regione Lombardia durante un periodo durissimo come quella della zona rossa e della pandemia. Che ricordo ha di quei giorni e come ha vissuto quella stagione così complessa? Non scorderò mai le notti a studiare un nemico invisibile che nessuno ci aveva preparato ad affrontare. Abbiamo fatto tutto quello che era possibile fare per salvare il maggior numero di persone. Il dolore per chi ha perso la vita e per le loro famiglie sarà sempre una ferita aperta nel mio cuore. Senza dubbio la difficoltà più grande è stata far comprendere a Roma che la situazione in Lombardia era più grave di quello che loro percepivano. Nel primo periodo ci siamo sentiti abbandonati. Il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza il 31 gennaio 2020, ma non si è preoccupato, pur avendone la competenza esclusiva, di fare provviste di dispositivi e macchinari che poi sarebbero stati essenziali per il personale sanitario. C’è stata una grande sottovalutazione del problema, il resto è storia. Come dicono anche all’Estero se il covid avesse colpito un’altra regione, soprattutto del sud, gli effetti avrebbero potuto essere ben più drammatici. Il nostro eccellente sistema sanitario ha arginato e gestito al meglio una situazione pazzesca.
–Come giudica la sua esperienza di governatore e quali sono stati i momenti più importanti e significativi del suo mandato? È stato un privilegio per me guidare la regione definita locomotiva d’Italia e motore d’Europa. Tra i momenti più significativi di questo mandato c’è sicuramente la gioia per l’aggiudicazione delle Olimpiadi 2026 e poi la ripartenza dopo la pandemia. Il grande piano vaccinale, portato avanti da Bertolaso che ci ha consentito di mettere al sicuro il 91% dei lombardi sopra i 5 anni e il 94% degli over 12, una percentuale che ci ha visto primeggiare non solo in Italia, ma in Europa. Poi il ‘Piano Lombardia’ concepito e lanciato per sostenere la nostra economia e dare un messaggio di speranza. Oltre 8000 interventi ammessi e finanziati per 3mld e 640 milioni, 5700 cantieri aperti e 2700 completati da parte di comuni, province e altri soggetti pubblici. Un investimento di 4,2 miliardi di euro di risorse regionali che ne ha generato da parte degli enti locali ulteriori 2,3. Si stima che il Piano abbia prodotto un incremento del Pil regionale dello 0,8 per cento, con un incremento della occupazione di circa 36mila unità in Lombardia e di altri 12mila fuori regione. Siamo molto orgogliosi di questa scelta che, di fatto, ha anticipato di oltre un anno il Pnrr, e soprattutto perché l’abbiamo realizzata lavorando in sinergia con i Comuni.
-Che considerazioni trae riguardo la prosecuzione del progetto di autonomia differenziata? E come risponde alle critiche mosse al suo partito riguardo questo tema? Alle critiche rispondono i fatti e questi dicono che l’attuazione dell’autonomia differenziata per la Regione Lombardia è un problema politico nazionale e su questo, mi pare, ci sia coesione nella maggioranza e penso che potrà arrivare nel 2023. Anche il presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è resa conto che questa riforma guarda al futuro e all’efficienza degli Enti locali e dei servizi ai cittadini. Il ministro per le Autonomie Roberto Calderoli sta facendo un pressing su tutti i governatori del sud e sta cercando di spiegare come questa riforma sia utile anche per loro. Anche se con qualche sfaccettatura diversa da parte di tutti c’è disponibilità.
–Quali saranno i principali temi su cui verterà la sua candidatura e quali le battaglie saranno prioritarie in caso venisse rieletto? La vision strategica per la Lombardia del futuro ha l’obiettivo di mantenere il suo posizionamento come leader nazionale e di migliorare la propria attrattività internazionale, avendo come punto di riferimento le persone e il miglioramento della loro qualità della vita e agendo su alcuni driver principali: le infrastrutture materiali e digitali, per connettere il territorio in tutte le sue aree e permettere di cogliere le opportunità legate alle trasformazioni tecnologiche anche in un’ottica di transizione ecologica; il sistema dei servizi al cittadino, mantenendo un ecosistema che permetta lo sviluppo delle potenzialità individuali, partendo dal benessere delle persone e sostenendo cittadini e famiglie; gli investimenti sul capitale umano come driver per migliorare competitività e produttività, integrando tra loro le filiere scuola, formazione, lavoro e impresa per garantire lo sviluppo delle competenze del futuro; le strategie di sviluppo territoriale per una Smart Land sempre più connessa e resiliente, potenziando la coesione e l’inclusione sociale e valorizzando il patrimonio paesaggistico e culturale della Regione e, al contempo, garantendo lo sviluppo sostenibile e la protezione delle biodiversità.
-Che opinione ha della possibilità di un ritorno del nucleare in Italia? Credo che il nucleare di ultima generazione sia sicuramente da prendere in considerazione, a patto che sia data ogni tipo di garanzia ai cittadini. Sono ottimista, visto lo sviluppo che sta avendo nel mondo. Viene considerato sostenibile anche da un punto di vista ambientale e infatti l’Europa lo prevede come una delle forme di approvvigionamento energetico.
–Quali sono stati i momenti più importanti del suo percorso politico e quali la hanno formata di più? Sicuramente l’avvicinamento alla Lega. Nella prima fase come osservatore, affascinato dal discorso delle Autonomie. Poi senza dubbio tutti gli incarichi assunti come amministratore, ognuno mi ha dato qualcosa: da sindaco di una piccola cittadina come Induno Olona, a presidente del Consiglio Regionale, a nuovamente sindaco, ma stavolta di una città più grande, a presidente di tutta l’assemblea dei sindaci lombardi e infine l’incarico ancora più impegnativo come presidente di Regione Lombardia.
-Quali sono i riferimenti culturali di Attilio Fontana? Il mio riferimento culturale è stato negli anni della formazione quello del Partito liberale. Mio padre era un simpatizzante e io l’ho seguito. Avevo stima soprattutto per Malagodi.
