La chiocciola sul pendio. La distopia kafkiana dai contorni fiabeschi dei fratelli Strugackij
Di Francesco Subiaco
È una fiaba nera e macchinina quella scritta dai fratelli Arkadij e Boris Strugackij, nel 1966 e ripubblicata oggi in Italia con il titolo simbolico e misterioso de “La chiocciola sul pendio”, edito Carbonio editore. Un romanzo tra distopia e parodia in cui i due scrittori sovietici dimostrano di sapere come pochi mischiare le atmosfere degli spiriti del folklore russo e gli incubi totalitari di Orwell e Huxley, il fascino soprannaturale di Bulgakov e le prigioni burocratiche dei romanzi di Franz Kafka. “La chiocciola sul pendio”, magistralmente tradotta da Daniela Liberti, segue le vicende di due personaggi tra loro complementari, Perec e Kandid, che abitano un mondo apocalittico e totalitario che mischia foreste stregate biomorfe e possedute con prigioni burocratiche e asfissianti. Il mondo chiuso impenetrabile della burocrazia del “Direttorato”, simbolo della pervasività del potere statale, fatto di questionari, tesserini, permessi, carteggi e lasciapassare con quello selvaggio, informe e sciamanico delle selve biomorfe ed animiche degli incubi dei kulacki distopici della “Foresta”. Due mondi che si intrecciano fondando una allegoria macabra, distopica e satirica, che riflette sul rapporto tra individuo e società e su quello tra uomo e Natura. Un conflitto riassunto dall’azione del Direttorato per la foresta, il cui controllo tecnocratico è esercitato anche sui propri subalterni, che vuole agire e colonizzare la foresta, mentre essa si ribella a questi tentativi di intrusione del potere umano. Il romanzo segue una trama sinottica che alterna capitoli incentrati su Perec a quelli concentrati su Kandid. Due personaggi le cui vicende non solo incarnano i conflitti dell’uomo in un mondo incontrollato e caotico, ma le cui riflessioni e ossessioni diventano il pretesto per spunti filosofici, dilemmi sul sottosuolo dell’uomo e quesiti etici sull’essenza e sull’esistenza dell’individuo, il potere, il progresso e la forza della Natura. Sono due fratelli separati Kandid e Perec, complementari e diversissimi, tormentati e disorientati le cui vite si intrecciano pur mantenendosi estranee, seguendo gli stessi percorsi esistenziali, senza però incontrarsi mai se non come aneddoti o voci di sottofondo. Il primo è un giovane biologo, (il cui nome dal sapore volterriano riassume l’innocenza e il disincantato che si alternano nella vita di questo Candide distopico) che lavorava per il Direttorato della foresta, l’autorità responsabile di amministrare la foresta e da cui a un certo so distacca attraverso una rocambolesca fuga in elicottero finita tragicamente, che sopravvissuto allo schianto dell’elicottero avvenuto tre anni prima, ha temporaneamente perso la memoria ed è stato accolto tra le rurali popolazioni della foresta condividendone gli strani costumi e sposandone una dei membri, Nava. Una coesistenza che inizialmente si rompe quando Kandid riacquista la memoria e tenta di ritornare ad una civiltà, descritta vagamente come Città, che si trova oltre la foresta e che vuole raggiungere. Perec, invece, è un linguista e filologo che si trova inspiegabilmente nel Direttorato, sul pendio che da sulla foresta, una struttura kafkiana, dalle regole e dalle procedure enigmatiche, in cui è “prigioniero” della routine e dalla liturgia della burocrazia che sovraintende alla foresta e da cui vuole fuggire. Due vicende parallele che si inseguono ed alternano nella “Chiocciola sul pendio” costruendo il ritratto fantasmatico di un mondo oppressivo e caotico, velato di menzogna e governato da forze naturali e statali mosse da regole assurde e desideri faustiani che rinchiudono il singolo in una prigionia totale, senza pareti, senza via di uscita. Un’opera che, come hanno sottolineato gli stessi autori, più che alla fantascienza appartiene alla “fantacoscienza”, ossia ad una forma di letteratura proibita e allegorica (tamizdat) che non vuole solo divertire il pubblico, ma mostrare le inquietudini e i turbamenti dell’uomo moderno attraverso miti sci-fi che usano la distopia e gli elementi magici solo come pretesto o come maschera contro le angherie della censura sovietica. “Il Direttorato” è, infatti, una fortezza Bastiani in salsa sovietica, in cui gli uomini sono oppressi da un Moloch burocratico e tecnocratico che ne annienta la personalità e lo spirito soffocandolo dietro prigioni di scartoffie e procedure insensate in cui il coro delle voci, dei funzionari, delle circolari sommerge l’individuo come in un romanzo di Kafka, tra il Castello e Il Processo, o una trama di George Orwell. La “Foresta”, da par suo è invece l’esplosione dell’irrazionale, del soprannaturale, del magico sulle mire razionali e securitarie del Direttorato, una selva biomorfa e mostruosa abitata da streghe, sirene, macchinari steampunk, e popoli rurali arretrati e isolati del mondo che sono oppressi dalle leggi assurde delle forze primordiali della terra e dalle usanze coloniali degli uomini “civilizzati”. Ma è proprio tra questi due non luoghi che i fratelli Strugackij inscenano i drammi dell’animo umano, la desolazione della società sovietica, la solitudine e lo smarrimento individuale in una sintesi unica degna di quella tradizione russa che annovera tra loro i Lermentov, i Gogol, i Bulgakov. “La chiocciola sul pendio” è infatti come la versione fantascientifica del Castello di Kafka girata da Elio Petri, come un incubo di Tarkovskij dopo aver letto i romanzi di Philip K. Dick e le fiabe del folklore russo. Un romanzo denso di simboli, di citazioni, di momenti poetici e altamente filosofici che sembra la sintesi perfetta tra “Neon Genesis Evangelion” e il “Maestro e Margherita”, un allucinazione cyberpunk e il diario proibito di un prigioniero politico del regime sovietico, che non vuole solo irridere, mostrare e disvelare le prigioni dell’uomo moderno, ma mostrare la storia di ogni uomo che vive una lotta impari contro le forze naturali, soprannaturali e innaturali che lo opprimono. Una lotta che vivono Perec e Kandid, il cui destino è simile a quello della chiocciola che cerca di scalare il pendio, lentamente ed oppressa da mille difficoltà, del monte Fuji senza riuscirci. Rileggere i fratelli Strugackij, non vuol dire quindi solo leggere un capolavoro della fantascienza novecentesca grottesco e magico che nulla ha da invidiare a Stanislav Lem o Isaac Asimov, ma scoprire, o riscoprire, due tra i maggiori narratori del secondo novecento russo.
Per Sossio Giametta la filosofia è la terapia dell’essere umano, un farmaco capace di portare ordine e dare un senso ai grandi dubbi che tormentano l’umanità senza scadere né nelle religioni delle illusioni né nelle illusioni delle religioni, attraverso domande che decostruiscono i miti dell’antropocentrismo, delle utopie dei totalitarismi, delle finzioni sulle sorti magnifiche e progressive dell’umanità, e che sono il vero bagaglio del filosofo. Per tali motivazioni Sossio Giametta è un vero filosofo e non uno storico o un pedante divulgatore del pensiero, poiché con il suo percorso intellettuale ha prodotto un corpus filosofico capace di sfidare i pregiudizi del tempo, di affrontare i temi del presente con il metro dell’eterno, di non essere solo l’ombra dei pregiudizi del tempo, ma una voce dei grandi turbamenti dell’individuo, che non solo risolve, ma vive, affronta e rilegge in modo unico nei suoi testi. Un’opera che lo pone come l’ultimo vero maestro del sospetto della nostra epoca. Un maestro capace di delineare il nucleo di una idea filosofica in grado di rispondere al più urgente tema della filosofia contemporanea: “come si può pensare il mondo dopo il cristianesimo?”. Questa domanda trova risposta nella filosofia dell’ “essenzialismo-organicismo”, una visione argomentata già nella Trilogia dell’essenzialismo” (composta dal Bue squartato, L’oro prezioso dell’essere e Cortocircuiti) e nello splendido Codicillo, in cui declina i massimi problemi del pensiero in minimi spazi ed in cui si ritrovano le idee e le scoperte che poi verranno riprese e sviluppate nel Caleidoscopio, nei commentari filosofici dell’opera di Nietzsche e nei suoi ultimi scritti. Scritti che affrontano la filosofia dei grandi maestri del sospetto della storia, come Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche nel piccolo, ma densissimo, “La filosofia di Spinoza e il duello con Schopenhauer e Nietzsche” (Bollati Boringhieri) dove Giametta confronta la filosofia del massimo filosofo con gli affondi del dinamitardo Nietzsche e del pessimista Schopenhauer, la cui filosofia non solo ha decostruito il mito antropocentrico e cristiano ma ha formulato l’idea di una filosofia capace di andare oltre il fanatismo e gli antidoti delle illusioni cristianesimo. Una filosofia che si fa racconto e narrazione nel romanzo più riuscito di Giametta, “La gita di Ognissanti”(Olio officina), in cui l’autore, critico del 68 e le illusioni della modernità, demolisce i tabù e le chiusure di un establishment intellettuale di stampo marxistico e dell’inquinamento ideologico con cui il comunismo ha contaminato la cultura e in cui è presente, inoltre, una interessante stroncatura di Pasolini. Opere in cui Sossio Giametta si mostra come un vero Mago del sud, (come suggerisce il titolo dell’omonima antologia critica sul filosofo frattese curata da Marco Lanterna), che ha ripagato bene i suoi maestri, Spinoza, Croce, Bruno e Colli, non rimanendone solo un allievo, bensì diventando a sua volta un maestro. Il maestro di una grande filosofia capace di ripensare la modernità in modo unico come un vero filosofo, forse l’ultimo, ovvero “come persone che compiono sforzi estremi per sperimentare fino a che altezza l’uomo possa elevarsi”. E con il pensiero di Giametta ci si innalza oltre le vette.
–In Caleidoscopio filosofico hai detto che la storia umana è divisa in tre fasi di cui la prima aristocratica-elitaria-pagana e la seconda cristiana-democratica. Quale sarà la terza fase della storia e perché il panteismo sarà la filosofia fondante di questo terzo evo? Dopo paganesimo e cristianesimo, il secondo in contrapposizione al primo come tesi e antitesi, segue levo moderno come sintesi, letà della secolarizzazione e per conseguenza del panteismo, soprattutto ad opera di Spinoza. Segue necessariamente, perché la religione, cioè il vincolo dellindividuo con la natura (la specie e il mondo), permane.
–Oggi in preda ad una nuova “rivoluzione culturale” si giudicano i filosofi e gli scrittori in base alle lenti del politically correct. Che ne pensi di questo nuovo tribunale ideologico? Giudicare i filosofi e gli scrittori con giudizi che non siano filosofici e letterari, come sono quelli politici, è sbagliato. La filosofia è la ricerca della verità e quindi il giudizio filosofico è quello che stabilisce che valore ha un certo filosofo, cioè la sua filosofia, in relazione alla ricerca della verità: se lha fatta progredire o se ha imboccato vie sbagliate.
–Come può secondo te la filosofia confrontarsi con la complessità della tecnica e del mondo digitale. L’intelligenza artificiale e la “virtualizzazione” del mondo come cambieranno a tuo avviso il rapporto del filosofo con il mondo e il pensiero? la filosofia si è sempre confrontata con la vita e il mondo, le cose più complesse in assoluto. si confronterà anche con la tecnica e il mondo digitale, come di ogni altra cosa che ne fa parte. quanto a come lintelligenza artificiale e la virtualizzazione del mondo cambieranno il rapporto del filosofo con il mondo e il pensiero, wait and see.
–Perché definisci Spinoza il filosofo, Schopenhauer un mezzo filosofo e mezzo moralista e Nietzsche soltanto un moralista? Spinoza è certamente il filosofo, ma il filosofo che ha fatto la rivoluzione più importante dopo quella di Gesù Cristo, in senso inverso, sostituendo il cristianesimo con il panteismo. Non ho definito Schopenhauer un mezzo filosofo e mezzo moralista e Nietzsche soltanto un moralista. Schopenhauer è un (grande) filosofo e in più un grande moralista e un grande artista (stilista). Nietzsche è un grande moralista, ma anche filosofo, poeta, psicologo, critico della civiltà (kulturkritiker) e genio religioso, come tale co-fondatore della religione laica.
–Che cos’è per te la filosofia e quale dovrebbe essere la missione del filosofo? La filosofia potrebbe non esistere come disciplina particolare, perché è una riflessione sulla vita e sulla natura aperta a tutti.
–Una volta hai detto che ci sono tanti professori di filosofia e pochi filosofi. Come mai siamo diventati nell’ambito filosofico dei “guardiani” del pensiero e non abbiamo più coraggio di essere filosofi? Per Pitagora, inventore del termine filosofo, il filosofo è chi osserva e studia la natura, le cose, non in primo luogo i concetti. Solo che il filosofo è anche chi si dedica a quuesto studio e non ignora i risultati dei filosofi precedenti.
–Nel novecento Kojeve e Strauss si confrontarono a lungo sul rapporto tra filosofia e potere, nel lungo epistolario “Sulla tirannide”. Secondo te che rapporto ci deve essere tra il filosofo e il potere e verso quale posizione propendi? Sono per lassoluta libertà della ricerca filosofica, per lassoluta libertà di pensiero, indipendente da qualsiasi autorità, da ogni potere, soprattutto quello religioso e politico.
–Longanesi diceva che cultura è tutto quello che non ti dà l’università. Credi che la filosofia sia incompatibile con l’accademismo? Sì. La vera filosofia è vocazione e non professione. Può però anche diventarlo, fermo restando che la vocazione deve sempre precedere la professione. Non si sceglie la fillosofia, ma se ne è scelti, in genere con grande sorpresa. Philosophus nascitur. Schopenhauer ha scritto un saggio significativo contro la filosofia delle università.
–Che legame c’è tra il Giametta filosofo e quello romanziere? E come nasce la Gita di Ognissanti? Giuseppe (Peppo) Pontiggia diceva che i miei saggi sono scritti con tensione narrativa. Io aggiungo che la mia narrativa è scritta con tensione moralfilosofica. In essa, narrazione e pensiero non sono sovrapposti o giustapposti, nascono intimamente intrecciati, anzi fusi, cioè i racconti sono veri racconti, non contes philosophiques che vogliono dimostrare una tesi filosofica. La Capria diceva che ero un centauro. E in effetti ho scritto Tre centauri. La gita dOgnissanti nasce come le altre narrazioni: da ispirazione, esperienza e pensiero. Vi stronco Pasolini, non il 68 e il movimento della contestazione, che giudico in parte positivamente, in parte negativamente. Pasolini, non negoche fosse anche artista, nel cinema e nella letteratura, forse anche nella poesia dialettale, che però non conosco. Il primo dei due romanzi è valido, come i due film romaneschi. Sono ispirati dalla gioventù perduta delle periferie romane. Il secondo romanzo ha un inizio bello e originale, travolgente, ma ilresto è maniera. Pasolini era più un effettista che un artista e aveva la presunzione di esprimere con singoli film intere civiltà: araba, greca, cristiana, inglese, eccetera. Quanto alla critica sociale, ha detto in forma popolare ciò che era stato detto seriamente quasi un secolo prima. Ha approfittato del successo per esprimere in più modi e con vari pretesti la sua depravazione, che non consiste nella sua omosessualità, ma nel modo di viverla e di obbrobriosamente sbandierarla.
–Nel tuo romanzo “La gita di Ognissanti” compi una netta stroncatura di Pasolini e del 68. Quali critiche muovi verso questo autore e il movimento della contestazione? Ho cominciato con Croce, ho continuato con Goethe, poi con Nietzsche e Schopenhauer, su cui ho lavorato di più; poi ancora ho aggiunto Giordano Bruno.
-Hai ancora dei sogni? Veder pubblicati i libri già sotto contratto e ripubblicato qualcun altro.
–Quali sono stati i grandi incontri della tua vita e perché? Umanamente, soprattutto Marco Lanterna e Giuseppe Girgenti, due persone più miracolose che straordinarie, oltre che due eccellenti scrittori.
–Roger Scruton superata la soglia dei settant’anni ha detto di aver compreso che il vero senso della vita è la gratitudine. A pochi anni dalla soglia dei 90 anni che cosa hai imparato e quale è il senso della vita umana per te? Il senso della vita delluomo è la lotta per affermarsi e sopravvivere e per ricambiare il bene ricevuto dalla vita e dagli uomini del passato. La nostra origine è divina, ma siamo immersi nella vicissitudine delle condizioni di esistenza, fin troppo spesso infernali.
–Quale è l’opera che hai scritto in cui ti rispecchi e perché? Ritengo i Grandi problemi risolti in piccoli spazi (Bompiani 2017) il mio miglior libro di filosofia, perché vi ho risolto problemi millenari in tre, quattro o cinque pagine. Il mio pezzo migliore è lultimo, quello su Gesù Cristo. Dimostra come un uomo può diventare Gesù Cristocon un percorso laico.
–In Senecione hai stroncato duramente il filosofo Blaise Pascal. Perché questa stroncatura? Lo spiego in un libro che spero esca questanno. In unepoca in cui si lottava contro la religione e infierivano le guerre di religione, si è ributtato, per lincapacità di sopportare il mondo senza un Dio personale, cioè per viltà, nella religione invece di combatterla, come facevano, a rischio della vita e del carcere, migliaia di cosiddetti eretici.
–La visibilità quanto può essere pericolosa per un filosofo? Dipende dal filosofo,dalla sua filosofia, dall’epoca e dalle circostanze.
-Hai in programma nuove opere? Due libri nuovi, uno su Schopenhauer e uno su Pascal, e delle ripubblicazioni.
–Che opinione hai della scena politica attuale? Più o meno disastrosa. Ma non voglio perdere la speranza.Ci sono forze positive in atto. Speriamo tutti.
Confessioni di un governatore. Intervista ad Attilio Fontana
Di Francesco Subiaco
Attilio Fontana, 70 anni, avvocato, una carriera nell’amministrazione e nel rapporto con il territorio. Sindaco, presidente dell’assemblea dei sindaci, presidente della regione, candidato a questa tornata elettorale per rinnovare il suo secondo mandato come governatore della Regione Lombardia. Eccellente amministratore, volto moderato e responsabile della Lega, che ha attraversato dagli inizi della Lega Lombarda passando per la svolta salviniana e l’attualità, di cui oggi è uno dei più noti ed apprezzati esponenti. Da sempre legato alla cultura liberaldemocratica, si ricandida a questa tornata elettorale con un programma e un pareterre di candidati capace di far convergere conservatori e liberali, leghisti e centristi, popolari e mazziniani (tra i candidati della sua lista Civica spiccano infatti anche i repubblicani Valerio Massimo Antonelli e Silvia Gioventù del Pri lombardo) in una proposta politica capace di conciliare responsabilità e connessione sentimentale nazionalpopolare, senso delle istituzioni e legame col territorio, l’autonomia con la coscienza nazionale. Fontana è nell’immaginario collettivo “il governatore” per antonomasia, il rappresentante di un centrodestra che non solo vuole incarnare le istanze popolari, ma soprattutto trasformarle nell’anima delle istituzioni, che sa guardare oltre le ideologie in nome di una visione dell’amministrazione pragmatica e concreta.
–Presidente Fontana, Lei ha guidato la regione Lombardia durante un periodo durissimo come quella della zona rossa e della pandemia. Che ricordo ha di quei giorni e come ha vissuto quella stagione così complessa? Non scorderò mai le notti a studiare un nemico invisibile che nessuno ci aveva preparato ad affrontare. Abbiamo fatto tutto quello che era possibile fare per salvare il maggior numero di persone. Il dolore per chi ha perso la vita e per le loro famiglie sarà sempre una ferita aperta nel mio cuore. Senza dubbio la difficoltà più grande è stata far comprendere a Roma che la situazione in Lombardia era più grave di quello che loro percepivano. Nel primo periodo ci siamo sentiti abbandonati. Il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza il 31 gennaio 2020, ma non si è preoccupato, pur avendone la competenza esclusiva, di fare provviste di dispositivi e macchinari che poi sarebbero stati essenziali per il personale sanitario. C’è stata una grande sottovalutazione del problema, il resto è storia. Come dicono anche all’Estero se il covid avesse colpito un’altra regione, soprattutto del sud, gli effetti avrebbero potuto essere ben più drammatici. Il nostro eccellente sistema sanitario ha arginato e gestito al meglio una situazione pazzesca.
–Come giudica la sua esperienza di governatore e quali sono stati i momenti più importanti e significativi del suo mandato? È stato un privilegio per me guidare la regione definita locomotiva d’Italia e motore d’Europa. Tra i momenti più significativi di questo mandato c’è sicuramente la gioia per l’aggiudicazione delle Olimpiadi 2026 e poi la ripartenza dopo la pandemia. Il grande piano vaccinale, portato avanti da Bertolaso che ci ha consentito di mettere al sicuro il 91% dei lombardi sopra i 5 anni e il 94% degli over 12, una percentuale che ci ha visto primeggiare non solo in Italia, ma in Europa. Poi il ‘Piano Lombardia’ concepito e lanciato per sostenere la nostra economia e dare un messaggio di speranza. Oltre 8000 interventi ammessi e finanziati per 3mld e 640 milioni, 5700 cantieri aperti e 2700 completati da parte di comuni, province e altri soggetti pubblici. Un investimento di 4,2 miliardi di euro di risorse regionali che ne ha generato da parte degli enti locali ulteriori 2,3. Si stima che il Piano abbia prodotto un incremento del Pil regionale dello 0,8 per cento, con un incremento della occupazione di circa 36mila unità in Lombardia e di altri 12mila fuori regione. Siamo molto orgogliosi di questa scelta che, di fatto, ha anticipato di oltre un anno il Pnrr, e soprattutto perché l’abbiamo realizzata lavorando in sinergia con i Comuni.
-Che considerazioni trae riguardo la prosecuzione del progetto di autonomia differenziata? E come risponde alle critiche mosse al suo partito riguardo questo tema? Alle critiche rispondono i fatti e questi dicono che l’attuazione dell’autonomia differenziata per la Regione Lombardia è un problema politico nazionale e su questo, mi pare, ci sia coesione nella maggioranza e penso che potrà arrivare nel 2023. Anche il presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è resa conto che questa riforma guarda al futuro e all’efficienza degli Enti locali e dei servizi ai cittadini. Il ministro per le Autonomie Roberto Calderoli sta facendo un pressing su tutti i governatori del sud e sta cercando di spiegare come questa riforma sia utile anche per loro. Anche se con qualche sfaccettatura diversa da parte di tutti c’è disponibilità.
–Quali saranno i principali temi su cui verterà la sua candidatura e quali le battaglie saranno prioritarie in caso venisse rieletto? La vision strategica per la Lombardia del futuro ha l’obiettivo di mantenere il suo posizionamento come leader nazionale e di migliorare la propria attrattività internazionale, avendo come punto di riferimento le persone e il miglioramento della loro qualità della vita e agendo su alcuni driver principali: le infrastrutture materiali e digitali, per connettere il territorio in tutte le sue aree e permettere di cogliere le opportunità legate alle trasformazioni tecnologiche anche in un’ottica di transizione ecologica; il sistema dei servizi al cittadino, mantenendo un ecosistema che permetta lo sviluppo delle potenzialità individuali, partendo dal benessere delle persone e sostenendo cittadini e famiglie; gli investimenti sul capitale umano come driver per migliorare competitività e produttività, integrando tra loro le filiere scuola, formazione, lavoro e impresa per garantire lo sviluppo delle competenze del futuro; le strategie di sviluppo territoriale per una Smart Land sempre più connessa e resiliente, potenziando la coesione e l’inclusione sociale e valorizzando il patrimonio paesaggistico e culturale della Regione e, al contempo, garantendo lo sviluppo sostenibile e la protezione delle biodiversità.
-Che opinione ha della possibilità di un ritorno del nucleare in Italia? Credo che il nucleare di ultima generazione sia sicuramente da prendere in considerazione, a patto che sia data ogni tipo di garanzia ai cittadini. Sono ottimista, visto lo sviluppo che sta avendo nel mondo. Viene considerato sostenibile anche da un punto di vista ambientale e infatti l’Europa lo prevede come una delle forme di approvvigionamento energetico.
–Quali sono stati i momenti più importanti del suo percorso politico e quali la hanno formata di più? Sicuramente l’avvicinamento alla Lega. Nella prima fase come osservatore, affascinato dal discorso delle Autonomie. Poi senza dubbio tutti gli incarichi assunti come amministratore, ognuno mi ha dato qualcosa: da sindaco di una piccola cittadina come Induno Olona, a presidente del Consiglio Regionale, a nuovamente sindaco, ma stavolta di una città più grande, a presidente di tutta l’assemblea dei sindaci lombardi e infine l’incarico ancora più impegnativo come presidente di Regione Lombardia.
-Quali sono i riferimenti culturali di Attilio Fontana? Il mio riferimento culturale è stato negli anni della formazione quello del Partito liberale. Mio padre era un simpatizzante e io l’ho seguito. Avevo stima soprattutto per Malagodi.
Ezio Mauro:”Bisogna servire la cronaca, non rimanere intrappolati in inutili dogmatismi”
Di Francesco Subiaco
Ezio Mauro, direttore di Repubblica per quasi vent’anni, saggista, giornalista è una delle penne più influenti del panorama italiano. La cui carriera costellata di successi e incontri autorevoli ne fa uno dei grandi nomi del nostro giornalismo. Piemontese, classe 1948, Ezio Mauro muove i primi passi ufficiali nel mondo del giornalismo sulla Gazzetta del popolo di Torino, durante la stagione del terrorismo, come uno dei più attenti cronisti degli anni di piombo. Inviato speciale per La Stampa e corrispondente da Mosca per Repubblica diventa in pochi anni la voce del disgelo, raccontando gli anni dello scioglimento dell’Unione sovietica ai tempi della Perestrojka mostrando le mille sfaccettature del crollo delle repubbliche sovietiche. Nel 1996 diventa direttore di Repubblica, subentrando a Scalfari, cercando non solo di continuare quel lavoro di sintesi tra sinistra e valori liberaldemocratici iniziata dal fondatore, ma anche di servire e fare proprio quella identità culturale che è l’anima del giornale. Ha intervistato Putin, Moro, La Malfa, i grandi della storia. Ora, dopo aver lasciato la direzione di Repubblica nel 2016, conduce una trasmissione su Rai 3, “La scelta” inaugurata con una straordinaria quanto discussa intervista a padre Gänswein che promette un interessante seguito. Voce pacata e passione per i viaggi, per Mauro il giornalismo è un mestiere fatto di particolari e di dettagli, che nella cronaca trova un momento essenziale della sua missione. Mostrandoci che in realtà il vero giornalista non è solo chi racconta i fatti, ma chi li rivela
-Per Tre anni lei ha raccontato la grande metamorfosi della Russia Sovietica durante la Perestrojka. A pochi mesi dalla morte di Mikail Gorbacëv cosa resta di questo protagonista di fine novecento?
L’ultima volta che lo vidi gli avevo raccontato che avevo passato una giornata intera con Navalmy; il leader dell’opposizione in Russia, l’uomo che è poi stato avvelenato e imprigionato dal regime di Putin. Mentre gli parlavo dell’incontro con Navalmy, mi guardò e mi disse “vedi che questi sono tutti dei nipotini della Perestrojka, anche se forse non lo sanno, perché il seme che abbiamo gettato allora da anche questi frutti”. Se dovessi formulare un giudizio su Gorbacev devo ammettere che fu sicuramente il leader del disgelo di un mondo pietrificato che sembrava immobile, uno dei personaggi chiave della storia russa, basti pensare che prima di lui c’era Cernenko (un leader che sembra venire da un altro secolo e da una altra storia), ma allo stesso tempo è anche una figura che nel suo paese non è ricordato con favore. Su di lui grava una opinione controversa perchè imprigionata nel paradosso che ha caratterizzato la sua intera azione politica.
–Ovvero?
Che per noi è stato il primo riformatore dell’URSS mentre per i russi è stato invece l’ultimo segretario del partito comunista sovietico.
–E cosa ha pensato quando Putin gli ha negato i funerali di stato? Non mi aspettavo che ci fossero funerali di stato, perché tra i due c’erano dei rapporti molto freddi e distaccati, se non di fatto inesistenti.
–Parliamo di lei. Come nasce la sua vocazione di giornalista? Ho sempre sperato di fare questo mestiere fin da ragazzo ed ho sempre cercato di partecipare a dei “giornali”, sia alle medie, sia durante la mia esperienza al collegio e nel mio paese d’origine. –Che insegnamento la ha formata di più nel suo approccio iniziale al giornalismo? Ricordo quando ero ancora un cronista della Gazzetta del popolo a Torino, uno dei più antichi giornali italiani, e al mio primo articolo mi mandarono a seguire il caso di una donna che era stata gettata nel Po e di scrivere una notizia su questo tema. Andai sul posto, cercai informazioni e poi iniziai, con molta difficoltà a scrivere il pezzo. Mi ricordo un collega passò vicino alla mia scrivania e leggendo le prime righe dell’articolo che avevo appena scritto a macchina mi si avvicinò e mi disse “Auguri”, lasciandomi senza capire se fosse un giudizio positivo o negativo… La sera tardi rimasi in redazione e quando arrivarono le copie del numero su cui c’era, o almeno ci doveva essere, il mio articolo, lo sfogliai immediatamente (era passata da poco la mezzanotte), e cercai alla sezione cronaca il mio articolo. Lo trovai e rimasi molto deluso, perché era stato totalmente riscritto e modificato. Del mio pezzo iniziale c’era poco e niente. Questo evento mi insegnò che avevo molto da imparare, perché potevo scrivere benissimo un reportage o una notizia politica, ma non sapevo ancora confrontarmi adeguatamente con la cronaca, men che meno scrivere una notizia di nera in poche righe, poiché esiste una tecnica, un tatto, una sensibilità per quelle cose che solo con molta esperienza si riesce ad acquisire. Un giornalista non deve mai smettere di mettersi in discussione di essere curioso e di voler conoscere a fondo la realtà che racconta. Un insegnamento che la mia esperienza alla Gazzetta mi ha lasciato molto –Le ha insegnato molto la cronaca? Moltissimo. Mi ha insegnato molte cose, il rispetto per le persone coinvolte, il tatto nel trattare questioni delicate, la capacità di sintesi, la curiosità per le cose di tutti i giorni. Perché, vede, tutti credono che fare cronaca sia solo raccontare i fatti, che la cronaca sia gregaria dei fatti, mentre essa, se fatta seriamente e con scrupolo, rivela la realtà delle cose e delle persone, poiché la realtà è molto più forte e più dura dei preconcetti e dei pregiudizi che si nascondono in ognuno di noi e solo immergendosi nel reale si scopre un mondo fatto di sfumature, di dettagli, una realtà fatta di contraddizioni. Una realtà complessa, ambigua a volte ingiusta, ma vera, oltre l’ideologia e le convinzioni di chi lo racconta. Un giornalista che non crede nei fatti e che ha uno schema ideologico che lo guida non si può far sedurre dalla cronaca e dalle rivelazioni che nasconde la realtà che racconta. Chi inventa non è capace di leggere la realtà, perché i fatti sono molto più forti di tutte le invenzioni di chi li vuole interpretare. Bisogna leggere la realtà, aprirla come un libro e comprendere quello che nasconde di più prezioso: i dettagli. –Per un giornalista i dettagli sono importanti? Sono fondamentali. Mi ricordo una frase che lessi una volta a casa di Nabokov, in un cassetto quando la andai a visitare in occasione di un mio lavoro sul centenario della rivoluzione russa :”soltanto i particolari e i particolari dei particolari, trasformano una storia inerte in qualcosa che merita di essere letta”.
–Anni fa lei intervistò insieme ad una delegazione di giornalisti occidentali Vladimir Putin. Che ricordo ha di quell’incontro e cosa pensa della metamorfosi di questo personaggio Dostoevskijano? È stato un incontro molto lungo e molto orientale. Putin si presentò con 4 ore di ritardo ad un appuntamento con una delegazione di otto direttori di giornali occidentali, tra cui il sottoscritto. Nella lunga attesa prima del suo arrivo riuscimmo a definire con gli altri direttori, all’epoca dirigevo Repubblica, i temi e le domande che volevano porre al presidente della Federazione Russa e convergemmo tutti su un tema principale da mettere per primo: i diritti umani e la questione delle minoranze. Scegliemmo quindi per prima cosa di chiedere a Putin se si volesse impegnare per escludere un atteggiamento duro e repressivo nei confronti dell’opposizione politica una volta concluse le elezioni (eravamo alla vigilia delle elezioni che poi lo avrebbero riconfermato leader del paese) evitando di usare il pugno di ferro contro le minoranze. Gli feci io questa domanda e lui allora mi disse che c’era spazio per tutti nella sua Russia e che non era necessario il pugno di ferro contro l’opposizione, cosa che di fatto smentì soprattutto nei confronti di Navalmy. La prima cosa che mi colpì di lui fu che mentre io gli porgevo la mia domanda sui diritti umani lui rimase in tensione sulla punta della sedia, mentre quando venne il turno del mio collega tedesco, che doveva porgli una domanda sui temi economici, si distese completamente, rilassato, sulla spalliera della sedia. La seconda cosa che mi colpì molto fu che mentre mi presentai prima dell’intervista, gli dissi chi ero e per quale testata scrivessi, mi disse “ho chiesto informazioni su di lei al mio amico Silvio”, sottolineando da una parte l’amicizia tra i due leader, dall’altro una profonda preparazione del leader del Cremlino che non perse nemmeno una occasione casuale per informarsi del suo interlocutore. Ricordo poi che mentre ci salutammo con gli altri colleghi della delegazione, eravamo in una abitazione che ci era stata descritta come residenza di Putin, gli dissi in russo “la prossima volta mi piacerebbe intervistarla al Cremlino” lui mi chiese perché ed io gli risposi che era poiché non avevo mai visto l’ufficio di un segretario generale di Mosca. Lui allora mi guardò e mi disse “perché non viene a vedere la mia partita di hockey che vado a fare con loro” indicando le sue guardie del corpo. In quel momento mi immaginai la copertina de Il venerdì di Repubblica con la foto in primo piano di Putin che gioca ad hockey ed il titolo lapidario:”La maschera di ferro”. Però poi gli dovetti rispondere che a causa di quelle quattro ore di ritardo dovevo correre a scrivere l’intervista per chiudere il numero. Mi sono perso una occasione cruciale per conoscerlo veramente ma dovevo scegliere o la partita o l’intervista e capirà ci sono delle scelte che un direttore a volte deve compiere. –Tra i protagonisti del giornalismo italiano, dalla Russia post sovietica al terrorismo passando per il berlusconismo, quali sono gli incontri che più la hanno formata ed i personaggi che più la hanno colpita? La stagione del terrorismo è stata importantissima per la mia formazione perché per me che all’epoca ero un ragazzo, la definisco come la guerra della mia generazione. Soprattutto perché la vissi in una città come Torino dove passava una frontiera tra il terrorismo e lo stato e poiché come disse una volta l’avvocato agnelli chi non è stato a Torino non può dire di conoscere è stato il terrorismo italiano. Ci si alzava la mattina e si sentiva la radio per capire dove colpivano e che attacchi facevano, ma ogni giorno colpivano, ogni giorno c’erano scontri, attacchi sparatorie, proprio come in una guerra. Ricordo che alla Gazzetta del popolo avevamo una radio che un collega geniale, aveva modificato per permetterci di ascoltare le frequenze delle forze dell’ordine e dei grandi giornali, in modo un po’ piratesco, per permetterci di essere sul posto ogni volta che i terroristi colpivano. Si ascoltava con attenzione le comunicazioni, i discorsi, per correre sul posto prima che i fatti diventassero delle notizie. Veniva messo ad origliare queste comunicazioni di solito il primo arrivato, tra cui anche per un periodo il sottoscritto, e ci accorgemmo che ogni volta che succedeva un attentato un crimine urgente, ma lo avrebbe capito chiunque, quelle frequenze impazzivano e si animavano rocambolescamente. Bisognava solo capire l’indirizzo, per arrivare per primi e cercare di capire cosa stesse accadendo. Di solito eravamo un giornalista e un fotografo o più giornalisti e quando succedeva un evento vicino alla Gazzetta arrivavamo prima delle forze dell’ordine. Mi ricordo di una segnalazione. Era l’ottobre del 1977, le Brigate Rosse avevano compiuto un attacco ad Antonio Cocozzello, consigliere comunale di Torino per la Democrazia Cristiana, che era stato gambizzato alla fermata del tram prima di andare a lavoro. In quel momento capii con i fatti che cos’era il terrorismo, guardando negli occhi la realtà della lotta armata. Pensavo al povero Antonio Cocozzello, mentre lo soccorrevano gli aprirono i pantaloni per cercare di curarlo e si vedeva che indossava un paio di mutande semplici, povere, da mercato. Quelle che poteva aver indossato mio nonno o un signore qualsiasi della campagna piemontese, e mi accorsi che quelle persone con quel delirio ideologico non c’entravano niente, che erano state colpite come maschere di un potere sovranazionale con cui non c’entravano niente, mentre invece erano solo delle persone comuni, ferite e colpite, ricoperte di sangue e lasciate in fin di vita perché erano diventati i bersagli di una lotta che non li riguardava e con cui non c’entravano nulla. –Quali sono stati i grandi incontri della sua carriera giornalistica? I leader politici, Berlinguer, Craxi, Andreotti, De Mita, La Malfa, Moro. Moro ad esempio mi metteva molta soggezione. Una volta mi trovavo di fronte al palazzo della Democrazia Cristiana, lo aspettavo per una circostanza che non ricordo a piazza del Gesù. Io mi ero intrufolato nel palazzo mentre lui entrava e non ricordo come riuscii ad. Entrare nell’ascensore con lui. Mi guardò con due occhi scocciati come a dirmi “non vorrai importunarmi con le tue domande”. Non gli feci nessuna domanda, ero molto in soggezione. Mi ricordo che mi guardò con quel suo sguardo, che mischiava timidezza e riserbo, ma che era capace di suscitare in me molta soggezione. Avevo aspettato almeno un’ora, ma non gli domandai nulla.
–Un momento in cui ha avuto paura e uno che ricorda con gioia? Non credo di aver avuto mai paura, nemmeno durante la stagione del terrorismo, forse per incoscienza più che per coraggio. Ad esempio una volta ero a Torino, durante la mia collaborazione con la Gazzetta del popolo, all’epoca finivano molto tardi e mi ricordo che mentre tornavo a casa avevo visto due ragazzi che amoreggiavano davanti casa mia. In quel momento un preoccupato decisi di rifare il giro, lo feci almeno sei, sette volte, forse anche di più, perché non mi sentivo tranquillo. Dopo poco tempo se ne andarono. Evidentemente erano solo dei ragazzi che cercavano di stare tranquilli per un po’. Però nemmeno in quel caso provai paura, anche se sicuramente c’era molta insicurezza a causa del clima di Torino in quegli anni. Solo chi ha vissuto a Torino quel periodo può capire veramente cosa è stato il terrorismo. Più che paura nella mia carriera ci sono stati dei momenti in cui ho temuto di non riuscire a leggere la lezione dei fatti in maniera corretta, di non avere una bussola per il giornale o di fare un errore. Sono momenti che capitano nella vita di un direttore di giornale, hai dei dubbi, non comprendi la realtà nitidamente, esiti perché vedi le cose in maniera poco chiara o non molto definita, hai paura di non comprendere la realtà, di fare degli errori. E allora aspetti, cerchi di capire ma non puoi aspettare, devi guidare un giornale, e hai l’obbligo di decifrare la realtà… delle persone dipendono da te, si fidano di te e tu gli devi una risposta devi sapere cosa è giusto fare, perché hai il compito di dare rotta e di tenere il timone del giornale. Questi dubbi sono tipici della solitudine di chi guida un grande giornale. In questi casi provai molta inquietudine, ma mi aiutarono molto due cose. Le lezioni dei fatti e l’identità del giornale. Sono queste le coordinate che mi hanno sempre aiutato cercare di essere lucido rispetto alla realtà e cercare di essere coerente con l’anima del giornale che dirigevo. In certi casi la realtà però è complessa e non si riesce a capire il vero volto delle cose, tutto sembra inafferrabile, queste sono le problematiche che affollano la solitudine di un direttore di giornale. –E cosa la aiutata a superare queste problematiche? L’aiuto dei colleghi, il confronto con gli altri, l’ascolto. Tenendo sempre presente la cultura del giornale, poiché è l’identità del giornale di cui fai parte, è una lente che ti aiuta a comprendere la realtà. Il buon giornale nasce dall’incontro dei fatti che urtano e irrompono nell’attualità e la cultura del giornale che determinano la scelta che compie chi dirige e chi scrive. –Ed il momento più bello? Penso ogni volta che ho sentito muoversi il giornale nel suo insieme, come una squadra o una forza intellettuale capace di comprendere e rivelare la realtà, quando tutte le voci le idee e le sensibilità delle persone che compongono un giornale si muovono in maniera univoca, come in una sinfonia. Se vuole un esempio definito invece le dico uno scherzo che mi fecero alcuni colleghi. Una volta andammo a cena con mia moglie e le segretarie di direzione. Finita la cena mi hanno detto di andarci a prendere un caffè all’interno del locale e mentre entrammo trovai una festa con tutti i colleghi di Repubblica. C’erano tutti i colleghi, Eugenio Scalfari, Carlo De Benedetti, mia figlia e anche alcuni colleghi che erano venuti a Roma appositamente per questa festa a sorpresa per me. Sono rimasto frastornato, ma anche molto felice. –
–Dalla segreteria blairiana del PD al governo draghi, che giudizio trae dal percorso politico di Matteo Renzi? Penso che se un leader politico ha l’onore di guidare la sinistra italiana contro la destra, di essere presidente del consiglio per quella forza politica, se messo in minoranza non debba uscire da quel campo politico formando una forza antagonista a quella che ha rappresentato in precedenza, ma deve continuare a testimoniare le sue posizioni politiche dentro quel partito. È un vincolo prima morale che politico. E questo è un discorso che vale sia per Renzi, che per D’Alema e per altri ancora. –Quali sono i Riferimenti culturali. Il Pantheon di Ezio Mauro ? Non lo so. Io non credo di avere un Pantheon che ha guidato la mia formazione, ma piuttosto di aver compiuto una ricerca, una continua ricerca che ha attraversato tutta la mia formazione e che continua tuttora. Un punto cardine sicuramente è stato Norberto Bobbio. Sa a noi piemontesi ci hanno sempre preso molto in giro per la faccenda del cosiddetto “azionismo torinese”, come se fosse un vizio o un difetto. In realtà l’azionismo fu un tentativo più culturale che politico di emancipare la sinistra italiana dai suoi ritardi, dai suoi errori, ed anche dagli orrori della sinistra nel mondo, coniugandoli con i valori liberali. Un tentativo fallito a livello politico, pensi ai risultati deludenti del Partito D’Azione, ma che ha lasciato una inesauribile testimonianza culturale di questo spirito di riforma e di che abbiamo cercato di portare a Repubblica con Eugenio. Lui veniva da una educazione liberale che ha conciliato con la sinistra mentre io da una formazione di sinistra che ho riletto alla luce dei valori del liberalismo. Un esperimento ed un tentativo culturale che abbiamo cercato di portare avanti e che non è ancora concluso perché credo che questo spirito sia l’unica strada per mettere la sinistra italiana al servizio del paese. Credo a livello letterario la letteratura russa e nello specifico Michail Bulgakov, soprattutto Il maestro e Margherita.