Spiritismo tecnico. Come le satrapie digitali hanno riscoperto la magia
Di Francesco Subiaco
Magia, potere e alta tecnologia si sono sempre strettamente intrecciati sin dall’origine delle società umane. Stregoni, maghi, alchimisti e cartomanti hanno accompagnato per peso ed influenza scienziati, tecnici e studiosi in tutta la storia del potere. Dalle profezie del consigliere della corona John Dee ai rituali esoterici del regime nazista, dai bagni di misticismo e sciamanesimo del potere sovietico alle witchcraft e alle reti di medium ed astrologi che hanno accompagnato le sfide dell’anglosfera dagli anni 40 in poi, il potere non ha mai abbandonato la sua matrice oscura e rituale della sua origine. Anche il nostro secolo non sfugge a questo legame eterno. La magia, come la tecnologia, si esprime attraverso un linguaggio fatto di metafore ed allusioni, un linguaggio simbolico che come quello della scienza è inaccessibile ai più e incomprensibile ai non iniziati, confermando l’idea dello scrittore Arthur Clarke, che nella sua terza omonima legge diceva che “qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia“. Una visione magica, irrazionale ed alogica che sembrerebbe paradossale nel mondo del razionalismo e del trionfo di una visione scientista se questo binomio di un mondo dalla doppia anima quella superstiziosa, stregonesca e mistica e un altra razionale, tecnica, algoritmica non fosse in realtà soltanto un paradosso apparente. Da questa intuizione parte il saggio di Andrea Venanzoni,“Il trono oscuro”(Luiss Press) che compie non solo una controstoria del rapporto tra potere costituito e magia ed irrazionale, ma allo stesso tempo indaga le pieghe e le contraddizioni di un mondo digitale e virtuale che si nutre di occulto, di mistero, di sigilli. Il mondo del cosiddetto “elettrocene”, l’epoca in cui rotto il sigillo del materialismo l’umanità si riduce a informazione ed a mezzo di condivisione di informazioni, che è caratterizzato da una società dematerializzata dove il virtuale, l’intelligenza artificiale, i social e le nuove scoperte dell’informatica, pongono le fondamenta di una esistenza immersiva in cui reale e virtuali si fondono e in cui la dimensione simbolica, pubblicitaria o esoterica, prende il sopravvento sulla realtà fenomenica. La vita umana sradicata da ogni legame con un ordine terrestre, fatto di comunità, credenze e tradizioni, si rifugia nei paradisi artificiali offerti dalla tecnica, rintanandosi in una vita anestetizzata che fa dell’uomo un feticcio delle sue “conquiste”. La religione, il sacro e l’ideologia perdono peso nelle società modernizzate, ma ad un ordine terrestre che tramonta segue un nuovo ordine, aereiforme ed immateriale, che sorge con le sue ritualità ed i suoi culti, trovando fondamento in una nuova magia hi-tech che è la base di uno spiritismo tecnico, superstizioso ed alchemico, che fiorisce nel bel mezzo del nuovo Eden della civiltà del codice e degli algoritmi. Uno spiritismo che è la sublimazione di una esigenza spirituale che viene surrogata dalla tecnica e dalle sue promesse. Infatti “il paradosso però è davvero solo apparente- dice Venanzoni nel suo saggio- emerge una innegabile centralità della magia nelle maglie sociali del mondo moderno, e tecnologico in particolare: questo processo ha determinato il paradosso di cui sopra, quello di una, solo apparente, espunzione del magico dal campo di azione del moderno a opera della espansione delle logiche tecniche e di progresso, le quali hanno però introiettato nel loro ventre la dinamica costitutiva del magico stesso. Una sorta di cannibalizzazione psichica che prelude alla costruzione di una magia hi-tech. Questo perché all’aumentare della complessità dei processi costitutivi dei fattori tecnologici, della loro sempre più ardua comprensibilità, al rendersi opaco e fantasmatico del linguaggio dei saperi tecnici, corrisponde il necessitato strumento di riduzione della complessità: la magia diventa tool per soluzioni gordiane, per azzerare la difficoltà di risoluzione dei problemi e per far ottenere quanto si vuole, senza, in apparenza, passaggi intermedi”. In questa ottica gli strumenti della tecnica si caricano di significati profondi ed oscuri che resuscitano vecchi miti ancestrali, come il mito di Agartha, e paure archetipiche in una nuova sintesi in cui gli hacker, gli scienziati, i teorici del transumano diventano gli eredi delle funzioni che in passato furono dei maghi, dei corsari, dei santoni, come indagatori e conquistatori di nuove frontiere del possibile, delle possibilità di una altra parte ignota e virtuale. La rete diventa quindi non più solo uno strumento di comunicazione ma un grande subconscio collettivo in cui gli uomini proiettano i propri desideri, i propri sortilegi, facendosi il veicolo perfetto di un nuovo misticismo gnostico che non vuole più connettere l’uomo a dio, ma vuole trasformare l’uomo in una divinità superando i confini del corpo e della terrestrita in nome della singolarità. Un tecnognosticismo che è l’ideologia tacita del mondo della Sylicon Valley, come sottolinea Venanzoni nel suo saggio, poiché, non casualmente, molti dei titani dell’Hi-Tech portano dei marchi di fabbrica simili a sigilli magici: dalla Oracle alla Alphabet passando per la Palantir, moltissime società del digitale, le quali albergano in quella terra cava che è la valle del silicio, tra meditazione trascendentale, misticismo hindu, Zen, occultismo postmoderno con salde radici in California, retaggi della beat generation e della psichedelia, coltivano l’ambizione di plasmare una umanità nuova, che avrà come punto di partenza il superamento della condizione umana forgiata da una vocazione che fonde spiritismo e postumano, Fulcanelli e Neurolink. “Il punto però è che l’ambizione di questo tecnognosticismo della Silicon Valley non è quella di liberare l’individuo dalla sporcizia imperfetta del mondo, ma semplicemente ingenerare una via di fuga in un sottomondo la cui imperfezione rimarrà del tutto palese ed evidente” trasformando la vita in “una mera simulazione, di una sostituzione”. Il mondo si trasforma in una piattaforma immersiva senza confini e senza legami, la rete diventa una cabala elettronica di collegamenti ipertestuali e iperstizionali, le fedi e i culti vengono sostituiti da religioni aziendali e dalla fidelizzazione ai brand, influencer come stregoni e demiurghi creano contenuti immateriali dal valore inenarrabile. Parafrasando quello che scrisse Frazer nel suo “Il ramo d’oro”: “Il selvaggio difficilmente concepisce la distinzione comunemente tracciata dai popoli civili tra il naturale e il soprannaturale/virtuale. Per lui, il mondo è in gran parte determinato da agenti soprannaturali/virtuali, ossia da esseri impersonali che agiscono per impulsi e motivi simili ai suoi, e passibili quanto lui di essere influenzati da appelli alla loro pietà, alle loro speranze, ai loro timori”. Ridotto a feticcio delle utopie transumane l’uomo si trasforma in un selvaggio contemporaneo rinchiuso in caverne di metallo urlante e vittima di spiriti informatici, addotto da sciamani transumani, inconsapevole ed anonimo spettatore di una preistoria ipertecnica. In questo scenario le satrapie digitali dell High tech, divise tra sogno collettivo transumano e deriva libertariana nichilista oscura, scelgono la strada del magico, del simbolico, di una lotta neostregonesca tra tra big state e big tech per ridefinire un mondo in cui l’umano non solo non è gradito ma soprattutto non è richiesto.