–Che ricordo ha di Scalfari e che cosa le manca di lui? Mi manca soprattutto il rapporto umano che avevo con lui. Lo dicevamo sempre, pur non avendo la stessa formazione politico culturale, ci siamo trovati nel giornalismo e nel rispetto del comune DNA di Repubblica. Lui perché lo ha inventato, io perché lo ho servito e lo ho rispettato, perché solo rispettandolo lo ho potuto vivere ed adattare tenendolo al passo con i tempi. Lui mi veniva sempre a trovare nel mio ufficio, fumava, anche se non si poteva, e parlavamo. Parlavamo di tutto, dell’attualità, del passato, della fondazione di Repubblica, oppure semplicemente cazzeggiavamo, poi Eugenio era un grande raccontatore ed era sempre bello sentirlo parlare soprattutto del passato e dell’identità di Repubblica. Mi interessava sempre sapere e capire meglio il rapporto con Carlo Caracciolo perché pure prima di arrivare a Repubblica mi interessava capirne l’identità profonda.
Guzzanti: “Né di destra, né di sinistra. Sono un liberale”
Di Francesco Subiaco
Irriverente, lucido ed istrionico, Paolo Guzzanti è una delle penne più affilate del giornalismo italiano, collaboratore de Il giornale e Il riformista, saggista, politico e autore di testi cruciali sulla politica italiana e i suoi protagonisti. Da Berlusconi a Evangelisti, da Cossiga a De Benedetti, Guzzanti ha raccontato le scene e i retroscena dei protagonisti della politica italiana, indagando l’attualità con articoli incisivi ed una longeva attività politica che lo ha portato ad affrontare le ombre che si nascondono dietro agli scandali della politica dei partiti, dietro le influenze sovietiche nel PCI. Da presidente della commissione Mitrokhin ha mostrato il lato oscuro e inconfessabile del comunismo italiano. Nel suo ultimo libro, “La Maldestra” ha raccontato i vizi e le virtù del centrodestra italiano mostrandone i difetti ancestrali e le possibilità future, mostrando una visione liberale integrale, antagonista ai totalitarismi e alle loro seduzioni ispirata a Winston Churchill, personaggio su cui sta scrivendo un nuovo testo per sottolineare l’essenza dei valori liberali che posizionano tale visione nell’ambito di uno scontro durissimo tra democrazie liberali e autocrazie nazicomuniste all’inizio della WW2 fino alla guerra in Ucraina. Per parlare del suo percorso giornalistico e del suo pensiero abbiamo deciso di intervistarlo nel suo studio, tra i quadri da lui dipinti e i ricordi della sua splendida carriera di giornalista.
–Aldo Cazzullo ha scritto che si sta prefigurando una cultura di destra libera e divina rappresentata da Paolo Guzzanti, Camillo Langone e Giampiero Mughini. Si ritrova in questa definizione? No, assolutamente no. Sono molto amico di Aldo Cazzullo, ma non mi trovo d’accordo con lui su questo tema perché io non sono di destra o di sinistra, io sono un liberale e credo che quando si è liberali veramente lo si è in toto. La distinzione tra destra e sinistra viene dopo le rivoluzioni gemelle fascista/nazista e bolscevica/comunista. Due ideologie la cui natura segna la totale opposizione tra le liberaldemocrazie e i crimini dei totalitarismi gemelli. Le stragi, le deportazioni, i campi di sterminio sono la cifra di cosa sono stati i totalitarismi nazifasciocomunisti, fratelli separati in mostruosità che metto sullo stesso piano come i veri nemici delle democrazie occidentali e quindi del liberalismo. Entrambe, infatti, sono ideologie mostruose, ma con una aggravante, nel caso del nazismo, che riguarda quell’abominio morale che fu la Shoah, che fu interrotto solo dalla sconfitta durante la seconda guerra mondiale sennò avrebbe raggiunto i numeri, ampiamente superiori rispetto al nazifascismo, del comunismo, che intendo nella sua forma più ampia (cubano, stalinista, iugoslavo, cinese), come una fede politica che ha insita nella sua conformazione una visione totalitaria e criminale, come del resto la sua rivoluzione gemella. Per questo i liberali non hanno nulla a che fare con i nazifascisti, di destra, né con i comunisti, di sinistra, ma sono liberali e basta. Churchill, conservatore, anticomunista e antifascista, era un vero liberaldemocratico perché durante la guerra osteggiò queste due pestilenze della storia in ogni modo. -Ma Churchill non era un conservatore oltre che un liberale e quindi un uomo di una altra “destra”? Se consideriamo di destra Churchill allora io posso definirmi “di destra” ma ciò esclude ogni attribuzione a questa definizione di quella robaccia postfascista. Per me quindi i liberali sono liberali e basta.
–Perchè definisce le rivoluzioni dei totalitarismi “gemelle”? Perché sono due facce dello stesso volto. Se cerchiamo nei libri di storia russa e sovietica, soprattutto, un evento come la seconda guerra mondiale non ne troveremmo traccia. Leggeremmo invece di un evento molto particolare: “La grande guerra patriottica”. Un momento del novecento in cui l’alleato dell’Urss, la Germania di Hitler, si è rivoltato contro il popolo russo tradendo il patto di alleanza che avevano firmato negli anni 40. Un tradimento che portò Stalin ad abbandonare l’alleanza militare ed ideologica con Hitler per scegliere un accordo militare e strategico con le democrazie occidentali. Fino a quel momento tutti i comunisti del mondo, su indicazione del Cremlino e di Stalin tramite i suoi comunicati sulla Pravda, hanno tifato per Hitler affinché vincesse la guerra minando l’integrità “dell’imperialismo angloamericano e portando alla sconfitte le borghesie plutocratiche occidentali”. Solo i socialisti si opposero a questa alleanza ideologico-militare e per questo furono attaccati ed etichettati come socialfascisti. Tutte le forze di sinistra dopo l’aggressione nazista cambiarono radicalmente la loro posizione, passando da un pacifismo filonazista ed antioccidentale, ad un forte interventismo, ma quella mutazione a mio avviso fu solamente strategica e non ideologica, tanto che chiusa la seconda guerra mondiale l’opposizione al liberalismo e alle democrazie continuò durante la Guerra Fredda manifestando quanto entrambi questi mondi fossero equivalenti nella loro avversione agli ideali liberali. La cosiddetta guerra fredda fu nient’altro che la continuazione della seconda guerra mondiale contro l’Occidente con altri mezzi. Una minaccia equivalente a quella nazista come sostengo in un libro che sto scrivendo sul tema. I sovietici non a caso hanno sempre alimentato il mondo dei naziskin e dell’eversione nera contro l’occidente. –E i liberali? Sono un mondo opposto a queste ideologie. Noi liberali siamo i nemici di costoro, e lo siamo perché loro stessi ci hanno dichiarato più volte una guerra senza quartiere. Ma il liberalismo non è solo il voto, tutti i maggiori paesi possono votare. Votano in Cina, in India, in Russia, in Pakistan e non c’è nulla di più comune di una democrazia autoritaria che conferma un governo antidemocratico. Cosa avrebbero fatto gli italiani nel 1936 se avessero potuto votare, probabilmente avrebbero confermato il regime fascista, perché non è solo il voto che definisce le liberaldemocrazie, ma sono la libertà e la concorrenza. La possibilità pluralista di fare scelte differenti, di avere visioni anche contrapposte, che sono la conseguenza della concorrenza e della libertà di scambio senza cui non ci può essere una vera libertà. Una concezione che purtroppo capii nella mia vita un po’ troppo tardi.
–Lei quando divenne un liberale? Gradualmente. Io venivo dal Partito Socialista e quando il PSI si sciolse c’erano due opzioni o andare con i postcomunisti o partecipare a quella ventata di grande rinnovamento portata da Berlusconi con Forza Italia, a cui aderirono Lucio Colletti, Giuliano Ferrara e Marcello Pera ad esempio. In quello scenario si sentiva una forte esigenza per il paese di portare liberalità alla società italiana e aprirla ad una nuova visione del mondo, questa condizione non poteva appartenere ai postcomunisti che in tutto il loro passato non erano stati in grado, pur volendo, di dire di no all’Unione sovietica in nessun momento della loro storia e anche dopo la caduta del Muro hanno deciso di opporsi a questa idea di liberalizzazione della società.
–E che ne pensa di quel mito del Pci, come di un partito libero e pulito, contro la corruzione e i suggerimenti atlantici, descritta dal clero post comunista? Nulla di più falso. Prima di tutto il PCI ha sempre votato e deciso seguendo le indicazioni del Komintern e di Mosca, pur non volendo in alcuni momenti. In secondo luogo tornando alla questione morale dei comunisti c’è da dire che in Italia solo un partito era autorizzato ad avere un ingente e irregolare finanziamento illecito, ovvero il Partito comunista. Il PCI si riforniva irregolarmente e illecitamente ogni anno di sontuosi e abbondanti finanziamenti, come disse e spiegò più volte l’ex presidente della Repubblica Cossiga. La procedura era la seguente: un alto funzionario comunista partiva da Roma con una valigetta vuota verso Mosca; arrivato a Mosca si incontrava col signor Ponomarëv con cui conversava amabilmente di fronte ad una tazza di tè caldo, mentre alcuni funzionari del PCUS riempivano di dollari la suddetta valigetta; tornato a Roma due agenti del tesoro americano controllavano che i dollari portati da Mosca fossero validi e veri, per evitare l’immissione di dollari falsi e contraffatti nel mercato, e verificata la qualità del denaro riprendevano l’ultimo aereo per tornare negli States; a quel punto due alti notabili dello stato, tra cui una volta lo stesso Cossiga, accompagnavano l’emissario del Pci in Vaticano, dallo Ior, per farsi cambiare il denaro importato in valuta nazionale. Tutti gli altri partiti lo sapevano e per tale motivazione anche loro si rifornivano in maniera illecita. Tangentopoli poteva essere scoperta già a fine anni settanta ed anzi io, per caso, riuscii a mostrare il mondo che sarebbe salito alla ribalta con Mani Pulite già nel 1979, proprio con una notizia che raccontava l’ambiente del potere della Prima Repubblica in relazione con i finanziamenti illeciti.
–Allude al caso Evangelisti che raccontò ai tempi di Repubblica e che portò anche in teatro? Esattamente –Ci può raccontare come è andata? Andai ad intervistare l’allora Ministro della Marina Mercantile Franco Evangelisti, perché Eugenio Scalfari voleva avere una risposta o una smentita, se vogliamo, di un accusa, mossagli da L’Espresso, nel suo coinvolgimento in attività illecite riguardanti la marina mercantile. Era il 1979 ci incontrammo al ministero e nonostante fosse la prima volta che ci incontrassimo lui mi accolse calorosamente con il suo accento marcato romanesco e mi disse “A Pa’ viè qua” io allora mi avvicinai con il taccuino in mano per segnare la sua dichiarazione al che lui mi guardò e mi disse “ma che fai lascia perde leva sto coso, prima te devo da Er background per farti capire de che stamo a parla” ed inizia a raccontarmi come funzionava la politica dei partiti. “A Pa’ qui avemo rubato tutti” e descrisse quello che era il mondo del finanziamento del sistema dei partiti, il famoso “a Fra che te serve?”. Lì mi sembrò di sognare, il braccio destro di Andreotti, ministro dii un governo, mi stava raccontando il dietro le quinte del potere democristiano, le chiamate, i contatti, le relazioni. In quel discorso era tutto nero su bianco. Finito di parlarmi informalmente mi disse “mo puoi tirare fuori quel coso” e mi iniziò a dare istruzioni su cosa dire, che domande fargli e che risposte scrivere. Io tornato in redazione però non scrissi nulla di questo, ma trascrissi il reale contenuto dell’intervista. La feci pubblicare in fretta senza farlo passare per troppe mani. Il giorno dopo scoppiò il pandemonio, con dodici anni di anticipo avevo raccontato il volto segreto della politica dei partiti che solo DOPO Di Pietro e il pool di Milano mostrarono, e lo sa cosa successe? –Cosa? Niente. Nonostante il ministro fu costretto a dimettersi per le verità che aveva rivelato, ovvero che sia all’opposizione che al governo tutti i partiti si nutrivano di aiuti esterni, di ambiguità col mondo imprenditoriale e con altre nazioni, l’opinione pubblica non si indignò per la fonte illecita dei finanziamenti ai partiti, ma per il modo in cui tali fatti venivano raccontati. Fu più l’arroganza e la spavalderia romanesca di Evangelisti che la verità che raccontava a costringerlo a dimettersi ed ad avviare il suo declino politico. Per l’opinione pubblica era normale ricorrere ad aiuti “esterni” per fare politica, “la politica ha i suoi costi” dicevano, la cosa che li scandalizzava era che un ministro della Repubblica parlasse in quel modo, si comportasse così di fronte ad un giornalista, del resto non importava niente a nessuno, un po’ di clamore e poi si tornò per altri dodici anni alla normalità. Quell’evento mi colpì molto dopo averci riflettuto successivamente poiché mi rese chiaro la natura di Tangentopoli. –Ovvero? Che Tangentopoli fu una grande operazione di sostituzione della vecchia classe dirigente della prima Repubblica, che aveva esaurito il suo compito con la fine della guerra fredda, con quei bravi ragazzi del polo post comunista, molto più affidabili dei vecchi democristiani e dei vecchi socialisti, inaffidabili e ambigui. Poi arrivò Berlusconi e con un tentativo unico di rivoluzione liberale, con un partito nato in pochi mesi, scompigliò le carte del mazzo cambiando la rotta del nostro paese.
Che giudizio trae di Silvio Berlusconi? Lui è stato un eroe. Uno degli uomini più ricchi del mondo che al posto di crogiolarsi nel proprio successo ha deciso di dedicarsi alla politica e di iniziare un percorso di profonde riforme e innovazioni del paese che lo hanno portato a sfidare la macchina da guerra del centrosinistra, e ad impedire, da solo contro tutti, di trasformare il PCI, forte del suo sostegno statunitense, nel partito egemone dell’establishment italiano. Una impresa eroica che gli è costata processi, attacchi, campagne d’odio ed attentati per cercare di avverare una rivoluzione liberale. Ha cambiato il corso della storia ed ha impedito ad una banda di clericali e dogmatici, figli della peggiore sinistra e della peggiore DC, di dare il colpo di grazia a questo paese. Umanamente è una persona deliziosa, politicamente ha fatto degli errori e delle cose giustissime, ma non voglio parlare dei suoi errori perché ne parlano tutti, anche con estrema precisione ed in maniera esigente, abitudine che purtroppo non vale per altri personaggi con minor meriti e maggiori errori.
–Per lei cosa vuol dire quindi essere veramente liberale? Vuol dire garantire la libertà di scambio, di merci, di idee, di informazione. Non è solo il voto o la possibilità di essere ricchi, quanti oligarchi russi, mandarini del partito comunista cinese e gerarchi fascisti erano ricchissimi e pieni di soldi?, ma la possibilità di essere liberi di garantire la libertà di scambio, di poter fare affari con chi si vuole e quindi in sostanza di non avere la libertà come un privilegio concesso dall’alto per pochi. Per questo i liberali sono inconciliabili con la visione nazifasciocomunista.
–Ricorda quando si avvicinò nettamente al pensiero liberale? Probabilmente con Cossiga che ha risvegliato in me una visione liberale e durante il mio soggiorno nei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Un giorno, quando era presidente della Repubblica, Cossiga mi chiamò la mattina presto a casa, tanto che mio figlio ancora bambino si impressionò e mi chiese cosa avessi fatto a Bush (per lui il presidente era infatti quello americano) per meritarmi una sua chiamata. Mi chiamò e mi disse “Lei cosa sa sui Cattolici liberali in Italia?” ed io non ne sapevo nulla e così mi invitò ad un convegno in cui si parlava di Cavour e dei liberali italiani, quello fu un primo approccio al liberalismo che ritengo fondamentale. Anche se devo dire che non apprezzo molto Benedetto Croce per la sua umiliazione della scienza e della psicanalisi. Poi in generale sono molto critico verso la scuola hegeliana, perché penso che i problemi del pensiero novecentesco nascano tutti da Hegel e dalla sinistra e dalla destra hegeliana, pensiamo a Marx, al fascismo, al nazismo.
Chi sono stati i suoi maestri e riferimenti? Sono stati i protagonisti della storia che hanno sfidato la guerra per difendere la libertà, come Winston Churchill. Perché chi è liberale è una persona intransigente nel difendere libertà anche a costo della guerra. Sicuramente sono stati i miei maestri gli autori del pensiero liberale. I grandi incontri della mia vita, Cossiga, ma anche Scalfari.
–Che ricordo ha di Cossiga? Io all’epoca ero un giornalista de La stampa e in quel periodo tutti erano incuriositi di questo presidente che tutti definivano pazzo e allora Ezio Mauro mi disse di andare a Gela per un evento in cui presenziava Cossiga. Io allora andai a Gela e il giorno dell’evento ero insieme ad una schiera di giornalisti di varie testate ed aspettavamo l’arrivo del presidente della Repubblica. Ad un certo punto arriva Cossiga, che io non conoscevo, ma che aveva potuto vedermi in una puntata di una trasmissione, chiamata Harem, in cui parlavo di mia figlia Sabina, all’epoca non ancora famosa, che faceva l’accademia di arte drammatica. Cossiga mi vede e si stacca dalla delegazione presidenziale e si dirige verso la flotta di giornalisti e si avvicina a me. Io allora incredulo mi guardo intorno e cerco di capire verso chi si stia dirigendo, fino a quando lui si dirige verso di me, mi prende sotto braccio estraendomi dalla schiera, strappandomi la giacca tra l’altro, verso il palco mentre mi dice col suo inconfondibile accento: “Non sapevo sua figlia facesse l’attrice” e mi trascinò sul palco dove eravamo io, lui e il sindaco di Gela. Lì fece un discorso contro Giorgio Bocca, in difesa dell’arma dei carabinieri, erano i tempi dell’uno bianca. Allora raccontai quello che aveva detto, che impressione mi fece, ma non scrissi quello che era comune nell’opinione pubblica, ovvero non dissi che era pazzo come tutti dicevano allora, rompendo un patto sacrale che si era creato nel panorama giornalistico italiano, attirandomi le ire e l’odio dei decani dei massimi giornali, primo fra tutti Repubblica. Cossiga saputo dell’accaduto mi invitò ad un usanza che non conoscevo, la colazione al Quirinale alle 7. Li arrivai e trovai Cossiga circondato da tutti giornalisti di sinistra, del Manifesto e dell’Unità soprattutto, con cornetto e cappuccino.
–Perché di sinistra proprio? Perché gli piaceva, perché vedeva i comunisti come una banda di galantuomini con cui si era costretti ad essere avversari ma che trattava col massimo rispetto. Non a caso, da cugino di Berlinguer, diceva sempre “con i comunisti si mangiava l’agnello la domenica di Pasqua”.
–E invece del suo periodo a Repubblica? Ma è vero che licenziava i colleghi con la voce di Scalfari? Non proprio. Più che altro facevo una ottima imitazione della voce di Scalfari e con altri colleghi ci divertivamo a fare degli scherzi in redazione. Ad esempio chiamavo con l’interfono Barbara Spinelli con la voce di Scalfari e gli dicevo “Barbara puoi venire un attimo in ufficio?”. Lei andava in ufficio da Scalfari e gli chiedeva “Dimmi Eugenio” lui la guardava e gli diceva “guarda non mi sembra di averti chiamato”. Allora aspettavo che ritornasse in ufficio e poi la richiamavo “Barbara scusami mi sono ricordato che ti volevo dire”. E reiteravo questo scherzo. il licenziamento era invece una cosa che feci solo una volta ad un collega con cui non avevo splendidi rapporti. Lo chiamai, lui era un livornese, e con la voce di Scalfari gli dissi “Il giornale come vedi non va bene, stiamo perdendo copie e le notizie non sono più brillanti come un tempo, queste sono cose di cui sei tu responsabile”, lui allora prova a giustificarsi e a dirmi “Che devo fare, come posso cambiare?” Ed io inesorabile gli risposi “Ma che puoi fare, non puoi fare niente, è un processo irreversibile. Se vai al sesto piano trovi l’ingegner Piana con pronta la tua liquidazione”. Invece se devo pensare ad un giudizio su quel periodo devo ammettere che Repubblica in una prima fase era la speranza di una certa sinistra liberalsocialista, radicalsocialista, comunista dissidente, azionista, che poi naufragò con l’avvicinamento al PCI e con la fusione con Paese sera anche se fu un periodo per me altamente formativo e pieno di nuove e fondamentali esperienze.
I personaggi cardine della tua vita? Scalfari sicuramente poichè mi permise di viaggiare in giro per il Medio Oriente e nei paesi post comunisti poco dopo la fine del patto di Varsavia oppure affidandomi servizi letterari come quelli sul carteggio dei Fratelli Verri, e con queste letture e questi viaggi mi hanno permesso di avere una università di fatti e di esperienze che mi hanno permesso di conoscere il mondo oltre le lenti dell’ideologia. Mio padre che era un razionalista e un liberale e mi ha formato moltissimo e sicuramente Francesco Cossiga.
Antonelli:”Con Fontana per difendere i valori europei e liberaldemocratici della Lombardia”
Il 12 e il 13 Febbraio si svolgeranno le elezioni regionali in Lombardia per l’elezione del presidente di Regione e del Consiglio Regionale, una competizione elettorale che vede sfidarsi tra loro Attilio Fontana, già ex presidente della Regione, Letizia Moratti e Pierfrancesco Majorino. A sostegno della candidatura di Fontana i repubblicani lombardi hanno candidato Valerio Massimo Antonelli, segretario regionale della FGR e membro della segreteria nazionale del Pri. Antonelli, a 19 anni, è il candidato più giovane di tutta la competizione elettorale e con la sua candidatura vuole portare avanti una voce laica, repubblicana, europea e mazziniana all’interno della lista a sostegno dell’ex governatore.
–Perché ha scelto di candidarsi per le elezioni regionali in Lombardia e quali sono le principali iniziative che propone con la sua candidatura?
Ho scelto di candidarmi, come ho scritto nel mio messaggio elettorale, perché credo nella forza della politica, che è la forza del fare. Gran parte delle cose che oggi diamo per scontate si devono non alla provvidenza, ma a uomini che si sono rimboccati le maniche e hanno afferrato le grandi opportunità per la coda. Avendo 19 anni, credo di poter rappresentare bene il mondo studentesco. La sola città metropolitana di Milano dispone di sette università e più di 2000 scuole di ogni ordine e grado. È un mondo, di residenti come di fuorisede, che esige una solida rappresentanza nelle istituzioni, perché saremo noi in primis a pagare le conseguenze delle scelte di oggi.
–Quali saranno le iniziative che proporrete per rispondere alle esigenze del mondo giovanile?
È necessario un coordinamento sempre maggiore tra istituzioni regionali e scuola. Non di invasione dei reciproci campi, ma di reciproca collaborazione. Per questo sarebbe ottima cosa continuare a organizzare incontri come quelli promossi dal Consiglio Regionale della Lombardia l’inverno scorso, dal titolo “I giovani incontrano le istituzioni”, in giro per i licei, ma penso anche per le università. Credo che iniziative del genere, facendo educazione civica, sarebbero un primo rimedio contro il forte sentimento di antipolitica che tra i giovani purtroppo spopola. Un coordinamento più capillare con l’apparato scolastico e le consulte studentesche provinciali, andrebbe poi a beneficio soprattutto della Regione e degli enti che sono chiamati a decidere sul futuro dei giovani.
–Quanto sono attuali i valori repubblicani e mazziniani in questo scenario?
Tantissimo. Non solo in questo scenario. Da Mazzini e Cattaneo i Repubblicani vogliono solo un’Italia moderna. Che sia più giusta, ma anche più ricca e più libera. Sono orgoglioso di candidarmi nella circoscrizione di Milano perché qui è dove Giovanni Spadolini venne eletto consigliere comunale, con quasi 40 mila preferenze. Il quale non a caso, all’apice della sua carriera politica, amava definirsi “Senatore a vita di Milano”. Perché Milano è una città europea, civile, competitiva, moderna, dove il lavoro, e solo il lavoro, come pensava Mazzini, ha realizzato il futuro che oggi viviamo.
-Perché come Repubblicani avete scelto di proseguire il sostegno alla candidatura di Fontana?
Ha spiegato bene le ragioni l’amico Franco De Angelis. La candidatura Moratti è priva di un reale intento di governo, e il terzo polo che la appoggia altrettanto. Inoltre, dalle elezioni comunali di Roma sono molti gli episodi che hanno fatto pensare al Partito Repubblicano non solo lombardo che possano esistere alleati ben più validi. Quanto a Majorino, per sua stessa ammissione i valori liberali non lo riguardano. Fontana, invece, si è rivelato, al netto di una campagna mediatica segnata da una opposizione molto marcata, un amministratore equilibrato, moderato, che in certe zone della Lombardia, vedi Varese, ha fatto cose che non si era mai riuscito a fare da quando le regioni esistono.
-Quali saranno le priorità dei candidati repubblicani in questa competizione elettorale?
Porre l’attenzione sullo sviluppo economico di Milano, e della Lombardia, perché essenziale per la vita della regione; aumentare ancora di più l’attrattività verso i mercati, come ha fatto benissimo Fontana in questi 5 anni; guardare alla scuola (soprattutto a quella pubblica, perché la formazione dell’uomo libero non può essere lasciata alle paritarie) non come un bene secondario ma come la fonte di tutto il resto.
Mishima, storia di uno scrittore trafitto da una rosa
Di Francesco Subiaco
«Conosci il poeta che venne assassinato da una rosa?»
Yukio Mishima, non è solo il grigio dell’acciaio delle katane dei samurai, il rosso del sangue versato durante il seppuku quel lontano 25 novembre del 1970, o il candido dei crisantemi diafani dell’imperatore e del Giappone dei kami. È anche il giallo aureo del Padiglione d’oro, il nero delle uniformi conformi e tradizionali degli studenti Giapponesi, dietro cui si nascondeva il protagonista delicato e imperdonabile delle Confessioni di una maschera, il viola dei kimoni del teatro Nō e soprattutto è il cremisi fatale e sensuale della rosa e della maledizione che lo lega a questo autore straordinario e dannato delle lettere nipponiche. Tinte che mostrano come Mishima sia un autore ricco di imperdonabili e inconfessabili sfaccettature, che va letto e conosciuto alla luce di tutti i suoi colori proibiti. Yukio Mishima, infatti, vive nella sua figura l’equivoco di essere non solo un grande autore, ma soprattutto di essere un simbolo e una leggenda per gran parte della cultura controcorrente, definizione limitante per un autore di questo spessore. Mishima, infatti, non fu soltanto l’icona mitica e sacrale di una “destra divina” e ribelle, che trovava nel suo seppuku, compiuto il 25 novembre del 1970, il sacrificio di un Che Guevara conservatore e identitario oppure nella sua nostalgica battaglia per un mondo antico e panico la protesta antimoderna di un Pasolini patriottico e guerriero, ma fu anche tanto altro. Fu l’ultimo testimone di una kulturkamph tra identità nipponica e mondo moderno, tra le tentazioni della civiltà di massa e le estasi delle ierofanie dei kami, l’esteta armato che di fronte ad un plotone di soldati e di curiosi il 25 novembre offrì la propria vita in nome di una resurrezione spirituale e morale dell’uomo di fronte alla decadenza del Giappone contemporaneo, pregno di nostalgia degli dei e coraggio titanista. Un arcangelo guerriero del numinoso e dell’identità sciamanica e rituale di un sogno perduto e lontano che riflette l’idea per cui “se Dio non esistesse più bisognerebbe farlo rinascere”. Nella produzione di Yukio Mishima però non esistono solo “Sole e acciaio” e “Lezioni spirituali per giovani samurai”, ma c’è molto di più, c’è l’esteta decadente sacerdote della bellezza e martire dell’assoluto, c’è il cantore della desolazione spirituale del mondo che nel Mare della fertilità rese eterni i temi di sconforto e disperazione presenti nella sua sensibilità, c’è soprattutto l’autore puro e incorruttibile trafitto da una rosa che conservava fiori imperituri contro l’inverno dell’oblio e della perdita. C’è il protagonista controverso e innominabile delle lettere nipponiche che con il suo sacrificio volle mettere una firma, un finale su un’opera d’arte complessa e celestiale fatta di romanzi unici come la tetralogia de “Il mare della fertilità” e le “Confessioni di una maschera”. Per scoprire tutte queste sfumature di Yukio Mishima è fondamentale leggere e rileggere “Trafitto da una rosa” di Atsushi Tanigawa, editi dalla Gog edizioni di Lorenzo Vitelli. Tanigawa estetologo ed acuto conoscitore di Mishima traccia una cartografia dell’autore dei Colori Proibiti innescandosi proprio dal ricordo personale di quel 25 novembre del 1970, il giorno del seppuku, il suicidio rituale dei samurai, quello in cui Mishima si trafigge il ventre, come ultimo, estremo gesto. Da quel ricordo fatale nasce l’immersione totale di Tanigawa nell’opera di Mishima approfondendone le opere e i temi principali: la musica, la flora, il culto del corpo, le contaminazioni elleniche, quelle poetiche, da Rilke a Valéry, l’influenza dannunziana, la cultura liberty e l’identità profonda, tra D’Annunzio e Kawabata. Un viaggio in un mondo fatto di bellezza e morte, di sublime e vitalismo, in cui il lettore troverà un autore straordinario capace di sprofondare negli abissi dell’interiorità e di risorgere nella maestosità di un capolavoro nel richiamo dei passati perduti. Un viaggio tra delicatezza e sensualità, estetismo e ribellione, in cui la rosa, come una maledizione letteraria, incontra il destino di Mishima e dei personaggi, diventando la metafora del rapporto tra l’artista e l’assoluto, l’uomo e la bellezza, il corpo e lo spirito. Come il Rilke di un suo racconto, che si avvicina ad una rosa spinosa, seppur malato e vulnerabile, e ne viene trafitto mortalmente anche Mishima è trafitto dalla bellezza, dal numinoso, dalla potenza, che lo colpiscono, dissanguano e prosciugano fino a trasformare la sua vita in un esile vetro e la sua opera in un miracolo fragile e straordinario. Scoprire quindi l’opera di Tanigawa è scoprire e vivere il rapporto conflittuale e fatale con quella rosa ricca di echi e di misteri. È rivelare che l’opera di Mishima non è solo quella di un santino di una parte, ma il travaglio spirituale di una delle anime più profonde e malinconiche del novecento. Un autore che scrisse romanzi in cui i temi dell’omosessualità, del mito, del rapporto controverso con l’identità, con la cultura toccano, diventano scenari per mostrare con lucida disperazione i luoghi oscuri dell’animo umano, il vento divino e travolgente del sacro che attraversa le vite dei protagonisti rompendone tutte le certezze e conferme poiché “Le emozioni non hanno simpatia per l’ordine fisso”. La delicatezza piena di tatto e profondità che permeerà le atmosfere del capolavori di Nagisa Oshima, “Merry Christmas mr. Lawrence”, ricco di echi mishimiani (la colonna sonora di Ryuichi Sakamoto infatti si chiamerà Forbidden colours). Rileggere oggi il proclama conclusivo dell’esistenza di Yukio Mishima, con la consapevolezza che ci viene dalla lettura di “Trafitto da una rosa”, ci porta a guardarlo come l’ultima speranza, il finale inaspettato che si cela nel Mare della fertilità, un’ultima ribellione romantica dopo l’ammissione finale della Decomposizione dell’angelo (ultimo tomo del Mare della fertilità):”Sono venuto” pensò Honda “nel luogo del nulla, dove ogni ricordo è cancellato”. Un finale che Mishima col suo gesto voleva riscattare far risorgere con un gesto romantico e rituale poiché “la vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”.
Il mondo non è un palcoscenico, dove gli individui e i popoli inscenano il gioco delle parti, nella pantomima della storia e dei destini umani, ma è un campo di battaglia. Uno scontro aspro in cui le comunità e le nazioni duellano, sui terreni dell’economia, della strategia, della sopravvivenza. Un duello che oggi si può riassumere nella sfida tra le democrazie occidentali e le autocrazie. Una sfida che inizia dall’indomani della guerra fredda, che si è evoluta, nel contrasto per il predominio sul Mediterraneo e sull’Indo Pacifico. Oggi il braccio di ferro tra autocrazie e democrazie euroatlantiche, passa su tre scenari, tre diversi campi di battaglia, il confine orientale, teatro del conflitto tra Russia e Ucraina, il Mediterraneo, e l’Indo Pacifico, dove sull’indipendenza e la libertà di Taiwan passa il destino degli equilibri della scacchiera internazionale. Scenari e campi di battaglia che rappresentano i nuovi confini tra mondo occidentale e suoi partner etico-ideologici e le autocrazie e gli altri Rogue States. Per meglio comprendere le regole del campo di battaglia abbiamo intervistato Fabrizio Luciolli, Presidente del Comitato Atlantico Italiano e dell’Atlantic Treaty Association (2014-2020), è una delle voce più importanti dell’alleanza euroatlantica in Italia.
–In questa fase del conflitto tra Russia Ucraina quali possono essere le strategie e le soluzioni dell’Occidente per contenere le ripercussioni del caro energia? La strategia più efficace è quella di rimanere coesi, perché le ripercussioni economiche e sociali del conflitto, che non sono diretta conseguenza delle sanzioni come una certa narrazione russa è riuscita a veicolare in Occidente, possono essere superate solo attraverso un’azione solidale delle democrazie occidentali. Ciò è particolarmente vero con riferimento al tema energetico, dove esiste una asimmetria nei prezzi dell’energia all’interno dei diversi paesi dell’Unione Europea. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, questa situazione trova origine nell’insipienza con cui sono state operate le scelte del passato, come la volontà di dire no al nucleare in controtendenza con gli altri paesi europei e la più recente politica di assoggettamento solo ad alcuni fornitori nel settore energetico, nello specifico la Federazione Russa, che hanno portato il nostro paese a scontare, più di altri, il ricatto energetico di Putin. Per tali ragioni le uniche misure che possono mitigare le conseguenze di questo conflitto, prima della cessazione dello stesso, è avere come bussola questo binomio: coesione e solidarietà tra i paesi dell’UE. In tale prospettiva, l’Unione Europea ha attivato numerosi strumenti, ma è necessario organizzarli in maniera ben più coordinata ed efficiente al fine di pervenire a una diversificazione delle fonti, a una integrazione del mercato energetico e un abbattimento dei costi del gas.
–Quanto un ritorno al nucleare potrebbe agevolare una politica nazionale energetica autonoma da altri paesi come è stato con la Russia e la Libia in passato? La via del nucleare è un percorso da perseguire ma che permetterà di beneficiare dei suoi risultati solo tra dieci, quindici anni, secondo le più recenti previsioni. Nell’immediatezza l’Italia ha già intrapreso la strada della diversificazione delle fonti energetiche e dei relativi fornitori, e si stanno testando in prospettiva anche le potenzialità che possono scaturire dall’utilizzo dell’idrogeno, per esempio ricavato dai rifiuti. Tuttavia, nell’attuale criticità di approvvigionamenti energetici appare ineludibile rafforzare la cooperazione europea, anche creando reti volte alla interconnessione e scambio di flussi energetici in situazioni di emergenza così come già avviene nei paesi scandinavi.
-Come si evolverà il conflitto ucraino con il finire dell’autunno? L’arrivo dell’inverno e delle rigidità dettate dalle condizioni meteorologiche, condizioneranno le dinamiche del conflitto e potrebbero schiudere delle opportunità per un’azione diplomatica che è auspicabile vengano colte. Ad una fase in cui si vanno ridefinendo i rapporti di forza e nella quale Kyiv sta guadagnando terreno, potrebbe far seguito un rallentamento dei combattimenti che nei prossimi mesi avverranno su terreni fangosi, con frequenti piogge e che impediranno un agevole spostamento di mezzi corazzati. Una condizione che penalizzerà le manovre offensive da parte russa e che sarà aggravata dai congelamenti dei mesi invernali. Da parte russa, inoltre, la cosidetta “mobilitazione parziale” richiederà tempo, non solo per il reclutamento forzato di personale militare ma anche per dotarlo di un addestramento basico e successivo dispiegamento al fronte. Giovani riluttanti che, dalle immagini pervenute, appaiono equipaggiati con materiali obsoleti se non talora anacronistici e che si troveranno ad operare su terreni ghiacciati, in cui l’addestramento ricevuto in questi anni dalle forze armate ucraine farà la differenza. –Come valuta la strategia della Russia durante questi mesi? Putin ha fallito su tutti i fronti: sia sul piano strategico e militare, che su quello politico, diplomatico, economico e sociale. Fino al 23 febbraio scorso, Putin era riconosciuto dalla comunità internazionale come un leader affermato e un politico scaltro. Con il lancio della criminale “operazione speciale” d’invasione non provocata dell’Ucraina, Putin ha dimostrato di non saper capitalizzare il proprio prestigio internazionale sotto il profilo politico, diplomatico e negoziale, perseguendo una strategia fallimentare che in pochi mesi ha devastato oltre l’Ucraina, il suo stesso paese, che è stato impoverito da decine e decine di migliaia di morti. Una strategia che dalla “denazificazione” dell’Ucraina si è oggi palesata come una guerra all’Occidente condotta con una campagna militare criminale, che si va caratterizzando sempre più con azioni di carattere pressoché terroristico, quali il lancio indiscriminato di droni kamikaze sulle popolazioni civili delle città, piuttosto che volte a evocare il terrore dell’uso dell’arma nucleare. Una strategia che ha compattato l’Occidente, non più solo geograficamente ma valorialmente inteso, e che ha avuto come più evidente conseguenza la storica richiesta di adesione alla NATO di Finlandia e Svezia. Una strategia a cui fa riscontro il fallimento della campagna militare di aggressione all’Ucraina, testimoniata dai diversi cambi di guida e condotta delle operazioni russe sul terreno. A ciò ha fatto riscontro la compattezza dell’Occidente nel sostenere le richieste di aiuti militari e non di Kyiv secondo un principio di cooperazione internazionale in linea con quanto sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite per la legittima difesa del proprio Paese e dei suoi cittadini. Un principio che in queste settimane paesi come Spagna, Francia ed Olanda stanno inverando con l’invio di mezzi volti a dare una maggiore protezione dello spazio aereo dalla minaccia dei droni di produzione iraniana lanciati da Mosca. Sotto il profilo economico, l’impatto dell’azione di Putin sulla fragile e modesta economia russa appare altrettanto disastroso. Le riserve che prima del conflitto ammontavano a circa 600 miliardi di dollari già pochi mesi dopo il lancio dell’”operazione speciale” erano ridotte a 22 miliardi e sono attualmente stimate pari a 2,2 miliardi. Ciò nonostante, l’aumento spropositato del prezzo con il quale per tutto il 2022 i paesi occidentali hanno continuato ad acquistare il gas russo, anche in quantità superiori al fine di salvaguardare gli stoccaggi. Pertanto, considerato che dal 2023 ci sarà un generale affrancamento occidentale dalle risorse energetiche russe e non avendo la Federazione Russa un’economia diversificata, è verosimile prevederne il collasso economico. Sta all’Occidente e a paesi come Italia e Germania, mantenere un atteggiamento fermo e coerente, senza tentennamenti, per accelerare la presa di consapevolezza e la necessità da parte russa di cessare le ostilità belliche e sedersi a un tavolo negoziale. Una seria e credibile iniziativa che, soprattutto da parte europea, dovrebbe riflettere in prospettiva sul futuro della Federazione Russa. Sotto il profilo sociale, la campagna militare e la recente “mobilitazione parziale” non solo ha distrutto le prospettive delle nuove generazioni russe ma ha comportato la fuga dal paese di circa un milione delle migliori menti del paese. –Putin ha quindi commesso l’errore di portare nel conflitto anche la società civile russa? All’inizio dell’aggressione all’Ucraina lo stato maggiore russo era riuscito a tenere fuori dalle conseguenze del conflitto la società civile e, in particolare, le élites di Mosca e San Pietroburgo. L’attuale “mobilitazione” ha rivelato alla società civile russa il carattere di “guerra” all’Occidente e non più di “operazione speciale” regionale, minando quella compattezza nazionale russa che aveva caratterizzato le prime fasi del conflitto. Le ripercussioni economiche della guerra e delle sanzioni, il reclutamento forzato dei giovani hanno fatto venir meno l’unità del fronte interno a più livelli. Le minacce del possibile utilizzo di armi nucleari tattiche e le rappresaglie russe condotte all’indomani del crollo del ponte di Kerch con il lancio indiscriminato di 84 missili su obiettivi ucraini civili, non sono state accolte favorevolmente dallo stato maggiore russo, anche in ragione della scarsità di materiale militare che non è più in grado di riassortire. Si stima che alla Federazione Russa occorrerebbero circa 5 anni per ricostituire la forza terrestre dei tank e gli altri materiali militari andati distrutti in questi mesi di guerra. Evocare la minaccia nucleare così come il lancio terroristico da parte russa di missili e droni su obiettivi civili ucraini rappresentano un evidente segnale d’impotenza da parte russa, che cela, tuttavia, un indice di pericolosità, piuttosto che delle opportunità che non vanno entrambe sottovalutate.