Ezio Mauro:”Bisogna servire la cronaca, non rimanere intrappolati in inutili dogmatismi”
Di Francesco Subiaco
Ezio Mauro, direttore di Repubblica per quasi vent’anni, saggista, giornalista è una delle penne più influenti del panorama italiano. La cui carriera costellata di successi e incontri autorevoli ne fa uno dei grandi nomi del nostro giornalismo. Piemontese, classe 1948, Ezio Mauro muove i primi passi ufficiali nel mondo del giornalismo sulla Gazzetta del popolo di Torino, durante la stagione del terrorismo, come uno dei più attenti cronisti degli anni di piombo. Inviato speciale per La Stampa e corrispondente da Mosca per Repubblica diventa in pochi anni la voce del disgelo, raccontando gli anni dello scioglimento dell’Unione sovietica ai tempi della Perestrojka mostrando le mille sfaccettature del crollo delle repubbliche sovietiche. Nel 1996 diventa direttore di Repubblica, subentrando a Scalfari, cercando non solo di continuare quel lavoro di sintesi tra sinistra e valori liberaldemocratici iniziata dal fondatore, ma anche di servire e fare proprio quella identità culturale che è l’anima del giornale. Ha intervistato Putin, Moro, La Malfa, i grandi della storia. Ora, dopo aver lasciato la direzione di Repubblica nel 2016, conduce una trasmissione su Rai 3, “La scelta” inaugurata con una straordinaria quanto discussa intervista a padre Gänswein che promette un interessante seguito. Voce pacata e passione per i viaggi, per Mauro il giornalismo è un mestiere fatto di particolari e di dettagli, che nella cronaca trova un momento essenziale della sua missione. Mostrandoci che in realtà il vero giornalista non è solo chi racconta i fatti, ma chi li rivela
-Per Tre anni lei ha raccontato la grande metamorfosi della Russia Sovietica durante la Perestrojka. A pochi mesi dalla morte di Mikail Gorbacëv cosa resta di questo protagonista di fine novecento?
L’ultima volta che lo vidi gli avevo raccontato che avevo passato una giornata intera con Navalmy; il leader dell’opposizione in Russia, l’uomo che è poi stato avvelenato e imprigionato dal regime di Putin. Mentre gli parlavo dell’incontro con Navalmy, mi guardò e mi disse “vedi che questi sono tutti dei nipotini della Perestrojka, anche se forse non lo sanno, perché il seme che abbiamo gettato allora da anche questi frutti”. Se dovessi formulare un giudizio su Gorbacev devo ammettere che fu sicuramente il leader del disgelo di un mondo pietrificato che sembrava immobile, uno dei personaggi chiave della storia russa, basti pensare che prima di lui c’era Cernenko (un leader che sembra venire da un altro secolo e da una altra storia), ma allo stesso tempo è anche una figura che nel suo paese non è ricordato con favore. Su di lui grava una opinione controversa perchè imprigionata nel paradosso che ha caratterizzato la sua intera azione politica.
–Ovvero?
Che per noi è stato il primo riformatore dell’URSS mentre per i russi è stato invece l’ultimo segretario del partito comunista sovietico.
–E cosa ha pensato quando Putin gli ha negato i funerali di stato? Non mi aspettavo che ci fossero funerali di stato, perché tra i due c’erano dei rapporti molto freddi e distaccati, se non di fatto inesistenti.
–Parliamo di lei. Come nasce la sua vocazione di giornalista? Ho sempre sperato di fare questo mestiere fin da ragazzo ed ho sempre cercato di partecipare a dei “giornali”, sia alle medie, sia durante la mia esperienza al collegio e nel mio paese d’origine. –Che insegnamento la ha formata di più nel suo approccio iniziale al giornalismo? Ricordo quando ero ancora un cronista della Gazzetta del popolo a Torino, uno dei più antichi giornali italiani, e al mio primo articolo mi mandarono a seguire il caso di una donna che era stata gettata nel Po e di scrivere una notizia su questo tema. Andai sul posto, cercai informazioni e poi iniziai, con molta difficoltà a scrivere il pezzo. Mi ricordo un collega passò vicino alla mia scrivania e leggendo le prime righe dell’articolo che avevo appena scritto a macchina mi si avvicinò e mi disse “Auguri”, lasciandomi senza capire se fosse un giudizio positivo o negativo… La sera tardi rimasi in redazione e quando arrivarono le copie del numero su cui c’era, o almeno ci doveva essere, il mio articolo, lo sfogliai immediatamente (era passata da poco la mezzanotte), e cercai alla sezione cronaca il mio articolo. Lo trovai e rimasi molto deluso, perché era stato totalmente riscritto e modificato. Del mio pezzo iniziale c’era poco e niente. Questo evento mi insegnò che avevo molto da imparare, perché potevo scrivere benissimo un reportage o una notizia politica, ma non sapevo ancora confrontarmi adeguatamente con la cronaca, men che meno scrivere una notizia di nera in poche righe, poiché esiste una tecnica, un tatto, una sensibilità per quelle cose che solo con molta esperienza si riesce ad acquisire. Un giornalista non deve mai smettere di mettersi in discussione di essere curioso e di voler conoscere a fondo la realtà che racconta. Un insegnamento che la mia esperienza alla Gazzetta mi ha lasciato molto –Le ha insegnato molto la cronaca? Moltissimo. Mi ha insegnato molte cose, il rispetto per le persone coinvolte, il tatto nel trattare questioni delicate, la capacità di sintesi, la curiosità per le cose di tutti i giorni. Perché, vede, tutti credono che fare cronaca sia solo raccontare i fatti, che la cronaca sia gregaria dei fatti, mentre essa, se fatta seriamente e con scrupolo, rivela la realtà delle cose e delle persone, poiché la realtà è molto più forte e più dura dei preconcetti e dei pregiudizi che si nascondono in ognuno di noi e solo immergendosi nel reale si scopre un mondo fatto di sfumature, di dettagli, una realtà fatta di contraddizioni. Una realtà complessa, ambigua a volte ingiusta, ma vera, oltre l’ideologia e le convinzioni di chi lo racconta. Un giornalista che non crede nei fatti e che ha uno schema ideologico che lo guida non si può far sedurre dalla cronaca e dalle rivelazioni che nasconde la realtà che racconta. Chi inventa non è capace di leggere la realtà, perché i fatti sono molto più forti di tutte le invenzioni di chi li vuole interpretare. Bisogna leggere la realtà, aprirla come un libro e comprendere quello che nasconde di più prezioso: i dettagli. –Per un giornalista i dettagli sono importanti? Sono fondamentali. Mi ricordo una frase che lessi una volta a casa di Nabokov, in un cassetto quando la andai a visitare in occasione di un mio lavoro sul centenario della rivoluzione russa :”soltanto i particolari e i particolari dei particolari, trasformano una storia inerte in qualcosa che merita di essere letta”.