Una strategia del terrore che si scontra contro la cooperazione internazionale dei paesi occidentali che grazie ad una compattezza ed unità comune forse riusciranno a trascinare Putin sul tavolo delle trattative per mettere fine a questa guerra. Per fortuna in questi giorni si vede qualche spiraglio …
–Può spiegarsi meglio? La strategia del terrore, evocata con la minaccia nucleare piuttosto che con il lancio di missili e droni, a fronte di una compattezza occidentale e resistenza ucraina, dischiude altresì degli spiragli di dialogo che potrebbero far presagire ad un rilancio di un tavolo negoziale. Recenti dichiarazioni da parte russa affermano, per la prima volta, che una soluzione diplomatica è possibile a patto che sia salvaguardata la sicurezza della Federazione Russa. –L’Occidente secondo lei saprà rispondere di fronte a questi segnali? Confido che l’Occidente sappia prefigurare uno scenario post-bellico non solo per ciò che attiene la necessaria ricostruzione dell’Ucraina, politica economica, sociale e di sicurezza, ma anche per ciò che riguarda il futuro delle relazioni con la Federazione Russa. Prospettiva, quest’ultima, che attualmente manca e che è quanto mai necessario sviluppare e favorire, anche per evitare a Mosca derive ancor più oltranziste. Se analizziamo le ultimi dichiarazioni di Putin e ascoltiamo attentamente le parole del suo discorso postreferendario, emerge quanto a Mosca stia assumendo maggior peso la componente nazionalistica che durante le più recenti fasi del conflitto ha attaccato le istituzioni militari russe, salvo la presidenza, reclamando una maggiore uso della violenza militare e con ciò acquisendo un crescente credito popolare e presso lo stesso Putin. Nell’attuale critica fase del conflitto, con una Federazione Russa in crisi e un inverno che potrebbe mitigare le crudeltà del conflitto, l’Occidente diversamente in difficoltà sarà in grado di mantenere una posizione coesa ed esprimere una leadership in grado di confrontarsi con Mosca e interdire i rischi di una potenziale deriva oltranzista? –Come giudica il ruolo di Erdogan nella scacchiera globale? L’analisi dell’azione della Turchia in questi e nei prossimi mesi non può essere disgiunta dalle preoccupazioni di Erdogan per le elezioni presidenziali del 2023. È verosimile attendersi una politica a carattere intermittente, così come sta avvenendo sul processo di ratifica dell’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO e sugli ultimi dossier, ricercando soprattutto il sostegno degli Stati Uniti per risollevare la lira turca vittima di una pesante inflazione e vedere garantita la solidità del confine orientale, in chiave anti PKK. E’, pertanto, nella chiave elettorale che andranno ponderate le azioni, anche di negoziato e visibilità internazionale, che verranno adottate da Erdogan nei prossimi mesi. –Sta nascendo una nuova guerra fredda tra Autocrazie e democrazie occidentali? Non credo si vada cementando un fronte delle autocrazie in quanto oggi più che mai il ruolo della Cina è preponderante e a lungo termine assorbirà nella sua orbita le altre, prima fra tutte la Russia che uscirà dissanguata dal conflitto con l’Ucraina. La vera sfida globale dell’Occidente è e rimane la Cina. Tuttavia, la sfida con Pechino oggi passa per Kyiv. Mi spiego meglio, in queste ore sta circolando un documento chiamato Kyiv Security Compact, dell’ex segretario generale della Nato Rasmussen e da alcuni paesi Nato, che vorrebbero un agreement, per rafforzare in maniera codificata il rapporto stabilito con l’Ucraina. Una relazione che sia più forte del memorandum di Bucarest del 1994, che annunciava delle garanzie di sicurezza da parte della Russia all’Ucraina in cambio della cessione delle armi nucleari dislocate sul suo territorio (uno di quei tredici trattati e accordi internazionali, violati da Putin con l’aggressione del 24 febbraio), e che possa garantire la stabilità del confine orientale attraverso un accordo più solido e più forte, che non rappresentanti la membership Nato dell’Ucraina, ma ne garantisca la propria sicurezza e capacità di difendersi. La strutturazione del rapporto con l’Ucraina ed una sua futura stabilità, permetterebbe alla comunità euro-atlantica di dedicare maggiore attenzione e risorse alla regione indo-pacifica ed alla sfida rappresentata dalla Cina, rafforzando i partenariati con paesi like-minded dell’area. In tale prospettiva, può prefigurarsi una polarizzazione del mondo ma non più delimitata da confini territoriali o geografici, ma da valori di libertà e del rispetto delle regole del diritto. Valori che hanno condotto paesi della regione dell’Indo-Pacifico a partecipare, lo scorso giugno, al vertice NATO di Madrid.
–Di fronte a questa polarizzazione quanto la partita tra queste diverse potenze si gioca su Taiwan? Taiwan costituisce un faro di democrazia nella regione dell’Indo-Pacifico e ha per l’Occidente una valenza strategica di estrema rilevanza allorquando si consideri che Taipei detiene il 66% della produzione tecnologica del mercato mondiale dei microchip e che quel piccolo stretto vede transitare annualmente il 50% dei container che arrivano in Europa e negli Stati Uniti.
–Quale dovrebbe essere la bussola del futuro governo Meloni? Quale presidente del Comitato Atlantico Italiano ho particolarmente apprezzato le dichiarazioni dell’On. Meloni laddove ha inequivocabilmente collocato l’Italia nel solco europeo ed atlantico tracciato dai padri fondatori della Repubblica, i quali ritennero che l’Italia potesse perseguire più efficacemente i propri interessi nazionali attraverso una partecipazione attiva in seno alle organizzazioni euro-atlantiche. Oggi, in particolare, è attraverso un rinnovato rapporto transatlantico e un ancor più incisivo ruolo nella NATO che l’Italia potrà bilanciare talune velleità carolingie di una Europa post-Brexit. Nell’attuale fase di ricerca di una nuova stabilità del sistema internazionale, l’Italia può costituire il perno insostituibile di una rinnovata comunità euro-atlantica che affronti le sfide del futuro, Cina in primis, con un approccio globale bilanciato anche sulla regione del Mediterraneo allargato, ove l’Italia si proietta con 8.000 chilometri di coste, da sviluppare per intercettare i traffici commerciali destinati all’Europa. Una centralità strategica e commerciale dell’Italia che confido il prossimo governo saprà perseguire.
Luciano Fontana è uno dei protagonisti del giornalismo italiano, che attraverso interviste, incontri, saggi ed editoriali ha raccontato la mutazione antropologica che dal 2018 ci ha portato ad essere non più un paese senza leader, bensì una nazione di guest star, istantanee ed effimere. Dalle interviste a Putin agli appelli del Papa, passando per il celebre confronto Letta-Meloni, la nascita del tecnopopulismo e la fine dell’ostpolitik europea, Fontana ha visto da dietro le quinte un mondo nuovo che va dalla fine del sogno antisistema alla rinascita del mito euroatlantico. Una mutazione antropologica e politica che aveva già raccontato nel 2018 nel suo saggio “Un paese senza Leader”(Longanesi) e che in questi ultimi anni ha subito cambiamenti e redenzioni inaspettate che lui ha potuto vedere come cronista, prima, e direttore, poi, tramite i numerosi incontri e confronti. Incontri che hanno accompagnato il percorso di un protagonista del giornalismo italiano, che da giovane corrispondente dell’ANSA di Frosinone è diventato il direttore del primo quotidiano italiano e che nonostante la crisi della carta stampata raggiunge livelli di consenso e vendite come non mai nella sua storia. Fontana nato in provincia di Frosinone, laureato in filosofia con una tesi su Karl Popper, autore cardine del suo pensiero, dal 1986 al 1997 ha lavorato per l’Unità, dove si è occupato di politica e cronaca giudiziaria. Nel 1997 è entrato al Corriere della Sera, dove nel 2003 è diventato vicedirettore, nel 2009 condirettore e nel 2015 direttore. È uno dei principi del giornalismo italiano, un uomo cortese, cauto, meticoloso, dalla voce calma e i lineamenti rassicuranti, sa essere equilibrato e aguzzo, quando parla arriva al succo del discorso, da Montanelli ha ripreso lo stile limpido e scarno, da De Bortoli il gusto del pluralismo, ha una visione britannica del giornalismo e forse per questo, in un panorama segnato da umori e istinti molto latini, è riuscito ha far convergere i consensi di schieramenti opposti, attorno alla sua figura. Abbiamo deciso di intervistarlo per capire se siamo ancora un paese senza leader e se saremo anche, data la crisi della carta stampata, senza giornalisti.
Direttore Fontana, l’Italia in preda ai personalismi vive il paradosso di non riuscire ad esprimere una leadership definita, come nel 2018, siamo ancora “un paese senza leader”? Siamo un paese con leader effimeri, soprattutto. Leader che diventano astri nascenti, prima, e poi rapidamente precipitano perché non hanno dietro di loro una piattaforma politica seria e fondata sui bisogni del paese, in quanto questi personaggi non hanno una prospettiva su dove portare l’Italia, non presentano programmi concreti, capaci di essere attuati nella realtà, e soprattutto non hanno una classe dirigente capace di applicare e realizzare nei territori queste loro proposte, quando esse dovrebbero essere, invece, il sostegno dei capi nella loro azione politica. Siamo di fronte ad una politica dell’istantaneità che corrode i rapporti politici, brucia personalità che inizialmente sembrano avere un successo ecumenico e che poco dopo scompaiono. Questo scenario continuerà finché non cambierà radicalmente la natura del rapporto tra politica e società, ricostruendo un tessuto politico che parta dal basso, dalle associazioni al territorio, fino a crescere con consapevolezza dei problemi del paese. Senza questa ricostruzione credo sia impossibile la nascita di un leader che come in passato possa dare una prospettiva al paese e guidarlo nei prossimi anni.
–Dalla nascita del governo gialloverde alla fine dell’esecutivo Draghi, come è cambiata la classe politica italiana di fronte alla crisi del populismo? Le considerazioni su questi cambiamenti possono essere fatte in chiaroscuro e presentano delle connotazioni sia positive sia negative su queste metamorfosi. Il 2018, infatti, anno dell’esplosione del populismo, si è aperto con due temi: la tendenza antieuropea della maggioranza delle forze politiche da una parte e una visione isolazionista secondo cui l’Italia poteva fare da sé, profondamente in contraddizione con tutto quello che il nostro paese è ed è stato dal punto di vista economico e politico (dato che l’Italia vive perché è aperto al mondo), dall’altra. Possiamo oggi notare, invece, che queste due questioni siano cadute ormai in secondo piano, e che la maturazione di una parte degli esponenti del Movimento 5 stelle e della Lega, insieme a quello che sta dicendo Giorgia Meloni sulla collocazione euroatlantica dell’Italia, siano due fenomeni positivi, che segnalano una maturazione delle forze politiche. Dal punto di vista delle considerazioni negative su quel periodo dobbiamo, invece, guardare quel che è rimasto del populismo, ovvero quella pulsione immediata che porta a considerare la politica come una risposta ai problemi della pancia del paese senza una progettualità a lungo termine, tramite una fiera delle illusioni che si sta manifestando nelle promesse dei programmi politici e che i partiti stessi che le propongono non potranno mantenere. Permane purtroppo di quella fase la caratteristica di portare avanti nel dibattito pubblico soluzioni semplicistiche ed istantanee di fronte a problemi complessi e seri che è un elemento ancora molto presente e preoccupante.
–Da direttore del principale quotidiano italiano, come sta evolvendo il giornalismo di fronte alla società dell’informazione perpetua e digitale e che ruolo resterà alla stampa di fronte a questi cambiamenti epocali? Io penso che quando ragioniamo del destino dei giornali non dobbiamo mai valutarlo come l’avvenire della carta stampata. La carta sarà un pezzo di un sistema mediatico che avrà in larghissima parte la sua funzione sul digitale, ed esso dovrà mantenere la stessa qualità, accuratezza ed indipendenza che aveva sul formato cartaceo. Se invece vogliamo parlare delle sorti del sistema dell’informazione ho una visione molto positiva, perché se metto insieme i lettori di tutte le piattaforme del Corriere della sera esso è letto oggi come non mai. È chiaro che in un sistema in cui l’informazione arriva da moltissimi punti diversi, dai social al web in maniera poco accurata o falsa, per propagandare interessi politici ed economici, è importante che il sistema dell’informazione faccia conoscere la propria qualità di aderenza ai fatti, la competenza e la libertà d’opinione dei propri agenti, e sappia essere una bussola per il lettore; un ruolo che è ancora più importante oggi durante il bombardamento delle informazioni approssimative a cui siamo soggetti. Se sapremo fare questo, distinguendoci dalla palude della falsificazione e dell’approssimazione, potremmo continuare il nostro mestiere sennò rischiamo di cadere nel mare magnum della mala informazione.
–Dall’Unità al Corriere della sera la sua carriera è costellatadi incontri e interviste ai protagonisti della nostra storia recente. Quali personaggi la hanno più segnata e a quali incontri è più legato? Dal punto di vista della mia attività professionale ci sono due incontri che considero molto rilevanti, uno più lontano ed uno più recente. Il più lontano è quello che ho avuto con Vladimir Putin nel 2015, che ritengo importante perché in quella occasione avevo già avuto la sensazione netta che fosse un uomo molto lucido e determinato nel suo disegno di ricostruzione imperiale della Russia, ma pensavo anche che fosse dotato di un certo pragmatismo che gli facesse avere la cognizione che esiste un limite nei rapporti internazionali che non va superato per garantire gli equilibri internazionali. Una constatazione che nel 2015 mi sembrava molto valida, soprattutto alla luce delle aperture che faceva al mondo occidentale dopo la prima crisi di Crimea, ma che oggi considerando ciò è accaduto in questi anni mi ha fatto molto rivedere la mia opinione passata su Putin. Il secondo incontro invece, quello più recente è stato quello con il Papa durante il colloquio che il Corriere della sera ha avuto con il pontefice in piena crisi ucraina e che mostra un Francesco molto deciso ed esplicito nel suo ruolo, critico verso le azioni e le scelte della Nato, ma con una presa di posizione nei confronti della Russia e contro la chiesa russa molto netta. Soprattutto per alcune sue dichiarazioni verso il capo della Chiesa Ortodossa russa Kyrill a cui il pontefice diceva che il patriarca non doveva essere “il chierichetto di Putin”. Una frase che a mio avviso resterà sui libri di storia. –Cosa la ha più colpita di questi personaggi? Putin più che colpirmi mi ha impressionato, poiché è un uomo capace di attraversarti con lo sguardo, in grado di incutere un forte senso di timore e potenza. Durante il nostro incontro aveva dimostrato di sapere tutto dell’Italia, in quanto fin dalle prime domande mi citò una serie di dati, di statistiche, molto specifiche che dimostravano una conoscenza approfondita del nostro paese, mostrandosi come un uomo dalla memoria portentosa, abituato a leggere molti dossier e a immagazzinare con estrema facilità tante informazioni, fatto probabilmente derivante dal suo passato di spia in Germania. Del Papa, invece, mi ha colpito la sofferenza e il coinvolgimento con cui affrontava queste vicende che si sommavano ad una chiarezza esplicita senza riserve nelle sue affermazioni che sono una forte novità rispetto al passato. Papa Francesco poi è un uomo molto ironico e spiritoso nelle sue conversazioni private rispetto a come può apparire in pubblico, tutto l’opposto del ricordo che mi ha lasciato Vladimir Putin. –Per lei che cosa è il mestiere del giornalista e come ha iniziato questa sua vocazione? Mi è sempre piaciuto fare il giornalista e questo mestiere è stato il sogno della mia vita fin da giovane. Un sogno che in alcuni momenti mi è parso difficile se non irrealizzabile, dato che sono nato in una piccola famiglia in provincia di Frosinone, in un contesto che non presentava molte opportunità. Già dal liceo avevo una forte curiosità e passione nei confronti del mondo e fin da quegli anni leggevo e scrivevo molto. Sono stato spinto dai professori e da alcuni amici a inseguire questo sogno e da alcune possibilità che mi hanno dato alcuni giornalisti, permettendomi di crescere. –In questo percorso chi sono stati i suoi maestri? All’Unità sicuramente Walter Veltroni che mi ha dato molte opportunità e fiducia, facendomi crescere in una esperienza che si voleva affrancare dalla vecchia tradizione del giornale, cercando di trasformarlo in una testata moderna capace di indagare una società nuova con uno sguardo oggettivo sul mondo che non è usuale per un giornale di partito. L’esperienza a l’Unità è stata per una scuola di formazione fondamentale per il mio percorso. Il Corriere della sera è invece, un mondo completamente diverso e la persona a cui devo sicuramente tutto riguardo a questa esperienza è Paolo Mieli. Mieli mi ha fatto assumere al Corriere, permettendomi di iniziare un percorso nuovo e fondamentale per la mia carriera. Ho imparato, sicuramente, molto da Indro Montanelli che inviava i suoi pezzi in redazione sempre brevi, chiari, espliciti e diretti, sviluppando con lui un rapporto di stima e rispetto. Ma la persona a cui devo di più professionalmente è sicuramente Ferruccio De Bortoli che mi ha insegnato il gusto per l’approfondimento, il rispetto del pluralismo, la serietà nel trattare i fatti, senza perdere però l’attenzione nell’andare a fondo nelle notizie senza avere paura di dire cose scomode o fare autocensura per paura di scontentare qualcuno. –Quali sono i suoi riferimenti culturali? Chi c’è nel Pantheon di Luciano Fontana? Dal punto di vista giornalistico direi Indro Montanelli, come riferimento filosofico invece Karl Popper, su cui ho fatto la mia tesi di laurea, soprattutto per la sua idea di società aperta, un atteggiamento mentale che è maturato con me nel tempo. Dal punto di vista politico penso soprattutto a Luigi Einaudi ed Alcide De Gasperi per le loro idee e per la forza etica che hanno trasmesso al loro agire politico nel ricostruire il paese nel dopoguerra, emtrambi sono stati due personaggi a cui tutti noi italiani dobbiamo moltissimo. Letterariamente parlando leggo moltissimi libri di saggistica, mi piace molto la narrativa americana, Philip Roth, Franzen, “Pastorale americana” e “Le correzioni” sono tra i miei libri preferiti.
Abbiamo intervistato Michele Polini, Presidente dell’Unione Romana del PRI, editore con Mauro Cascio dell’Almanacco Repubblicano, che dal 2019 è tornato ad essere fonte di dibattito nel panorama culturale nazionale. La capacità di innovarsi ed adattare in chiave moderna temi e valori storici ha permesso alla rivista di accrescere la propria fama, rivelandosi contenitore di visioni politiche, ideologiche e culturali spesso differenti tra loro. Siamo certi che il nuovo numero, prossimamente in uscita ed interamente dedicato alla Massoneria, si rivelerà opera interessante e formativa per i lettori.
Da quanti anni esiste L’Almanacco Repubblicano e come è nata l’idea di fondarlo?
L’Almanacco Repubblicano è la nuova riedizione, a cura mia e Mauro Cascio, nata nel 2019. Infatti, pensammo di rieditare la pubblicazione storica con le sue forme ed evoluzioni avute nel corso del tempo. L’idea originale fu di Giovanni Conti ed averla attualizzata ai giorni nostri riteniamo sia occasione di dibattito e confronto anche tra sensibilità differenti.
La rivista rappresenta e si basa su di una realtà storica come quella Repubblicana. Tuttavia, ha da subito dimostrato notevole capacità d’innovazione grafica e comunicativa. Quanto è importante saper adattare un contesto ai gusti attuali della popolazione, pur non smarrendo i principi ideologici di fondo?
È importante essere attuali, sapendo cogliere ed alcune volte anche anticipare le esigenze della popolazione. Pensammo alla prima edizione dell’Almanacco Repubblicano in un momento in cui si parlava di Europa, senza però che venisse trattato il tema con la dovuta attenzione. Pertanto, con l’emergenza pandemica l’argomento si è rivelato cardine per l’opinione pubblica, grazie anche agli interventi di sostegno messi in campo dalla UE. Anche in ragione di ciò, rispondere alle esigenze significa saper cogliere le sensazioni dell’economia, della socialità e del paese, attraverso una chiave di lettura che può essere di matrice repubblicana o meno, come dimostra la presenza di numerose firme provenienti da differenti fazioni ideologiche.
In che modo è nata l’idea di dedicare il numero del 2021 alla Massoneria?
È nata per dare un valore storico, culturale e politico al contributo che la Massoneria ha saputo dare alla nostra repubblica, in particolare al Partito Repubblicano. Infatti, molti degli appartenenti all’istituzione massonica erano repubblicani e molti esponenti del PRI erano massoni. Ricollocare nel giusto alveo culturale, valoriale e storico quello che è stato l’apporto massonico è stato da noi ritenuto passaggio importante. Attualmente i valori della repubblica sono molto sentiti, come dimostrano i riferimenti del premier Mario Draghi all’Italia Repubblicana. È dunque doveroso ricordare quello che è stato l’apporto massonico per ottenere l’unità dell’Italia ed ampliare i valori di uguaglianza che noi riteniamo fondamentali.
Come è possibile far trasparire la bontà di idee ed intenzioni della Massoneria al resto della popolazione, ben differenti da quelle riportate dall’opinione pubblica?
Sicuramente questo è un passaggio focale. Abbiamo dato parola a tanti esponenti, presenti nel nuovo numero, che non appartengono alla Massoneria. Pertanto, ne viene riconosciuto il contributo valoriale dato alla democrazia anche da chi non ne fa parte. Tuttavia, il racconto negativo di essa, incentrato su cospirazioni e manipolazioni è cosa da lasciare alle cronache.
Quali sono i principi cardine e storici della Massoneria italiana?
I principi cardine non possono che essere quelli della centralità dell’uomo e dell’individuo all’interno delle scelte politiche e democratiche. L’uguaglianza tra popoli e culture differenti, che superi discriminazioni e distinzioni tra sessi e ceto sociale è quello su cui si basa la Massoneria, attraverso universalità che si riconosca nella fraternità universale. Tali principi riversati nella politica li troviamo come parte predominante del pensiero repubblicano.
In chiusura, quali sono i futuri progetti editoriali dell’Almanacco Repubblicano?
Stiamo già ragionando sulla tematica che riguarderà l’edizione del 2022 della rivista. Trattasi di un tema di grande attualità, che richiede riflessione. Tuttavia, ancora non posso annunciare ufficialmente l’argomento, ma sono certo che si rivelerà fonte di dibattito e contenitore di spunti differenti, uniti dall’obiettivo comune di riportare al centro della riflessione politica e sociale la figura dell’essere umano.
Daniele Dell’Orco è un volto importante dell’ambito culturale e conservatore italiano. Fondatore ed editore della casa editrice Idrovolante, oltre che giornalista e direttore della rivista cartacea di Nazione Futura. Ha sviluppato la propria carriera all’insegna della libertà di pensiero, convinto che etichette e giudizi provenienti dall’esterno di qualsiasi contesto non debbano condizionare l’operato di chi ne sia parte integrante. Pertanto, grazie al suo impegno anche diverse tematiche storiche sono state pubblicate e pubblicizzate, risultando gradite ai lettori. Abbiamo dialogato con lui, al fine di scoprirne analisi e prospettive personali, oltre ai progetti futuri dei contesti di cui fa parte.
Cosa ti ha spinto, ormai più di 6 anni fa, ad intraprendere la carriera di editore?
Si è trattato di un percorso naturale, scaturito dagli studi in comunicazione e dall’esperienza accumulata in anni di collaborazione con altre realtà editoriali. Pertanto, nel 2015 ho ritenuto che fosse arrivato il momento giusto per far nascere un marchio editoriale indipendente, Idrovolante Edizioni.
Su cosa si basa l’idea di nascita e quali sono i principi della casa editrice?
È nata dalla necessità di reperire e valorizzare dei libri, in particolare quelli dei primi anni del ‘900, che erano ormai difficili da rintracciare, perchè usciti fuori catalogo o mai più ristampati dall’epoca. Rieditare in chiave moderna ed attuale questi testi è stata la principale ragione che mi ha convinto ad iniziare tale percorso. Tuttavia, non mancano in catalogo anche dei saggi strettamente contemporanei, riguardanti l’ambito filosofico o quello della narrativa.
Quanto è complesso superare gli ostacoli ideologici di una società come la nostra, spesso avversata da pensiero unico e politicamente corretto?
Credo che ci sia un equivoco di fondo: pensare che la cultura ed i concetti ad essa collegati debbano necessariamente essere di carattere limitante. Ritengo che i progetti culturali possano rivolgersi ad un target principale di lettori, senza però connotare per forza politicamente un progetto. Pertanto, la “scorretezza” viene spesso affiliata dall’esterno, dato che si tende a voler collocare anche i progetti culturali all’interno di un universo. Ritengo che tale premessa a cui siamo abituati sia completamente sbagliata, dato che un editore è di base un impreditore, oltre che un operatore culturale. Anche in ragione di ciò, in caso di fuoriuscita di idee che possano coinvolgere un margine di lettori più ampio è un dovere provare a pubblicarle.
Svolgi un ruolo importante all’interno di Nazione Futura, essendo direttore della rivista cartacea. Quali sono i vostri riferimenti ideologici e le proposte per l’attualità culturale e politica italiana?
I punti di riferimento potrei definirli infiniti, dato che Nazione Futura è un movimento di idee che nasce nel 2017 per essere mezzo di confronto e mediazione tra il mondo culturale e quello politico. All’interno dell’associazione sono presenti molteplici anime ideologiche differenti, che spaziano dai sentimenti conservatori e liberali a quelli della destra sociale. Tali visioni cercano di convivere e condividere un percorso comune, attraverso una mentalità che si rispecchia nel confronto e nella riscoperta della diversità.
Nazione Futura ha recentemente lanciato “L’agenda verde per il centrodestra” volta a sensibilizzare la creazione di un ambientalismo conservatore, che rispetti la natura ma non sfavorisca imprenditori e lavoratori. Quali sono le vostre proposte nel merito?
Il rispetto di imprenditori e lavoratori è la base delle nostre proposte, riteniamo lo sarebbe sempre dovuta essere per chiunque. Il tema dell’ecologismo è diventato molto popolare negli ultimi anni, anche se pure in ambito conservatore è sempre esistito. Tuttavia, si rischia di incappare in una deriva di carattere ideologico, quasi il tema fosse da anteporre agli altri campi di applicazione della vita societaria. Pertanto, l’ecologismo è un singolo campo di essa, da collegare e far coesistere con gli altri, senza però sfavorirne alcuno.
Sarà possibile ampliare e costruire, in accordo con il centrodestra, un fronte conservatore già in vista delle prossime elezioni politiche?
È ciò di cui si sta discutendo attualmente. Tuttavia, conteranno alla fine sentimento popolare e progetti effettivi dei partiti a lungo termine, da osservare anche a seconda delle discussioni interne ad essi. Anche la geopolitica svolgerà un ruolo fondamentale, con movimenti in ambito conservatore che stanno avvenendo in altre nazioni europee, che potrebbero generare ripercussioni in chiave elettorale alle prossime elezioni. Pertanto, sarà fondamentale da quì al voto costruire un fronte compatto e convincente per gli italiani, che superi le divisioni e le distanze presenti anche con il governo attuale tra i partiti del centrodestra.
Abbiamo intervistato il Sen. Dario Damiani, esponente parlamentare di Forza Italia, impegnato nella difesa di territori e comunità, in cui vede ancora oggi la strada per la rinascita nazionale. La necessità di ottenere un netto taglio delle tasse, maggiore libertà d’impresa e la partita politica del Quirinale sono state le principali tematiche trattate durante il dialogo con lui.
Ritiene che il prolungamento dello stato d’emergenza fino al 31 marzo sia uno strumento utile per contrastare la problematica sanitaria?
È evidente che tutti noi vorremmo lasciarci prima possibile alle spalle questa situazione che ci obbliga a ricorrere a strumenti straordinari come lo stato di emergenza, ma purtroppo anche le incognite legate alla variante Omicron, altamente contagiosa, per il momento ci costringono a tenere molto alta la guardia, per non perdere gli eccellenti risultati raggiunti finora dal nostro Paese nella lotta al virus grazie a una campagna vaccinale considerata un modello nel mondo.
In che modo prospetta la partita politica dell’elezione del Capo dello Stato?
Finalmente stavolta il centrodestra, a differenza delle precedenti elezioni, ha i numeri in Parlamento per poter dare la sua indicazione di rilievo nella partita per il Quirinale. Sono certo che sapremo aggregare intorno alla nostra proposta anche altri importanti apporti.
Di che misure economiche e sociali avrebbe bisogno l’Italia, al fine di ottenere una piena ripartenza?
Le misure per la ripartenza sono quelle che Forza Italia propone fin dall’inizio di questa drammatica crisi sanitaria ed economica. Rivendichiamo, infatti, la nostra coerenza nelle proposte, le stesse sia dall’opposizione che adesso in maggioranza. Tra queste, in primis il taglio delle tasse, e finalmente dopo quasi 50 anni abbiamo ottenuto la revisione delle aliquote IRPEF. La strada maestra per la ripresa è liberare risorse che diano a famiglie e imprese maggiori opportunità di spesa e investimenti.
Sarebbe favorevole ad una maggiore unità delle tre forze di centrodestra, nell’ottica della creazione futura di un partito unico?
Il centrodestra è nato 27 anni fa grazie alla straordinaria intuizione e lungimiranza politica del nostro Presidente Silvio Berlusconi, per cui sono favorevole ad una ulteriore modalità di unità, anche nella prospettiva di un partito unico, magari attraverso lo step intermedio della federazione.
In che modo sarebbe per lei possibile avvicinare le nuove generazioni alla politica?
La mia generazione è stata purtroppo l’ultima a formarsi politicamente nelle sedi di partito, attraverso il confronto diretto fra opinioni ed esperienze. Oggi questo non accade quasi più e negli ultimi anni anzi è passata addirittura l’idea che si possa fare politica senza un’adeguata formazione. Al contrario, invece, ritengo che competenze specifiche e formazione “sul campo”, sui territori, siano indispensabili. Con l’avvento del web, dei social, tutto il mondo della comunicazione, compresa quella politica, è cambiato. Si tratta di strumenti che possono rappresentare un’opportunità, un canale per intercettare l’interesse dei giovani e avvicinarli alla politica.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Mi auguro di continuare a occuparmi di politica in ambito nazionale, come ho l’onore di fare da quasi quattro anni, mantenendo sempre ben saldo il rapporto con il mio territorio a beneficio della crescita e dello sviluppo delle nostre comunità.
Partiamo subito! Capo staff della comunicazione del Presidente Anna Maria Bernini, e dal 2020 Vice Coordinatore Forza Italia per l’Emilia Romagna, quale dei due ruoli lo trova più appassionante?
La politica in ogni sua declinazione è passione. Lo era anche quando, da giovane studente di Scienze Politiche a Bologna, venivo coperto di insulti (e non solo) durante i volantinaggi. Inutile negare che l’esperienza con il Presidente Bernini mi stia arricchendo sotto tanti punti di vista e mi sta permettendo di imparare cose che i libri non avrebbero mai potuto insegnarmi. Le devo molto.
Molto del suo tempo è speso nelle sale del Senato, davvero è quell’ apparato statale lento, macchinoso, improduttivo e costoso, come spesso viene definito (così come la camera dei deputati)?
Assolutamente no anzi. Le istituzioni hanno però certamente tempi e meccanismi delicati quanto importanti. In Senato ho la fortuna di interfacciarmi con funzionari di Stato di altissimo livello. Donne e uomini con cultura ed esperienze invidiabili.
Pausa dalla politica, in cosa era impegnato Aldo Marchese prima della “chiamata in politica”?
La malattia per la politica ahimè ce l’ho sin dalla culla, quindi non esiste un “prima”. Dopo aver conseguito un Dottorato di ricerca e girato un po’ l’Europa per motivi di studio, ho lavorato, per diversi anni, come direttore marketing di un’azienda medicale del bolognese. Nel tempo libero, essendo scarsissimo con i piedi, ho fatto l’arbitro di calcio riuscendo a fare una discreta carriera nazionale.
Torniamo a noi, capo della comunicazione. Oggi Forza Italia ha un calo di consensi, e nonostante sia stato, grazie al Presidente Berlusconi, il partito che ha inventato una nuova comunicazione, oggi è indietro rispetto ai suoi alleati. Come è cosa deve cambiare?
A Forza Italia va il grande merito di aver completamente rivoluzionato, nel 1994, la comunicazione politica in Italia. Oggi Forza Italia soffre della stessa crisi di tutti i grandi partiti moderati e conservatori delle democrazie occidentali. I social network hanno stravolto il modo di fare comunicazione politica in pochissimi anni e personalmente ritengo non in meglio. I contenuti, spesso anche di bassa qualità, che invadono i social, producono meccanismi distorti nella comunicazione: riescono nell’intento temporaneo di intercettare masse di voti che, però, risultano molto ‘fluidi’, spostandosi facilmente verso quei partiti che sanno, in quel momento, meglio interpretare il sentimento di protesta e il “malpancismo”. Ma non credo che questo sia un vero consenso. La coerenza dei partiti moderati paga sul lungo termine, quando scompare l’illusione del finto cambiamento e le persone si rendono conto che governare è una cosa seria. La tragedia della pandemia, nonostante tutto, credo abbia saputo risvegliare le coscienze delle persone dalla pericolosa fascinazione del populismo/qualunquismo. Uno non vale uno e le soluzioni alle enormi sfide della contemporaneità non possono essere contenute in un tweet o in una grafica su Facebook. C’è un disperato bisogno di esperienza e competenza. In questo senso Forza Italia, con la sua classe dirigente, può, anzi deve tornare assoluta protagonista.
Domanda scomoda, ma necessaria. DDL Zan. Affossato proprio in Senato, più per demeriti della sinistra che per meriti del CDX (parere personale); come mai un tema così importante, la coalizione di cui fa parte FI o la stessa FI, fatica a fare proprio ?
L’Italia ha estrema urgenza di dotarsi di una normativa che punisca i reati a sfondo omotransfobico: siamo, infatti, l’ultima grande democrazia occidentale ad essere scoperta in tal senso. Il suo significato simbolico, più che operativo, sarebbe molto importante per tutta la nostra società. Poi è chiaro a tutti che non si può impedire alle persone di odiare con una legge, magari fosse così semplice. Il Partito Democratico è il vero mandante dell’affossamento del DDL Zan. Lo dicono i numeri del voto e lo dice l’atteggiamento “dispotico” con cui hanno provato ad imporre un testo così mal scritto all’Aula del Senato. Tutti gli addetti ai lavori sapevano che i numeri non c’erano ma forse era proprio questo l’obiettivo di Letta. Posso testimoniare l’impegno che il Presidente Bernini ha messo nel cercare di trovare una sintesi e portare a casa un risultato coerente. Forza Italia, nella sua componente più autenticamente liberale, era pronta a fare la sua parte, bastava davvero poco e le espressioni del volto di Bernini e di molti altri Senatori di Forza Italia impietriti al momento della comunicazione del voto parlano da sole. I giallorossi hanno preferito la conta e hanno perso. Una parte del Centrodestra ne è uscita malissimo, quell’esultanza è stata davvero una brutta, bruttissima scena. Capisco l’enfasi politica data la tensione creata ma non c’era da festeggiare; quando in Parlamento accadono queste cose è sempre una sconfitta. Tuttavia credo sia sbagliato pensare che i diritti civili siano una esclusiva delle sinistre. Nel resto del mondo i grandi partiti liberal-conservatori sono protagonisti su questi temi. I matrimoni per le persone dello stesso sesso, per esempio, sono stati istituiti dai Conservatori in Inghilterra o grazie ai voti determinati di CDU/CSU in Germania. Stesso copione in Belgio, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia etc. Anche in Italia il centrodestra deve cominciare seriamente a occuparsi di questi temi: penso sia un errore lasciare il campo solo alle sinistre.
Rilassiamoci… progetti per il 2022 ?
Rilassarmi è spesso difficile, ma ho scelto la vita che faccio (anche se non è sempre facile). Il 2022 sarà un anno pieno di nuovi progetti con il Presidente Bernini, con Forza Italia e soprattutto con la mia Bologna! Dobbiamo assolutamente lavorare sulla formazione delle nuove generazioni di politici di ispirazione liberale. Mi prenoto per un po’ di relax nel 2023… Ah no si andrà al voto, niente.
Grazie del suo tempo, e prima di chiudere, fa un saluto a Generazione Liberale ?
Assolutamente si auspicando che la nostra generazione riesca nell’impresa di rendere l’Italia una democrazia sempre più autenticamente liberale.
“La morte fa pensare perché fa soffrire e ci vuole coraggio, lo stesso coraggio che ci vuole per mettersi in viaggio per cercare le risposte alle vere domande. L’uomo è un viatico, alla ricerca delle risposte vere, alla ricerca di ognuno di noi. È una proposta in realtà: stringimi le mani per fermare qualcosa che è dentro me…” Non poteva chiudersi in una maniera più alta la lunga e articolata analisi con cui Morgan introduce il capolavoro di Lucio Battisti “Emozioni” e che, attraverso un’atmosfera calda e notturna, accompagna con la chitarra Dolcenera che seduta al piano s’immerge come non mai in un brano senza tempo che commuove ancora. Questo è ciò che Marco Castoldi in arte Morgan è riuscito a creare attraverso quella rivoluzione televisiva e culturale che è stata “STRAMORGAN“, il programma ideato dallo stesso Morgan e condotto insieme a Pino Strabioli, andato in onda per quattro sere consecutive a partire dal 10 aprile. Quattro puntate totalmente diverse tra loro che formano un empireo della musica contemporanea i cui punti sono tra i più alti e dove lo stesso Morgan, a dispetto di quanto detto da taluni scribacchini del giornalismo nostrano, non getta il faro su di sé piuttosto si fa tramite, medium come nella migliore tradizione simbolista, con un sentimento che eleva, trascende, evoca, sottolinea, sfuma ed allude le corrispondenze che si nascondono in quella liturgia dell’assoluto che è la canzone. Un programma che non ha altra protagonista che la musica, omaggiando la grande cultura non soltanto musicale ma anche televisiva italiana, riproponendo in tal modo una vera forma di servizio pubblico, (però privo degli stucchevoli patetismi che si associano a questa espressione), ai telespettatori e senza mai “passare dalla cassa”, citando Gaber. Questa è la forza di un programma notturno che, seppur per poco tempo, ha accompagnato coloro che cercano attraverso la televisione una porta verso altre dimensioni, verso l’astratto anche, verso tutto ciò che i diversi piani del multimediale offrono e che la tv italiana ha saputo mettere in campo negli anni ‘60 ad esempio. Ecco, qui vi è proprio quella capacità di fornire uno spettacolo in grado di intrattenere con cultura, di far comprender con chiarezza, e qui sta la maestria, argomenti dal forte carico intellettuale e in alcuni casi filosofico-esistenziale. In ogni puntata, ad ogni mito della canzone italiana corrispondeva il suo riflesso di altra lingua, come uno specchio in cui le due figure s’intrecciano, si compensano e dal cui dialogo (o tocco) nascono scintille: Modugno – Elvis, Bindi – Mercury, Battiato – Eno, Battisti – Bowie. Accoppiamenti giudiziosi, affinità elettive che vogliono creare una nuova sintesi culturale, una sinestesia di emozioni che non vuole solo mostrare le meraviglie della cultura musicale, ma anche risvegliare il nostro senso di meraviglia per la canzone e le sue Alchimie di note. Una alchimia fondata sulla sperimentazione, sull’atto di creare mentre si è all’interno del pathos emotivo lasciandosi andare alle visioni notturne (come accade ad esempio nelle riproposizioni de “L’uomo in frack”, “Arrivederci”, “L’era del cinghiale bianco” o nel medley tra Battisti e Bowie dell’ultima puntata) con una capacità straordinaria di coinvolgere lo spettatore dall’inizio alla fine legandolo allo schermo e coinvolgendolo in uno spettacolo di lucidità alterate dove il flusso di ricordi, le analisi e le esecuzioni sono un tutt’uno tra loro, come in un sortilegio. Morgan e Strabioli creano, con eleganza, in questo modo un programma che si rivela man mano un inno alla notte, unico nel suo genere come “Fuori Orario – Cose (mai) viste” di Enrico Ghezzi, un altrove dedicato a tutti gli irregolari, a coloro che hanno percorso una strada in direzione ostinata e contraria, come del resto ha sempre fatto lo stesso Morgan. Numerose sono state le interazioni sonore che hanno contribuito a dare lustro al programma: Vinicio Capossela, Paolo Rossi, Gino Paoli, Giovanni Caccamo, Chiara Galiazzo, Tony Hadley, Avincola, Dolcenera. Dunque, Stramorgan è un atto rivoluzionario nel panorama italico, una finestra su un cortile dove è il sogno a dominare la scena e la cui via probabilmente non la troveranno tutti ma senza alcun dubbio sarà ricordato negli anni a venire, come un grande laboratorio culturale ed artistico. Vedendo StraMorgan non ci si potrà non commuovere dalla combinazione di intrattenimento e poesia, che accompagna momenti indelebili come quando Morgan al piano canta “Il nostro concerto” di Umberto Bindi mentre l’orchestra e le Sagome lo accompagnano ed è in quel momento che una strana magia si fonde a quel sentimento nostalgico non soltanto rivolto al passato ma anche e soprattutto a quelle cose, per dirla con Bene, che non ebbero mai un cominciamento. Ecco, quando si è davanti a tutto questo si resta in silenzio per qualche secondo, forse con gli occhi lucidi, e allora si pensa al fatto che non tutto si può capire ma ciò che si avverte: “Tu chiamale se vuoi…emozioni”.