–Anni fa lei intervistò insieme ad una delegazione di giornalisti occidentali Vladimir Putin. Che ricordo ha di quell’incontro e cosa pensa della metamorfosi di questo personaggio Dostoevskijano? È stato un incontro molto lungo e molto orientale. Putin si presentò con 4 ore di ritardo ad un appuntamento con una delegazione di otto direttori di giornali occidentali, tra cui il sottoscritto. Nella lunga attesa prima del suo arrivo riuscimmo a definire con gli altri direttori, all’epoca dirigevo Repubblica, i temi e le domande che volevano porre al presidente della Federazione Russa e convergemmo tutti su un tema principale da mettere per primo: i diritti umani e la questione delle minoranze. Scegliemmo quindi per prima cosa di chiedere a Putin se si volesse impegnare per escludere un atteggiamento duro e repressivo nei confronti dell’opposizione politica una volta concluse le elezioni (eravamo alla vigilia delle elezioni che poi lo avrebbero riconfermato leader del paese) evitando di usare il pugno di ferro contro le minoranze. Gli feci io questa domanda e lui allora mi disse che c’era spazio per tutti nella sua Russia e che non era necessario il pugno di ferro contro l’opposizione, cosa che di fatto smentì soprattutto nei confronti di Navalmy. La prima cosa che mi colpì di lui fu che mentre io gli porgevo la mia domanda sui diritti umani lui rimase in tensione sulla punta della sedia, mentre quando venne il turno del mio collega tedesco, che doveva porgli una domanda sui temi economici, si distese completamente, rilassato, sulla spalliera della sedia. La seconda cosa che mi colpì molto fu che mentre mi presentai prima dell’intervista, gli dissi chi ero e per quale testata scrivessi, mi disse “ho chiesto informazioni su di lei al mio amico Silvio”, sottolineando da una parte l’amicizia tra i due leader, dall’altro una profonda preparazione del leader del Cremlino che non perse nemmeno una occasione casuale per informarsi del suo interlocutore. Ricordo poi che mentre ci salutammo con gli altri colleghi della delegazione, eravamo in una abitazione che ci era stata descritta come residenza di Putin, gli dissi in russo “la prossima volta mi piacerebbe intervistarla al Cremlino” lui mi chiese perché ed io gli risposi che era poiché non avevo mai visto l’ufficio di un segretario generale di Mosca. Lui allora mi guardò e mi disse “perché non viene a vedere la mia partita di hockey che vado a fare con loro” indicando le sue guardie del corpo. In quel momento mi immaginai la copertina de Il venerdì di Repubblica con la foto in primo piano di Putin che gioca ad hockey ed il titolo lapidario:”La maschera di ferro”. Però poi gli dovetti rispondere che a causa di quelle quattro ore di ritardo dovevo correre a scrivere l’intervista per chiudere il numero. Mi sono perso una occasione cruciale per conoscerlo veramente ma dovevo scegliere o la partita o l’intervista e capirà ci sono delle scelte che un direttore a volte deve compiere. –Tra i protagonisti del giornalismo italiano, dalla Russia post sovietica al terrorismo passando per il berlusconismo, quali sono gli incontri che più la hanno formata ed i personaggi che più la hanno colpita? La stagione del terrorismo è stata importantissima per la mia formazione perché per me che all’epoca ero un ragazzo, la definisco come la guerra della mia generazione. Soprattutto perché la vissi in una città come Torino dove passava una frontiera tra il terrorismo e lo stato e poiché come disse una volta l’avvocato agnelli chi non è stato a Torino non può dire di conoscere è stato il terrorismo italiano. Ci si alzava la mattina e si sentiva la radio per capire dove colpivano e che attacchi facevano, ma ogni giorno colpivano, ogni giorno c’erano scontri, attacchi sparatorie, proprio come in una guerra. Ricordo che alla Gazzetta del popolo avevamo una radio che un collega geniale, aveva modificato per permetterci di ascoltare le frequenze delle forze dell’ordine e dei grandi giornali, in modo un po’ piratesco, per permetterci di essere sul posto ogni volta che i terroristi colpivano. Si ascoltava con attenzione le comunicazioni, i discorsi, per correre sul posto prima che i fatti diventassero delle notizie. Veniva messo ad origliare queste comunicazioni di solito il primo arrivato, tra cui anche per un periodo il sottoscritto, e ci accorgemmo che ogni volta che succedeva un attentato un crimine urgente, ma lo avrebbe capito chiunque, quelle frequenze impazzivano e si animavano rocambolescamente. Bisognava solo capire l’indirizzo, per arrivare per primi e cercare di capire cosa stesse accadendo. Di solito eravamo un giornalista e un fotografo o più giornalisti e quando succedeva un evento vicino alla Gazzetta arrivavamo prima delle forze dell’ordine. Mi ricordo di una segnalazione. Era l’ottobre del 1977, le Brigate Rosse avevano compiuto un attacco ad Antonio Cocozzello, consigliere comunale di Torino per la Democrazia Cristiana, che era stato gambizzato alla fermata del tram prima di andare a lavoro. In quel momento capii con i fatti che cos’era il terrorismo, guardando negli occhi la realtà della lotta armata. Pensavo al povero Antonio Cocozzello, mentre lo soccorrevano gli aprirono i pantaloni per cercare di curarlo e si vedeva che indossava un paio di mutande semplici, povere, da mercato. Quelle che poteva aver indossato mio nonno o un signore qualsiasi della campagna piemontese, e mi accorsi che quelle persone con quel delirio ideologico non c’entravano niente, che erano state colpite come maschere di un potere sovranazionale con cui non c’entravano niente, mentre invece erano solo delle persone comuni, ferite e colpite, ricoperte di sangue e lasciate in fin di vita perché erano diventati i bersagli di una lotta che non li riguardava e con cui non c’entravano nulla. –Quali sono stati i grandi incontri della sua carriera giornalistica? I leader politici, Berlinguer, Craxi, Andreotti, De Mita, La Malfa, Moro. Moro ad esempio mi metteva molta soggezione. Una volta mi trovavo di fronte al palazzo della Democrazia Cristiana, lo aspettavo per una circostanza che non ricordo a piazza del Gesù. Io mi ero intrufolato nel palazzo mentre lui entrava e non ricordo come riuscii ad. Entrare nell’ascensore con lui. Mi guardò con due occhi scocciati come a dirmi “non vorrai importunarmi con le tue domande”. Non gli feci nessuna domanda, ero molto in soggezione. Mi ricordo che mi guardò con quel suo sguardo, che mischiava timidezza e riserbo, ma che era capace di suscitare in me molta soggezione. Avevo aspettato almeno un’ora, ma non gli domandai nulla.