Emozioni che alternano note e confessioni, canzoni e elevazioni, tra il sacro e il profano in cui dai suoi dialoghi con gli spettatori, alle sue considerazioni inattuali, fino ai suoi momenti di confidenza con il pubblico, si mostra quanto Morgan, abbia in sé un temperamento poetico, scapigliato, crepuscolare, intimo, ma anche esplosivo, imperdonabile, rock, che in questi momenti e in queste emozioni si fondono magistralmente dimostrando un animo baudelairiano, tra la cavalleria e la ierofania, il cantautorato degli anni 60 e il romanticismo.
Morgan è, infatti, l’ultimo paladino dei diritti del sacro e dell’armonia , che cerca di difendere l’antica dignità delle arti e della musica nel mondo dell’accesso e della tecnica, non piangendosi addosso ma riuscendo, poeticamente, artisticamente, criticamente, a fare sentire la sua voce. La voce di uno spirito libero, la voce di chi non si nasconde dietro le finte proteste del conformismo degli anticonformisti, ma trova la sua rivolta nella canzone, nella bellezza, nel miracolo dell’arte che alla solitudine del cittadino globale propone la sintonia e i legami tra gli uomini, alla superficialità la sensibilità, ai trucchi dello star sistem la magia della più nobile tradizione del cantautorato, italiano e non, che in queste serate rievoca. StraMorgan non vuole soltanto fare capire al pubblico la grandezza e la profondita del significato delle canzoni di questi autori, vuole che essi siano in grado di sentirla, di viverla. In tal maniera Morgan riesce non solo fare battere le loro mani, ma anche i loro cuori.
Polini: “Dalla Repubblica Romana alla lotta contro i totalitarismi“
Di Francesco Subiaco
Oggi 25 Aprile in occasione delle celebrazioni del 78° anniversario della sconfitta del nazifascismo, i repubblicani romani hanno organizzato una manifestazione politica e culturale per commemorare la Resistenza e ribadire i valori che ne hanno incarnato l’azione attraverso un evento intitolato “Dalla Repubblica Romana alla lotta contro ogni fascismo”. La manifestazione si svolgerà alle 11 alle ore 13 sulla terrazza del Gianicolo alla statua di Giuseppe Garibaldi, dove gli esponenti dell’unione romana ribadiranno e celebreranno i valori liberaldemocratici che hanno mosso l’azione del Pri e delle forze laiche durante la Resistenza, alla luce della tradizione mazziniana e delle sfide del presente. Durante l’evento interverranno Saverio Collura della direzione nazionale del Pri, Riccardo Bruno direttore politico de La Voce Repubblicana, Pino Pelloni della Fondazione Levi Pelloni, Simone Ascoli, Carlo Camangi e Michele Polini segretario dell’Unione comunale del Pri di Roma.
“Il 25 aprile, è una festa che rappresenta non solo la liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista, ma che in verità incarna soprattutto la celebrazione della libertà, dell’anelito dei popoli ad essere padroni del proprio destino contro le oppressioni dei totalitarismi e le discriminazioni dei fanatismi ideologici”. Ha così commentato preliminarmente il segretario dell’Unione Romana Michele Polini, prima dell’avvio della manifestazione, rinnovando l’importanza di questa celebrazione poiché “oggi è più importante che mai rinnovare la memoria del 25 Aprile, perché è fondamentale in questo scenario di conflitto e di tensioni internazionali rinnovare i valori della libertà dell’individuo e dei popoli contro nuovi tentativi aggressivi e dispotici”. Ribadendo di fronte alle rievocazioni della storia del Partito Repubblicano, dalla Repubblica Romana fino alle controversie internazionali recenti prodotte dalle sfide delle autocrazie, l’importanza della “libertà, connessa indissolubilmente con la democrazia e con l’autodeterminazione dei popoli come valore fondante della nascita della nostra Repubblica e dei valori sia del nostro Partito che della Costituzione”. Sottolineando sulla scia di commenti autorevoli che il 25 aprile è “una festa di tutti e che appartiene a tutte le grandi forze politiche del Paese che trovano nei valori liberaldemocratici il fondamento di un dialogo comune che vede nella visione suprema della difesa della dignità e libertà dell’uomo un suo fondamento”.
“Questo è il Dovere supremo dell’uomo che lotta: incamminarsi verso l’alta vetta raggiunta da Cristo , il primogenito della salvezza. Come possiamo cominciare? Se vogliamo seguirlo, dobbiamo conoscere a fondo il suo conflitto, dobbiamo rivivere le sue angosce: la sua vittoria sulle insidie fiorite della terra, il suo sacrificio per le grandi e piccole gioie degli uomini e la sua ascesa di sacrificio in sacrificio, di battaglia in battaglia, di elevazione in elevazione fino, al culmine del martirio, la Croce. (Nikos Kazantzakis, L’ultima tentazione)
Perseguitato dal suo destino, abbandonato in una terra arsa dalla fame e dalla rivolta, in una notte infuocata e insopportabile tra i deserti della Palestina, il Cristo è vittima di un incubo. Sogna gli apostoli che vengono a richiamarlo per compiere la sua missione, sogna il destino di sacrificio e di redenzione che il suo padre celeste ha scritto per lui, sogna la sua fine fatta di abbandoni e di martirio e questo sogno gli appare come un incubo e una persecuzione. Infatti, dopo una notte inquieta ed agitata si sveglia e torna alla sua vita di piccolo falegname di una provincia ribelle del più grande impero del mondo antico. È ancora troppo presto e quel destino che sente più che come una vocazione, come una maledizione gli sembra ancora lontano e nel silenzio della sua bottega pensa ancora di sfuggirgli. Ma tutti i giorni che precedono la sua chiamata, non sono altro che delle prove tecniche di resurrezione, dei rituali preparatori del suo destino, sfuggirgli è solo un’illusione, tutto si compirà. Cristo non è un falegname come gli altri un giovane qualunque che vive nascostamente tra gli uomini, ma anzi è odiato dal suo popolo, è visto come un traditore, un crumiro della causa di Israele perché è un crocifissore. Un uomo che prepara e porta le croci sui tanti calvari della Palestina per consegnare ai ribelli di Israele gli assi dell’esecuzione dei romani che con quelle croci, le stesse che un giorno lo circonderanno sul Golgota, estirperanno le speranze e le vite dei tanti Messia pronti a sacrificarsi per la libertà di Gerusalemme. Proprio in una di quelle esecuzioni mentre porta la croce per un Maccabeo, il Cristo scorge il suo destino, quel giorno non è una simulazione del suo destino, ma una sua anticipazione, già quel giorno la sua passione inizia e lo accompagnerà fino alla sua fine. Si apre con questa narrazione il primo magistrale capitolo de “L’ultima tentazione” di Nikos Kazantzakis (Crocetti). Un romanzo straordinario con cui Kazantzakis non vuole solo scrivere una rivisitazione in chiave umanistica dei fatti e dei detti del vangelo, ma con essi realizza un vero e proprio apocrifo moderno, l’ultimo, il più straordinario. Un apocrifo che non mostra un Cristo gnostico o orientale e mistico, bensì un Cristo umano, ma non blasfemo, terreno ma non materiale. Non è né un rivoluzionario né una super star è un uomo che soffre, che piange, che sanguina e che esita. Seppur ha fede trema, seppur divino è vulnerabile ai dolori e alle piaghe della vita.
L’opera segue le vicende del profeta nei suoi ultimi anni di vita, dal pellegrinaggio nel deserto alla crocifissione, dall’abbandono della casa natia alle ultime tentazioni che lo accompagneranno sulla croce. Non è però un Cristo esclusivamente terrestre, umano e carnale quello descritto da Kazantzakis. La sua storia è densa di miracoli, il suo destino è impregnato delle sorti dell’assoluto, delle estasi del soprannaturale. Materia e spirito, terrestre e numinoso, sangue ed anima si intrecciano nelle pagine di Kazantzakis che sia grondano del sangue dei rivoltosi e della corona di spine del Rex iudeorum, sia sono inebriate dall’incenso dei templi e dei luoghi sacri che resistono tra i deserti del mondo antico, creando l’immagine di una passione caravaggesca in cui i corpi nodosi, mortali e infestati di dubbi e piaghe dei suoi personaggi si contaminano di grazia, di mistero, di salvezza. La vicenda de “L’ultima tentazione” accompagna il lettore in una cronaca sinottica, ma apocrifa di quella evangelica fino ad arrivare all’attimo della crocifissione, al momento in cui proferendo quel celebre “Eli Eli lama sabactani”(Dio Dio perché mi hai abbandonato) si abbandona al suo irrimediabile destino, immolandosi per l’umanità intera dimostrando che nessuna rivoluzione materiale è sensata senza resurrezione spirituale. In quel momento però il Cristo viene colto da una folgorazione, il suo padre celeste ha mandato un emissario a salvarlo, il suo sacrificio non sarà consumato, il suo destino sarà libero da questa maledizione, la sua missione è stata compiuta ed ora, salvato da un angelo, può scegliere di tornare ad una vita semplice seguendo insieme alla Maddalena una esistenza familiare e casalinga. Un sogno da cui però viene risvegliato grazie al pensiero dei suoi apostoli e alla consapevolezza del suo compito. Ha esitato, ha tremato di fronte all’ultima tentazione del peccato, ma il suo turbamento non è una prova della sua sconfitta bensì un sintomo della sua lotta. Una lotta che anche di fronte alle tentazioni sulla croce del maligno può essere affrontata, può essere vinta. In questa senso tutta la storia del Cristo può essere letta come quella di un modello supremo di ogni uomo che lotta, della lotta eroica che ogni uomo conduce e che non solo può essere vinta, ma già lo è stata. Il Cristo di Kazantzakis infatti non è un santino o uno sfondo aureo di una bella e distaccata agiografia, ma è un mito, un modello, un esempio. Un martire dell’umanità che sceglie la via della redenzione, della salvezza, della lotta consegnandosi al mondo e ai suoi tormenti non con serafica compostezza, ma con i dubbi, con le passioni e le paure di un uomo, con la disperazione di un uomo mortale e con il disincanto e la rabbia di un Dio che osserva un destino che sfugge al suo controllo, mostrando non solo quanto è difficile essere un Dio, ma soprattutto quanto è difficile essere un uomo. Un Cristo proibito che è costato al suo autore l’esilio morale e proscrizione, l’odio delle gerarchie ecclesiastiche e l’oblio della cultura accademica, ma che a distanza di secoli può riscattarlo, può mostrargli che anche la sua battaglia è stata vinta. Nell’opera infatti si sentono gli echi della sua Ascetica e le tensioni della sua Odissea e dietro alla maschera di questo Cristo proibito ed apocrifo si cela quella di Nietzsche, di Zorba, di Odisseo e del suo autore, di una filosofia della lotta e di una teologia eretica imperdonabile e numinosa, sacra e popolare, carnale e soprannaturale il cui contenuto non è solo amplificato dallo stile di Kazantzakis, ma è ad esso intrinseco. Uno stile carnale e puro, pasoliniano e caravaggesco, classico e moderno in cui le parole sembrano risvegliarsi dal silenzio della scrittura ed iniziano a risvegliarsi, a risorgere, a sanguinare ancora come carne viva, come verità e realtà profonda dell’uomo e non come mere descrizione del suo travaglio. Una cronaca trecentesca, tra i martirii di Caravaggio e la durezza del “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini, tra l’incenso della mistica cristiana e il sangue del sacrificio del popolo greco durante l’ottocento, gli abissi di Dostoevskij e le illuminazioni dello Zarathustra. Un romanzo straordinario e struggente scritto dal più imperdonabile degli scrittori greci per raccontare la passione di Cristo in tutta la sua celestiale umanità.
Urso:”La Sovranità tecnologica sarà il fondamento della nostra indipendenza strategica” i commenti di Checchia e Luciolli
Di Francesco Subiaco e Francesco Latilla
Il 16 marzo si è svolta presso la Nuova Aula dei Gruppi Parlamentari della Camera dei Deputati la conferenza “Sovranità tecnologica e indipendenza nazionale”, organizzata dalla Fondazione Farefuturo in collaborazione con Digital Policy Council. Dopo i saluti da parte del Segretario Generale della Fondazione Farefuturo, Matteo Gelmetti, e del Presidente del Digital Policy Council, Valerio De Luca, sono seguiti gli interventi del Ministro delle imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, e la lettura del messaggio di buon lavoro da parte del Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani.
Un intervento quello del ministro Adolfo Urso che ha sottolineato l’importanza del tema della sovranità tecnologica “per l’Italia e per la nostra Europa affinché non si trasformi il nostro continente in un polo museale, ma invece lo si trasformi in un polo tecnologico per lo sviluppo globale”. Una visione che, come ha affermato il ministro per lo sviluppo economico ai nostri microfoni, è fondamentale perché “difendere la sovranità tecnologica è una delle nostre priorità ed è per questo che il governo italiano si è impegnato in questi giorni in Europa anche per far capire che il 2023 dovrà essere l’anno di una politica industriale comune e della realizzazione di una sovranità tecnologica europea fondamentale per la realizzazione di una nostra vera indipendenza strategica”. Un progetto di lunga prospettiva, da svolgere insieme ai partner euroatlantici che dovrà essere perseguito al meglio “perché l’Occidente deve tornare in campo e l’Italia dovrà svolgere un ruolo fondamentale per dare il suo contributo in questa azione”.
Ad aprire il dibattito del primo tavolo tematico sullo “Stato stratega”, il Presidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari, Giulio Tremonti, e a seguire gli interventi del Vicedirettore generale dell’Agenzia nazionale per la cybersecurity, Nunzia Ciardi, dell’Economista Roberto Pasca Di Magliano e del Docente degli Studi Strategici, Paolo Quercia, moderati dal Direttore delle Relazioni Internazionali Farefuturo, Ambasciatore Gabriele Checchia. Il secondo tavolo di discussione incentrato sulla “sovranità tecnologica oggi”, ha visto gli interventi del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega all’innovazione, Alessio Butti, del Presidente della VII Commissione permanente della Camera, Federico Mollicone, del fondatore e presidente del “Centro Economia Digitale”, Rosario Cerra, del presidente di STMicroelectronics Italia, Giuseppe Notarnicola, del vicepresidente Global Market Development WWS at Microsoft, Antonio de Palmas, del direttore Affari istituzionali ed Europa Centro e Sud Orientale di Amazon Web Services, Franco Spicciariello, dell’AD e direttore generale del Polo Strategico Nazionale, Emanuele Iannetti, moderati dal Direttore Scientifico di Farefuturo, Luigi Di Gregorio. Il terzo tavolo tematico è stato quello sulla “difesa e industria della difesa”, ha visto gli interventi dell’AD di Elettronica Spa, Domitilla Benigni, dell’AD di Rheinmetall Italia, Alessandro Ercolani, del Presidente Fincantieri, Claudio Graziano, e dell’AD di Avio, Giulio Ranzo, moderati dal Direttore Editoriale di Farefuturo, Mauro Mazza. Il quarto ed ultimo tavolo tematico dedicato alla “sicurezza energetica e materie prime/terre rare”, con gli interventi del dottor Alessandro Aresu (Limes), del presidente Gruppo Iren, Luca dal Fabbro e del docente di Economia, Carlo Pelanda, moderati dal direttore delle Relazioni Internazionali Farefuturo, Ambasciatore Gabriele Checchia. All’ambasciatore Gabriele Checchia sono state affidate anche le conclusioni finali dove ha ribadito la necessità di “agire in complementarietà con l’alleato atlantico in una ottica comune di difesa di quei valori occidentali fondati sulla libertà e la democrazia”, mostrando la sua affinità con gli interventi del ministro Urso e del Presidente Tremonti sulla necessità di un’ azione culturale capace di orientare e gestire i cambiamenti del presente in un’ottica comune, democratica che vede “nella sovranità tecnologica e nell’indipendenza strategica dell’Occidente unito un fondamentale prerequisito”. Sugli interventi e sulle conclusioni dell’evento il presidente del Comitato Atlantico Italiano il Professor Fabrizio Luciolli, presente in sala, ha così commentato: “Ritengo di assoluta rilevanza e attualità i lavori del forum sulla sovranità tecnologica e l’indipendenza nazionale nei settori degli approvvigionamenti strategici. Dalla relazione introduttiva del ministro Adolfo Urso è apparso evidente come il mantenimento della superiorità tecnologica sia vitale tanto per l’Italia che per l’Occidente in un mondo sempre più competitivo, multipolare e caratterizzato da potenze autocratiche. Sfide, se non minacce, che richiedono una visione strategica nazionale che spazi dalle priorità per l’industria della difesa, alla sicurezza energetica e al reperimento delle terre rare, come è emerso dalle conclusioni dell’ambasciatore Checchia, responsabile delle relazioni internazionali della fondazione Farefuturo“.
Ambasciatore Gabriele Checchia e Fabrizio Luciolli
MAGNANI: “CAVALCARE L’ONDA DEL CAMBIAMENTO È L’UNICO MODO PER NON ESSERNE TRAVOLTI”
Di Francesco Subiaco
Dai conflitti internazionali all’avvento del digitale, dall’obsolescenza professionale portata dall’AI alla costruzione di estese catene globali del valore. In ogni sua manifestazione il cambiamento ha ridefinito le regole, le convinzioni e le sovrastrutture della contemporaneità in maniera radicale e ravvicinata. Un cambiamento che si è caratterizzato come dirompente e continuo che ha ridefinito in maniera radicale e permanente il tessuto economico e il contesto sociale, come mai è stato possibile nel passato. Di fronte al cambiamento continuo, tsunami minaccioso e pronto a travolgerci, subirne senza reazione gli effetti equivale ad esserne travolti. È necessario quindi conoscerne le caratteristiche ed imparare ad affrontarne le possibilità ed opportunità al fine di cavalcare “l’onda perfetta”, seguendo come bussola due concetti: “learn” and “adapt”, imparare ed adattarsi. Una tesi che è alla base dell’ultimo libro del Professor Marco Magnani, “L’Onda Perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti” (IlSole24Ore Editore, 2022) con cui l’autore indaga le metamorfosi del presente con uno sguardo attento su come trasformare le sfide del presente di opportunità per l’avvenire.
Un libro che come il precedente “Fatti non foste a viver come robot. Crescita, lavoro, sostenibilità: sopravvivere alla rivoluzione tecnologica (e alla pandemia)”(Utet, 2020) indaga le contraddizioni, i cambiamenti, le mutazioni che caratterizzano l’innominabile attuale sia sul piano economico sia sul piano etico e culturale. Dalla robotica all’emergenza, dalle sfide della transizione digitale alle necessità di un ripensamento delle regole del welfare capaci di tenere il passo con i cambiamenti dell’infosfera. Opere che non vogliono solo descrivere le sfide del futuro, ma rivelarne i meccanismi profondi che ne causeranno il destino. Per approfondire queste tematiche abbiamo intervistato il Professor Magnani, economista e docente di International Economics presso Luiss Guido Carli a Roma e presso Università Cattolica a Milano, oltre che Senior Research Fellow presso Harvard Kennedy School.
Come nasce “L’ onda perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti”? Il mio libro nasce dalla constatazione che oggi viviamo in un’epoca che ha un livello ed una rapidità di cambiamenti che non ha precedenti nel corso della storia. Un cambiamento continuo che si compone di mutamenti di diversa tipologia, ma che si presentano soprattutto come “cambiamenti dirompenti“, nell’accezione che a questo termine diede il grande economista Joseph Schumpeter. Una tipologia di stravolgimenti che dal punto di vista economico, sociale ed individuale con la loro manifestazione obbligano a ripensare completamente il modo di produrre, consumare, lavorare. Se pensiamo, infatti, agli ultimi anni, e guardiamo lo scenario economico e geopolitico, si sono susseguiti rapidamente, in un lasso di tempo molto breve, una sequenza di “disruptive changes”. Dall’11 settembre alla crisi finanziaria negli USA del 2008, passando per quella del debito sovrano in Europa del 2015, a cui si sono aggiunti poi la pandemia e la guerra in Ucraina, il cambiamento ha ridefinito il mondo degli ultimi anni in una maniera che mai era stata pensata prima. Nell’epoca caratterizzata da una delle maggiori intensità di cambiamento nel corso della storia, imparare a gestirlo è una questione di sopravvivenza. Cavalcare l’onda è l’unico modo per non esserne travolti.