–Un momento in cui ha avuto paura e uno che ricorda con gioia? Non credo di aver avuto mai paura, nemmeno durante la stagione del terrorismo, forse per incoscienza più che per coraggio. Ad esempio una volta ero a Torino, durante la mia collaborazione con la Gazzetta del popolo, all’epoca finivano molto tardi e mi ricordo che mentre tornavo a casa avevo visto due ragazzi che amoreggiavano davanti casa mia. In quel momento un preoccupato decisi di rifare il giro, lo feci almeno sei, sette volte, forse anche di più, perché non mi sentivo tranquillo. Dopo poco tempo se ne andarono. Evidentemente erano solo dei ragazzi che cercavano di stare tranquilli per un po’. Però nemmeno in quel caso provai paura, anche se sicuramente c’era molta insicurezza a causa del clima di Torino in quegli anni. Solo chi ha vissuto a Torino quel periodo può capire veramente cosa è stato il terrorismo. Più che paura nella mia carriera ci sono stati dei momenti in cui ho temuto di non riuscire a leggere la lezione dei fatti in maniera corretta, di non avere una bussola per il giornale o di fare un errore. Sono momenti che capitano nella vita di un direttore di giornale, hai dei dubbi, non comprendi la realtà nitidamente, esiti perché vedi le cose in maniera poco chiara o non molto definita, hai paura di non comprendere la realtà, di fare degli errori. E allora aspetti, cerchi di capire ma non puoi aspettare, devi guidare un giornale, e hai l’obbligo di decifrare la realtà… delle persone dipendono da te, si fidano di te e tu gli devi una risposta devi sapere cosa è giusto fare, perché hai il compito di dare rotta e di tenere il timone del giornale. Questi dubbi sono tipici della solitudine di chi guida un grande giornale. In questi casi provai molta inquietudine, ma mi aiutarono molto due cose. Le lezioni dei fatti e l’identità del giornale. Sono queste le coordinate che mi hanno sempre aiutato cercare di essere lucido rispetto alla realtà e cercare di essere coerente con l’anima del giornale che dirigevo. In certi casi la realtà però è complessa e non si riesce a capire il vero volto delle cose, tutto sembra inafferrabile, queste sono le problematiche che affollano la solitudine di un direttore di giornale. –E cosa la aiutata a superare queste problematiche? L’aiuto dei colleghi, il confronto con gli altri, l’ascolto. Tenendo sempre presente la cultura del giornale, poiché è l’identità del giornale di cui fai parte, è una lente che ti aiuta a comprendere la realtà. Il buon giornale nasce dall’incontro dei fatti che urtano e irrompono nell’attualità e la cultura del giornale che determinano la scelta che compie chi dirige e chi scrive. –Ed il momento più bello? Penso ogni volta che ho sentito muoversi il giornale nel suo insieme, come una squadra o una forza intellettuale capace di comprendere e rivelare la realtà, quando tutte le voci le idee e le sensibilità delle persone che compongono un giornale si muovono in maniera univoca, come in una sinfonia. Se vuole un esempio definito invece le dico uno scherzo che mi fecero alcuni colleghi. Una volta andammo a cena con mia moglie e le segretarie di direzione. Finita la cena mi hanno detto di andarci a prendere un caffè all’interno del locale e mentre entrammo trovai una festa con tutti i colleghi di Repubblica. C’erano tutti i colleghi, Eugenio Scalfari, Carlo De Benedetti, mia figlia e anche alcuni colleghi che erano venuti a Roma appositamente per questa festa a sorpresa per me. Sono rimasto frastornato, ma anche molto felice. –
–Dalla segreteria blairiana del PD al governo draghi, che giudizio trae dal percorso politico di Matteo Renzi? Penso che se un leader politico ha l’onore di guidare la sinistra italiana contro la destra, di essere presidente del consiglio per quella forza politica, se messo in minoranza non debba uscire da quel campo politico formando una forza antagonista a quella che ha rappresentato in precedenza, ma deve continuare a testimoniare le sue posizioni politiche dentro quel partito. È un vincolo prima morale che politico. E questo è un discorso che vale sia per Renzi, che per D’Alema e per altri ancora. –Quali sono i Riferimenti culturali. Il Pantheon di Ezio Mauro ? Non lo so. Io non credo di avere un Pantheon che ha guidato la mia formazione, ma piuttosto di aver compiuto una ricerca, una continua ricerca che ha attraversato tutta la mia formazione e che continua tuttora. Un punto cardine sicuramente è stato Norberto Bobbio. Sa a noi piemontesi ci hanno sempre preso molto in giro per la faccenda del cosiddetto “azionismo torinese”, come se fosse un vizio o un difetto. In realtà l’azionismo fu un tentativo più culturale che politico di emancipare la sinistra italiana dai suoi ritardi, dai suoi errori, ed anche dagli orrori della sinistra nel mondo, coniugandoli con i valori liberali. Un tentativo fallito a livello politico, pensi ai risultati deludenti del Partito D’Azione, ma che ha lasciato una inesauribile testimonianza culturale di questo spirito di riforma e di che abbiamo cercato di portare a Repubblica con Eugenio. Lui veniva da una educazione liberale che ha conciliato con la sinistra mentre io da una formazione di sinistra che ho riletto alla luce dei valori del liberalismo. Un esperimento ed un tentativo culturale che abbiamo cercato di portare avanti e che non è ancora concluso perché credo che questo spirito sia l’unica strada per mettere la sinistra italiana al servizio del paese. Credo a livello letterario la letteratura russa e nello specifico Michail Bulgakov, soprattutto Il maestro e Margherita.
–Che ricordo ha di Scalfari e che cosa le manca di lui? Mi manca soprattutto il rapporto umano che avevo con lui. Lo dicevamo sempre, pur non avendo la stessa formazione politico culturale, ci siamo trovati nel giornalismo e nel rispetto del comune DNA di Repubblica. Lui perché lo ha inventato, io perché lo ho servito e lo ho rispettato, perché solo rispettandolo lo ho potuto vivere ed adattare tenendolo al passo con i tempi. Lui mi veniva sempre a trovare nel mio ufficio, fumava, anche se non si poteva, e parlavamo. Parlavamo di tutto, dell’attualità, del passato, della fondazione di Repubblica, oppure semplicemente cazzeggiavamo, poi Eugenio era un grande raccontatore ed era sempre bello sentirlo parlare soprattutto del passato e dell’identità di Repubblica. Mi interessava sempre sapere e capire meglio il rapporto con Carlo Caracciolo perché pure prima di arrivare a Repubblica mi interessava capirne l’identità profonda.
Guzzanti: “Né di destra, né di sinistra. Sono un liberale”
Di Francesco Subiaco
Irriverente, lucido ed istrionico, Paolo Guzzanti è una delle penne più affilate del giornalismo italiano, collaboratore de Il giornale e Il riformista, saggista, politico e autore di testi cruciali sulla politica italiana e i suoi protagonisti. Da Berlusconi a Evangelisti, da Cossiga a De Benedetti, Guzzanti ha raccontato le scene e i retroscena dei protagonisti della politica italiana, indagando l’attualità con articoli incisivi ed una longeva attività politica che lo ha portato ad affrontare le ombre che si nascondono dietro agli scandali della politica dei partiti, dietro le influenze sovietiche nel PCI. Da presidente della commissione Mitrokhin ha mostrato il lato oscuro e inconfessabile del comunismo italiano. Nel suo ultimo libro, “La Maldestra” ha raccontato i vizi e le virtù del centrodestra italiano mostrandone i difetti ancestrali e le possibilità future, mostrando una visione liberale integrale, antagonista ai totalitarismi e alle loro seduzioni ispirata a Winston Churchill, personaggio su cui sta scrivendo un nuovo testo per sottolineare l’essenza dei valori liberali che posizionano tale visione nell’ambito di uno scontro durissimo tra democrazie liberali e autocrazie nazicomuniste all’inizio della WW2 fino alla guerra in Ucraina. Per parlare del suo percorso giornalistico e del suo pensiero abbiamo deciso di intervistarlo nel suo studio, tra i quadri da lui dipinti e i ricordi della sua splendida carriera di giornalista.
–Aldo Cazzullo ha scritto che si sta prefigurando una cultura di destra libera e divina rappresentata da Paolo Guzzanti, Camillo Langone e Giampiero Mughini. Si ritrova in questa definizione? No, assolutamente no. Sono molto amico di Aldo Cazzullo, ma non mi trovo d’accordo con lui su questo tema perché io non sono di destra o di sinistra, io sono un liberale e credo che quando si è liberali veramente lo si è in toto. La distinzione tra destra e sinistra viene dopo le rivoluzioni gemelle fascista/nazista e bolscevica/comunista. Due ideologie la cui natura segna la totale opposizione tra le liberaldemocrazie e i crimini dei totalitarismi gemelli. Le stragi, le deportazioni, i campi di sterminio sono la cifra di cosa sono stati i totalitarismi nazifasciocomunisti, fratelli separati in mostruosità che metto sullo stesso piano come i veri nemici delle democrazie occidentali e quindi del liberalismo. Entrambe, infatti, sono ideologie mostruose, ma con una aggravante, nel caso del nazismo, che riguarda quell’abominio morale che fu la Shoah, che fu interrotto solo dalla sconfitta durante la seconda guerra mondiale sennò avrebbe raggiunto i numeri, ampiamente superiori rispetto al nazifascismo, del comunismo, che intendo nella sua forma più ampia (cubano, stalinista, iugoslavo, cinese), come una fede politica che ha insita nella sua conformazione una visione totalitaria e criminale, come del resto la sua rivoluzione gemella. Per questo i liberali non hanno nulla a che fare con i nazifascisti, di destra, né con i comunisti, di sinistra, ma sono liberali e basta. Churchill, conservatore, anticomunista e antifascista, era un vero liberaldemocratico perché durante la guerra osteggiò queste due pestilenze della storia in ogni modo. -Ma Churchill non era un conservatore oltre che un liberale e quindi un uomo di una altra “destra”? Se consideriamo di destra Churchill allora io posso definirmi “di destra” ma ciò esclude ogni attribuzione a questa definizione di quella robaccia postfascista. Per me quindi i liberali sono liberali e basta.
–Perchè definisce le rivoluzioni dei totalitarismi “gemelle”? Perché sono due facce dello stesso volto. Se cerchiamo nei libri di storia russa e sovietica, soprattutto, un evento come la seconda guerra mondiale non ne troveremmo traccia. Leggeremmo invece di un evento molto particolare: “La grande guerra patriottica”. Un momento del novecento in cui l’alleato dell’Urss, la Germania di Hitler, si è rivoltato contro il popolo russo tradendo il patto di alleanza che avevano firmato negli anni 40. Un tradimento che portò Stalin ad abbandonare l’alleanza militare ed ideologica con Hitler per scegliere un accordo militare e strategico con le democrazie occidentali. Fino a quel momento tutti i comunisti del mondo, su indicazione del Cremlino e di Stalin tramite i suoi comunicati sulla Pravda, hanno tifato per Hitler affinché vincesse la guerra minando l’integrità “dell’imperialismo angloamericano e portando alla sconfitte le borghesie plutocratiche occidentali”. Solo i socialisti si opposero a questa alleanza ideologico-militare e per questo furono attaccati ed etichettati come socialfascisti. Tutte le forze di sinistra dopo l’aggressione nazista cambiarono radicalmente la loro posizione, passando da un pacifismo filonazista ed antioccidentale, ad un forte interventismo, ma quella mutazione a mio avviso fu solamente strategica e non ideologica, tanto che chiusa la seconda guerra mondiale l’opposizione al liberalismo e alle democrazie continuò durante la Guerra Fredda manifestando quanto entrambi questi mondi fossero equivalenti nella loro avversione agli ideali liberali. La cosiddetta guerra fredda fu nient’altro che la continuazione della seconda guerra mondiale contro l’Occidente con altri mezzi. Una minaccia equivalente a quella nazista come sostengo in un libro che sto scrivendo sul tema. I sovietici non a caso hanno sempre alimentato il mondo dei naziskin e dell’eversione nera contro l’occidente. –E i liberali? Sono un mondo opposto a queste ideologie. Noi liberali siamo i nemici di costoro, e lo siamo perché loro stessi ci hanno dichiarato più volte una guerra senza quartiere. Ma il liberalismo non è solo il voto, tutti i maggiori paesi possono votare. Votano in Cina, in India, in Russia, in Pakistan e non c’è nulla di più comune di una democrazia autoritaria che conferma un governo antidemocratico. Cosa avrebbero fatto gli italiani nel 1936 se avessero potuto votare, probabilmente avrebbero confermato il regime fascista, perché non è solo il voto che definisce le liberaldemocrazie, ma sono la libertà e la concorrenza. La possibilità pluralista di fare scelte differenti, di avere visioni anche contrapposte, che sono la conseguenza della concorrenza e della libertà di scambio senza cui non ci può essere una vera libertà. Una concezione che purtroppo capii nella mia vita un po’ troppo tardi.
–Lei quando divenne un liberale? Gradualmente. Io venivo dal Partito Socialista e quando il PSI si sciolse c’erano due opzioni o andare con i postcomunisti o partecipare a quella ventata di grande rinnovamento portata da Berlusconi con Forza Italia, a cui aderirono Lucio Colletti, Giuliano Ferrara e Marcello Pera ad esempio. In quello scenario si sentiva una forte esigenza per il paese di portare liberalità alla società italiana e aprirla ad una nuova visione del mondo, questa condizione non poteva appartenere ai postcomunisti che in tutto il loro passato non erano stati in grado, pur volendo, di dire di no all’Unione sovietica in nessun momento della loro storia e anche dopo la caduta del Muro hanno deciso di opporsi a questa idea di liberalizzazione della società.
–E che ne pensa di quel mito del Pci, come di un partito libero e pulito, contro la corruzione e i suggerimenti atlantici, descritta dal clero post comunista? Nulla di più falso. Prima di tutto il PCI ha sempre votato e deciso seguendo le indicazioni del Komintern e di Mosca, pur non volendo in alcuni momenti. In secondo luogo tornando alla questione morale dei comunisti c’è da dire che in Italia solo un partito era autorizzato ad avere un ingente e irregolare finanziamento illecito, ovvero il Partito comunista. Il PCI si riforniva irregolarmente e illecitamente ogni anno di sontuosi e abbondanti finanziamenti, come disse e spiegò più volte l’ex presidente della Repubblica Cossiga. La procedura era la seguente: un alto funzionario comunista partiva da Roma con una valigetta vuota verso Mosca; arrivato a Mosca si incontrava col signor Ponomarëv con cui conversava amabilmente di fronte ad una tazza di tè caldo, mentre alcuni funzionari del PCUS riempivano di dollari la suddetta valigetta; tornato a Roma due agenti del tesoro americano controllavano che i dollari portati da Mosca fossero validi e veri, per evitare l’immissione di dollari falsi e contraffatti nel mercato, e verificata la qualità del denaro riprendevano l’ultimo aereo per tornare negli States; a quel punto due alti notabili dello stato, tra cui una volta lo stesso Cossiga, accompagnavano l’emissario del Pci in Vaticano, dallo Ior, per farsi cambiare il denaro importato in valuta nazionale. Tutti gli altri partiti lo sapevano e per tale motivazione anche loro si rifornivano in maniera illecita. Tangentopoli poteva essere scoperta già a fine anni settanta ed anzi io, per caso, riuscii a mostrare il mondo che sarebbe salito alla ribalta con Mani Pulite già nel 1979, proprio con una notizia che raccontava l’ambiente del potere della Prima Repubblica in relazione con i finanziamenti illeciti.
–Allude al caso Evangelisti che raccontò ai tempi di Repubblica e che portò anche in teatro? Esattamente –Ci può raccontare come è andata? Andai ad intervistare l’allora Ministro della Marina Mercantile Franco Evangelisti, perché Eugenio Scalfari voleva avere una risposta o una smentita, se vogliamo, di un accusa, mossagli da L’Espresso, nel suo coinvolgimento in attività illecite riguardanti la marina mercantile. Era il 1979 ci incontrammo al ministero e nonostante fosse la prima volta che ci incontrassimo lui mi accolse calorosamente con il suo accento marcato romanesco e mi disse “A Pa’ viè qua” io allora mi avvicinai con il taccuino in mano per segnare la sua dichiarazione al che lui mi guardò e mi disse “ma che fai lascia perde leva sto coso, prima te devo da Er background per farti capire de che stamo a parla” ed inizia a raccontarmi come funzionava la politica dei partiti. “A Pa’ qui avemo rubato tutti” e descrisse quello che era il mondo del finanziamento del sistema dei partiti, il famoso “a Fra che te serve?”. Lì mi sembrò di sognare, il braccio destro di Andreotti, ministro dii un governo, mi stava raccontando il dietro le quinte del potere democristiano, le chiamate, i contatti, le relazioni. In quel discorso era tutto nero su bianco. Finito di parlarmi informalmente mi disse “mo puoi tirare fuori quel coso” e mi iniziò a dare istruzioni su cosa dire, che domande fargli e che risposte scrivere. Io tornato in redazione però non scrissi nulla di questo, ma trascrissi il reale contenuto dell’intervista. La feci pubblicare in fretta senza farlo passare per troppe mani. Il giorno dopo scoppiò il pandemonio, con dodici anni di anticipo avevo raccontato il volto segreto della politica dei partiti che solo DOPO Di Pietro e il pool di Milano mostrarono, e lo sa cosa successe? –Cosa? Niente. Nonostante il ministro fu costretto a dimettersi per le verità che aveva rivelato, ovvero che sia all’opposizione che al governo tutti i partiti si nutrivano di aiuti esterni, di ambiguità col mondo imprenditoriale e con altre nazioni, l’opinione pubblica non si indignò per la fonte illecita dei finanziamenti ai partiti, ma per il modo in cui tali fatti venivano raccontati. Fu più l’arroganza e la spavalderia romanesca di Evangelisti che la verità che raccontava a costringerlo a dimettersi ed ad avviare il suo declino politico. Per l’opinione pubblica era normale ricorrere ad aiuti “esterni” per fare politica, “la politica ha i suoi costi” dicevano, la cosa che li scandalizzava era che un ministro della Repubblica parlasse in quel modo, si comportasse così di fronte ad un giornalista, del resto non importava niente a nessuno, un po’ di clamore e poi si tornò per altri dodici anni alla normalità. Quell’evento mi colpì molto dopo averci riflettuto successivamente poiché mi rese chiaro la natura di Tangentopoli. –Ovvero? Che Tangentopoli fu una grande operazione di sostituzione della vecchia classe dirigente della prima Repubblica, che aveva esaurito il suo compito con la fine della guerra fredda, con quei bravi ragazzi del polo post comunista, molto più affidabili dei vecchi democristiani e dei vecchi socialisti, inaffidabili e ambigui. Poi arrivò Berlusconi e con un tentativo unico di rivoluzione liberale, con un partito nato in pochi mesi, scompigliò le carte del mazzo cambiando la rotta del nostro paese.
Che giudizio trae di Silvio Berlusconi? Lui è stato un eroe. Uno degli uomini più ricchi del mondo che al posto di crogiolarsi nel proprio successo ha deciso di dedicarsi alla politica e di iniziare un percorso di profonde riforme e innovazioni del paese che lo hanno portato a sfidare la macchina da guerra del centrosinistra, e ad impedire, da solo contro tutti, di trasformare il PCI, forte del suo sostegno statunitense, nel partito egemone dell’establishment italiano. Una impresa eroica che gli è costata processi, attacchi, campagne d’odio ed attentati per cercare di avverare una rivoluzione liberale. Ha cambiato il corso della storia ed ha impedito ad una banda di clericali e dogmatici, figli della peggiore sinistra e della peggiore DC, di dare il colpo di grazia a questo paese. Umanamente è una persona deliziosa, politicamente ha fatto degli errori e delle cose giustissime, ma non voglio parlare dei suoi errori perché ne parlano tutti, anche con estrema precisione ed in maniera esigente, abitudine che purtroppo non vale per altri personaggi con minor meriti e maggiori errori.
–Per lei cosa vuol dire quindi essere veramente liberale? Vuol dire garantire la libertà di scambio, di merci, di idee, di informazione. Non è solo il voto o la possibilità di essere ricchi, quanti oligarchi russi, mandarini del partito comunista cinese e gerarchi fascisti erano ricchissimi e pieni di soldi?, ma la possibilità di essere liberi di garantire la libertà di scambio, di poter fare affari con chi si vuole e quindi in sostanza di non avere la libertà come un privilegio concesso dall’alto per pochi. Per questo i liberali sono inconciliabili con la visione nazifasciocomunista.
–Ricorda quando si avvicinò nettamente al pensiero liberale? Probabilmente con Cossiga che ha risvegliato in me una visione liberale e durante il mio soggiorno nei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Un giorno, quando era presidente della Repubblica, Cossiga mi chiamò la mattina presto a casa, tanto che mio figlio ancora bambino si impressionò e mi chiese cosa avessi fatto a Bush (per lui il presidente era infatti quello americano) per meritarmi una sua chiamata. Mi chiamò e mi disse “Lei cosa sa sui Cattolici liberali in Italia?” ed io non ne sapevo nulla e così mi invitò ad un convegno in cui si parlava di Cavour e dei liberali italiani, quello fu un primo approccio al liberalismo che ritengo fondamentale. Anche se devo dire che non apprezzo molto Benedetto Croce per la sua umiliazione della scienza e della psicanalisi. Poi in generale sono molto critico verso la scuola hegeliana, perché penso che i problemi del pensiero novecentesco nascano tutti da Hegel e dalla sinistra e dalla destra hegeliana, pensiamo a Marx, al fascismo, al nazismo.
Chi sono stati i suoi maestri e riferimenti? Sono stati i protagonisti della storia che hanno sfidato la guerra per difendere la libertà, come Winston Churchill. Perché chi è liberale è una persona intransigente nel difendere libertà anche a costo della guerra. Sicuramente sono stati i miei maestri gli autori del pensiero liberale. I grandi incontri della mia vita, Cossiga, ma anche Scalfari.
–Che ricordo ha di Cossiga? Io all’epoca ero un giornalista de La stampa e in quel periodo tutti erano incuriositi di questo presidente che tutti definivano pazzo e allora Ezio Mauro mi disse di andare a Gela per un evento in cui presenziava Cossiga. Io allora andai a Gela e il giorno dell’evento ero insieme ad una schiera di giornalisti di varie testate ed aspettavamo l’arrivo del presidente della Repubblica. Ad un certo punto arriva Cossiga, che io non conoscevo, ma che aveva potuto vedermi in una puntata di una trasmissione, chiamata Harem, in cui parlavo di mia figlia Sabina, all’epoca non ancora famosa, che faceva l’accademia di arte drammatica. Cossiga mi vede e si stacca dalla delegazione presidenziale e si dirige verso la flotta di giornalisti e si avvicina a me. Io allora incredulo mi guardo intorno e cerco di capire verso chi si stia dirigendo, fino a quando lui si dirige verso di me, mi prende sotto braccio estraendomi dalla schiera, strappandomi la giacca tra l’altro, verso il palco mentre mi dice col suo inconfondibile accento: “Non sapevo sua figlia facesse l’attrice” e mi trascinò sul palco dove eravamo io, lui e il sindaco di Gela. Lì fece un discorso contro Giorgio Bocca, in difesa dell’arma dei carabinieri, erano i tempi dell’uno bianca. Allora raccontai quello che aveva detto, che impressione mi fece, ma non scrissi quello che era comune nell’opinione pubblica, ovvero non dissi che era pazzo come tutti dicevano allora, rompendo un patto sacrale che si era creato nel panorama giornalistico italiano, attirandomi le ire e l’odio dei decani dei massimi giornali, primo fra tutti Repubblica. Cossiga saputo dell’accaduto mi invitò ad un usanza che non conoscevo, la colazione al Quirinale alle 7. Li arrivai e trovai Cossiga circondato da tutti giornalisti di sinistra, del Manifesto e dell’Unità soprattutto, con cornetto e cappuccino.
–Perché di sinistra proprio? Perché gli piaceva, perché vedeva i comunisti come una banda di galantuomini con cui si era costretti ad essere avversari ma che trattava col massimo rispetto. Non a caso, da cugino di Berlinguer, diceva sempre “con i comunisti si mangiava l’agnello la domenica di Pasqua”.
–E invece del suo periodo a Repubblica? Ma è vero che licenziava i colleghi con la voce di Scalfari? Non proprio. Più che altro facevo una ottima imitazione della voce di Scalfari e con altri colleghi ci divertivamo a fare degli scherzi in redazione. Ad esempio chiamavo con l’interfono Barbara Spinelli con la voce di Scalfari e gli dicevo “Barbara puoi venire un attimo in ufficio?”. Lei andava in ufficio da Scalfari e gli chiedeva “Dimmi Eugenio” lui la guardava e gli diceva “guarda non mi sembra di averti chiamato”. Allora aspettavo che ritornasse in ufficio e poi la richiamavo “Barbara scusami mi sono ricordato che ti volevo dire”. E reiteravo questo scherzo. il licenziamento era invece una cosa che feci solo una volta ad un collega con cui non avevo splendidi rapporti. Lo chiamai, lui era un livornese, e con la voce di Scalfari gli dissi “Il giornale come vedi non va bene, stiamo perdendo copie e le notizie non sono più brillanti come un tempo, queste sono cose di cui sei tu responsabile”, lui allora prova a giustificarsi e a dirmi “Che devo fare, come posso cambiare?” Ed io inesorabile gli risposi “Ma che puoi fare, non puoi fare niente, è un processo irreversibile. Se vai al sesto piano trovi l’ingegner Piana con pronta la tua liquidazione”. Invece se devo pensare ad un giudizio su quel periodo devo ammettere che Repubblica in una prima fase era la speranza di una certa sinistra liberalsocialista, radicalsocialista, comunista dissidente, azionista, che poi naufragò con l’avvicinamento al PCI e con la fusione con Paese sera anche se fu un periodo per me altamente formativo e pieno di nuove e fondamentali esperienze.
I personaggi cardine della tua vita? Scalfari sicuramente poichè mi permise di viaggiare in giro per il Medio Oriente e nei paesi post comunisti poco dopo la fine del patto di Varsavia oppure affidandomi servizi letterari come quelli sul carteggio dei Fratelli Verri, e con queste letture e questi viaggi mi hanno permesso di avere una università di fatti e di esperienze che mi hanno permesso di conoscere il mondo oltre le lenti dell’ideologia. Mio padre che era un razionalista e un liberale e mi ha formato moltissimo e sicuramente Francesco Cossiga.