Quanto la necessità di adattamento ai cambiamenti tecnici ha modificato il modo di concepire le imprese e il loro ruolo nel contesto sociale? Naturalmente l’innovazione tecnologica da sempre cambia e ridefinisce il business model, il rapporto con i dipendenti, con i clienti e con il mercato conformandosi come una delle principali variabili del cambiamento. Di fronte all’innovazione tecnologica i business model subiscono radicali cambiamenti, come abbiamo visto per esempio con l’economia digitale. L’innovazione tecnologica produce sia delle criticità, sia delle nuove opportunità. Generalmente aumentano la produttività, trasformano i luoghi di lavoro, modificano la sensibilità dei consumatori così come il ruolo dell’impresa nel contesto sociale. Una mutazione che investe tutta la supply chain, dalla produzione al marketing, causando cambiamenti profondi in tutto il sistema economico.
–Come la retorica del cambiamento è diventata uno strumento ideologico propagandistico e che conseguenze ha avuto nella politica moderna? I politici sono maestri nell’utilizzare la retorica e il mito del cambiamento come strumento di propaganda politico, a volte per fare paura e per poi rassicurare guadagnando consenso elettorale, oppure per dare speranza e guidare lo sviluppo, riuscendo ad aggregare le forze sociali ottenendo legittimazione da parte della società. “Cambiamento” è una parola che il mondo politico padroneggia con grande abilità, ma non sempre ne sa controllare le potenzialità, infatti gli stessi politici non sempre sono bravi a gestire il cambiamento ed a volte ne sono travolti.
–Le due crisi della pandemia e della guerra in Ucraina hanno ridefinito i confini della “catena globale del valore”? Abbiamo capito che le catene globali del valore sono profondamente fragili e che quindi la stessa globalizzazione è vulnerabile. Dopo 30 anni di continua espansione, con tantissimi benefici, la globalizzazione ha mostrato limiti profondi e pericolose distorsioni. Le catene globali del valore si sono rivelate spesso troppo lunghe, vulnerabili e lontane dai mercati di sbocco. A fronte di shock esterni quali la pandemie e la guerra, hanno mostrato la loro intrinseca fragilità. Ora la tendenza è quella di accorciarle. La Apple, ad esempio, per produrre un iPad realizza componenti in più di 40 paesi diversi, al fine di massimizzare l’efficienza. Nel mondo globalizzato in cui non ci sono barriere tariffarie, problemi internazionali, guerre e pandemie, si può attingere a fornitori di paesi diversi e lontani e massimizzare l’efficienza, minimizzando i costi e ampliando i margini di profitto delle imprese coinvolte in tali cicli produttivi. Ma nel momento in cui sorgono delle emergenze (una pandemia, una guerra o una catastrofe naturale), questa catena così lunga ed efficiente va in frantumi. Ci siamo concentrati in questi anni a massimizzare l’efficienza rinunciando alla resilienza, ovvero alla capacità di reagire con successo agli shock esterni. Adesso il trend è esattamente l’opposto, si accorciano le catene del valore minimizzando l’efficienza al fine di valorizzare la resilienza.
–Come possono le piccole e medie imprese affrontare i cambiamenti dirompenti senza esserne travolte? Lo potranno fare se seguiranno queste due indicazioni di fondo, (che sono descritte anche nella quarta di copertina del mio libro): learn e adapt, imparare ed adattarsi. Se le piccole e medie imprese punteranno su questo binomio non solo potranno sopravvivere ai cambiamenti prodotti dallo sviluppo tecnico, ma riusciranno, anche, ad avere un vantaggio competitivo rispetto alle grandi imprese dominanti nel mercato. Infatti, la maggiore flessibilità, combinata con la minore complessità organizzativa e burocratica, permetterà alle piccole imprese di adattarsi meglio e più velocemente rispetto alle grandi strutture complesse e rigide delle grandi corporates. Le piccole e medie imprese se seguiranno il learn e adapt, riusciranno a governare il cambiamento e a non esserne travolte.
–Lo sviluppo ipertrofico di “infomi”, come smartphone ad esempio, in che modo ha cambiato l’ossatura della nostra società? Se analizziamo gli sviluppi del metaverso nei campi dell’intrattenimento e dei giochi possiamo dire che ci troviamo già in un mondo immersivo, cioè capace di fondere mondo virtuale e fisico. La cui applicazione produrrà un mutamento totale nei diversi ambiti economici. Ciò mi fa ripensare ad un libro di Vittorino Andreoli: “Il cervello in tasca”. Un testo dove si affronta il grande rischio che all’aumentare dei mezzi tecnici ci sia una tendenza a delegare le nostre capacità di approfondimento, calcolo e analisi ai mezzi tecnici impoverendoci drasticamente. Producendo il rischio di vivere in un mondo sdoppiato, tra reale e virtuale, che non ci metterebbe più nella condizione di riuscire a cogliere le differenze tra i due.
–Perché mai oggi gestire il cambiamento è ancora più complesso? Il cambiamento dirompente, c’è sempre stato nella storia dell’uomo. Oggi però ha tre caratteristiche differenti che ne causano la maggiore complessità rispetto al passato: è più frequente e ravvicinato a causa della moltiplicazione e combinazione delle sue conseguenze in tutti gli ambiti in cui esso si manifesta; il mondo di oggi è molto più interdipendente rispetto al passato, avendo come conseguenza che il cambiamento influenza tutte le parti in gioco; anche se non si è influenzati direttamente dal cambiamento, ne siamo comunque a conoscenza (pensiamo al disastro di Fukushima), e questo genera un senso di ansia diffuso. Per questo sia a livello politico che a livello manageriale oggi è molto più difficile governare e confrontarsi con il cambiamento.
–Oggi il digitale e la specializzazione tecnica prefigurano l’alba di una nuova ridefinizione del concetto elaborato da John K. Galbraith di tecnostruttura? Così come negli anni ‘50-‘60 i grandi gruppi industriali e commerciali avevano un grande potere, attraverso le lobby, i media di massa e il mercato con capacità di influenza e condizionamento pari a quelle degli stati, oggi il peso delle big tech è ancora più rilevante nella società globale rispetto al passato. Dalla AI alla robotica fino alle tecnologie di ultima generazione, (caratterizzate dal forte impiego di capitali), c’è un forte squilibrio nei processi produttivi tra il peso della forza lavoro e quello del capitale.
–Lei per esempio in alcuni suoi saggi parla di una ristrutturazione della piramide del lavoro. Cosa intende? Oggi la piramide del lavoro è caratterizzata da un forte divario tra l’oligarchia tecnologica, composta da pochi operatori altamente specializzati e remunerati all’apice della piramide, contro una base composta da “in-person servers” (servitori personali), cioè coloro che svolgono mestieri al servizio dell’oligarchia tecnologica (per esempio rider, giardinieri, camerieri, etc.). Tra questi due estremi esiste un gap molto profondo, causato dalle conseguenze sia della sostituzione tecnologica sia dalla crisi della classe media di fronte al cambiamento.
–E invece riguardo al tema della tecnostruttura, ovvero di una classe burocratico organizzativa che rappresenta il vero centro della corporate, pensa sia ancora attuale? Galbraith diceva che per le grandi aziende del sistema industriale il vero obiettivo non erano più i profitti bensì la sopravvivenza e l’espansione. Una riflessione che è più che mai valida rispetto alle big tech, in cui la logica priorità è quella dell’espansione e della maggiore diffusione.
-Siamo passati da una tecnostruttura industriale ad una tecnostruttura high tech? Si perché da una parte c’è la necessità di avere sia grandi capacità organizzative e tecniche, caratterizzate da un maggiore primato tecnico dovuto ad una tecnostruttura di esperti, sia a grandi disponibilità di capitali e mezzi capaci di investire nell’innovazione.
–Rispetto al testo di Galbraith in cui c’era un maggior peso della componente della forza lavoro, dai quadri agli operai, ora c’è invece un primato del capitale? C’è uno sbilanciamento rispetto al capitale che è dovuto dall’orientamento all’innovazione di mezzi tecnici. L’automazione delle produzioni porta a premiare gli investimenti del capitale e a ridurre la parte di ricchezza prodotta che viene destinata al lavoro. Ma il lavoro è stato negli ultimi due secoli il maggiore strumento di redistribuzione della ricchezza prodotta.
–Come si può sopperire a questa seconda emergenza? Una proposta potrebbe essere il reddito universale, ma la storia ci insegna quanto sia dannoso ed inefficiente un tale provvedimento. Ciò non toglie che lo sviluppo di nuove tecnologie e di frontiere come l’e-commerce portano ad una “disintermediazione” del mercato, la cui conseguenza è la distruzione di categorie come commercianti, prestatori di servizi e impiegati a favore dei mercati digitali dove la componente lavorativa si concentra o sull’oligarchia tecnica o sui servitori personali. Un problema politico che non va sottovalutato. Facciamo un esempio. Un tempo una banca aveva molte figure, il cassiere, l’impiegato, il direttore di filiale che componevano la classe media. Oggi negli Usa, ad esempio, non esistono più grandi filiali in tutte le città, ma punti di distribuzione Atm, quindi mezzi tecnici, in cui ci sono degli operatori che non svolgono un ruolo da quadro o da intermediario, ma servono solo come punto di collegamento col servizio clienti e con i tecnici. Soggetti che in sostanza svolgono un lavoro non qualificato e con pagamenti molto bassi, da servitori personali appunto, il cui ruolo è relegato alla mera assistenza. Non esistono più i corpi intermedi come erano nel testo di Galbraith, ma solo la polarizzazione tra queste due classi sociali tra loro molto sbilanciate.
–Nel suo libro “Fatti non foste a viver come robot” (Utet) propone in alternativa a modelli come il reddito di cittadinanza un sistema di “pre-distribuzione” in alternativa alla redistribuzione. Cosa intende? La transizione digitale genera una ricchezza che investe e riguarda la collettività intera. Tale ricchezza, a mio avviso, non va però erogata come assegno o sussidio ma va pensata in un’ottica di “pre-distribuzione“. La proposta che esprimevo nel mio libro era, in estrema sintesi, l’istituzione di un fondo del 1% di tutte le società nel digitale, che dava delle quote ad ogni bambino nato un investimento di base dovuto ad una condivisione dell’allargamento “della torta” tramite dei fondi di investimento sull’istruzione in vista di una formazione maggiore. L’ipotesi formulata nel mio libro è che per rispondere alle sfide della transizione digitale sia necessaria la combinazione di tre misure che mirano non a distribuire, bensì a pre-distribuire i mezzi necessari per generare ricchezza. Ognuna di queste tre misure è pensata per sostenere il cittadino in una diversa fase della sua vita: istruzione di base e gratuita (per la scuola), prestito universale (per formazione universitaria o professionale) e capitale di dotazione (per il periodo lavorativo e della pensione). Un’idea che propone un’evoluzione del welfare, da una definizione dei bisogni in cui diritti sociali standardizzati sono sostituiti da diritti ritagliati sui bisogni effettivi delle persone, capace di tenere il passo con la transizione tecnologica.
FLORIDI: “BISOGNA COSTRUIRE UNA NUOVA SOVRANITÀ DIGITALE”
Di Francesco Subiaco
Reale e virtuale, materiale e immateriale, analogico e digitale non sono due opposti inconciliabili, bensì due poli che convergono tra loro. Per tale motivazione nella civiltà del codice l’uomo non è più l’abitante di un ordine terrestre, ma l’utente che vive in una realtà immersiva, in cui le informazioni e le logiche della realtà virtuale compenetrano e invadono quelle della vita analogica. Per tale motivazione non esiste più, nell’epoca dell’infosfera una distinzione tra vita online e vita offline, ma solo una sintesi, una sovrapposizione ed indicazione tra questi due apparenti opposti, che il Professor Luciano Floridi ha saputo magistralmente sintetizzare nel concetto di “onlife”. L’uomo utente delle “repubbliche digitali”, non è solo il cittadino, l’uomo, l’individuo, ma è soprattutto un organismo informativo che interagisce, si informa e si invera nella ragnatela artificiale degli scambi di dati dell’infosfera. In questo contesto il cittadino viene sostituito dal follower, il cliente dall’utente e in questo contesto l’uomo è assoggettato alle responsabilità e influenze di una infosfera non più governata dagli stati, ma da grandi aziende-stato. Come reagire di fronte alla necessità di un nuovo umanesimo digitale? Per parlare di questi temi abbiamo intervistato il Professor Luciano Floridi tra le voci più autorevoli della filosofia contemporanea, dal 2013 professore ordinario di Filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute della Oxford University, dove dal 2017 dirige il Digital Ethics Lab, e chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute, che nei suo ultimi “Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide” e “Pensare l’infosfera” scrive parole definitive sul tema del rapporto tra filosofia e digitale.
–Professor Floridi come l’infosfera ha cambiato il mondo post industriale dal punto di vista economico, sociale e filosofico? Le trasformazioni sono state tantissime ed hanno portato a cambiamenti in tutti gli ambiti sociali, dall’economia alla politica, dall’istruzione alla cultura. Soprattutto dal punto di vista economico-politico è avvenuta in questi anni una profonda trasformazione della gestione del potere rispetto al passato. Oggi siamo, infatti, abituati a pensare, a grandi corporate, come Google, Microsoft, Apple e Meta non più solo come a delle semplici aziende, ma come a degli stati il cui peso e la cui influenza scavalcano i confini delle imprese convenzionali. Hanno poteri decisionali e di influenza enormi, coinvolgono nei loro processi miliardi di cittadini ogni giorno e le loro decisioni hanno un impatto sulla geopolitica, sulla società e sull’economia che non ha precedenti rispetto al passato. L’infosfera, quindi, non è dominata da grandi stati, ma da grandi aziende che hanno delle responsabilità cruciali per il destino di tutti noi e che ci espongono (aldilà di una valutazione sulla loro gestione di tale responsabilità) a grandi rischi sociali, politici ed economici. Per tale motivazione si dovrebbero riappropriare di queste responsabilità i contesti sociopolitici al fine di orientare le sorti del cambiamento verso l’interesse comune. In questo scenario, infatti, le grandi corporate hanno un peso politico ed un potere decisionale che va oltre le competenze dei singoli stati e per tale motivazione dobbiamo recuperare un approccio sociopolitico per ripensare l’infosfera. Purtroppo veniamo da una “strada sbagliata”, in cui si è creduto nel primato dell’economia rispetto alla politica, e dell’economia aziendale rispetto alla politica economica. Il mercato dovrebbe creare la ricchezza, ma la politica dovrebbe vigilare su come essa viene creata. Invece siamo in un sistema economico in cui il peso del mondo aziendale è preponderante rispetto a quello sociopolitico. Dovremmo, quindi, costruire (non riappropriarci, perché non la abbiamo mai avuta) una nuova sovranità digitale che sia fondata su una visione sociopolitica e non economico-commerciale.
-Cosa intende con la definizione del concetto di “onlife” e come la comunicazione perpetua ha cambiato la vita sociale del cittadino globale? Semplificando al massimo le trasformazioni ben più complesse che hanno riguardato l’infosfera, posso affermare che siamo passati da una cognizione del cittadino, principalmente novecentesca, che vede in esso chi vota e chi sceglie, un customer (cliente) in sostanza, ad una visione contemporanea che lo concepisce, invece, come un follower (un seguace) che non sceglie e non decide, ma segue ed utilizza quello che gli viene offerto, diventando non più un cliente, bensì un utente. In questa realtà immersiva che mischia analogico e digitale, online e offline, noi siamo sempre di più utenti che vivono in maniera ininterrotta la confusione con questi due mondi diventandone parte integrante della sfera virtuale e di quella reale. Per riassumere tale concetto utilizzo il termine “onlife”, che in esso esprime non solo questa condizione, ma anche il passaggio netto avvenuto nella nostra società da cittadino come cliente a cittadino come utente e follower, che non decide o sceglie più, ma segue la realtà in cui è immerso come un tifoso calcistico, in maniera passiva ed indipendentemente da ciò che accade tra le forze politiche e dalle forze economiche. Gli utenti, inoltre, hanno diritti diversi e molto più ristretti di quelli dei clienti che cedendo i loro dati personali e la loro capacità di scelta subiscono passivamente i servizi offerti senza avere su di essi voce in capitolo. Si tratta di una metamorfosi molto pericolosa poiché deresponsabilizza sia di chi sceglie, il consumatore, si di chi offre, il produttore. Tale logica andrebbe completamente riformata e rivista, e la consapevolezza di tale condizione sarebbe già un buon punto di partenza in questa direzione.
-Oggi gli stati sono subordinati o compenetrati dal potere delle corporate? In alcuni contesti è difficile parlare di sovranità nazionale, di fronte allo strapotere delle grandi corporate. Però non dobbiamo cadere nell’errore inverso. L’alternativa allo stato vittima della predazione aziendale non è lo stato imprenditore o lo stato ipertrofico, bensì un ruolo dell’amministrazione statale che fa da arbitro, da controllore, da gestore attraverso una maggiore coscienza ed efficienza dei propri poteri. Lo stato dovrebbe investire sulle sue competenze per riuscire a separare quello che è il terreno pubblico da quello che è il terreno privato. Se questa ripartizione avvenisse avremmo una gestione efficiente e funzionale dei problemi del 21° secolo. Non bisogna ricadere in errori novecenteschi. Lo stato-azienda crea grandi disastri, le aziende-stato creano grandi disordini e grandi ingiustizie. Lo stato deve distribuire la ricchezza, il mercato deve costruirla, quando questa divisione non viene rispettata le conseguenze sono sempre spiacevoli.
–Oggi nella civiltà del codice è necessario trovare una sintesi tra sviluppo tecnico e valori umanistici? Penso di sì però solo se intendiamo tali valori in una ottica nuova, aggiornati ed adattati rispetto alle sfide del presente. Non bisogna guardare al passato o recuperare soluzioni e concetti già provati e affrontati. Bisogna costruire, adottare e pensare per la prima volta nuovi valori ed idee. Non abbiamo mai perso, ad esempio, la nostra sovranità digitale perché in realtà non la abbiamo mai avuta. I valori umanistici andrebbero rivisti, adattati e aggiornati nel XXI secolo e non trasposti dal loro contesto di origine nel nostro tempo. L’umanesimo ad esempio è privo della componente ambientalista, giustamente anche perché appartiene ad un altro periodo, incentrandosi su una visione esclusivamente antropocentrica. Una visione che è slegata da due temi fondamentali che, invece, di fronte alle sfide del presente dovrebbero essere integrati ad essa: l’ambiente e la comunità. Recuperare l’umanesimo non deve essere un passo indietro, ma un passo avanti. Bisogna aggiornare l’umanesimo rispetto alla tematica ambientale e quella sociale perché sennò si rischia di cadere negli stessi errori del passato.
-Quali sono i riferimenti culturali di Luciano Floridi? Per la filosofia direi Platone, Cartesio, Kant. In economia John M. Keynes, perché riuscì a rivedere il mondo in una ottica controintuitiva portando l’economia dalla sua fase newtoniana a quella einsteniana. In ambito politico forse direi Tony Blair, con cui non sono d’accordo su alcuni temi, ma penso che prima di alcuni grandi errori ha avuto delle intuizioni geniali che in politica hanno fatto la differenza. Come scrittori invece Tomasi di Lampedusa e Manzoni perché leggere i loro libri vuol dire capire l’Italia per sempre.
KEEN: “GALBRAITH HA PORTATO LA REALTÀ NELL’ECONOMIA E PER QUESTO È STATO DIMENTICATO“
Di Francesco Subiaco
Steven Keen è il Lutero dell’economia contemporanea. Un intellettuale ed uno studioso libero che di fronte alle frodi e alle mistificazioni di una visione economica irreale e dogmatica ha il coraggio di essere eretico, rivoluzionario, ribelle non seguendo la Chiesa neoclassica né le sette della “saggezza convenzionale”. Keen seguendo l’esempio di Schumpeter, Keynes e Minsky invece all’idea vuole contrapporre la realtà, alla finzione l’analisi, utilizzando il suo spirito critico per smascherare le finzioni del panorama economico. Lo ha fatto con “Debunking economics” del 2001 e lo ha fatto recentemente col suo ultimo visionario libro “The New economics: a Manifesto”. Un manifesto unico, integrale di una alternativa alla dogmatica visione neoclassica che vuole decodificare le complessità del reale e riformare la scienza economica per permettergli di andare oltre gli schematismi del passato. Per comprendere meglio le idee di Keen lo abbiamo intervistato per confrontare le sue idee con quelle del pensatore John Kenneth Galbraith e per cercare di comprendere i cambiamenti del mondo del Nuovo stato digitale.
–Quanto è attuale la visione dell’economia e del sistema economico americano proposta da John K. Galbraith nel suo “The new industrial state”? Rileggere “The New Industrial State” (Galbraith e Galbraith 1967), sei decenni dopo la sua prima pubblicazione, ha evidenziato per me quanto la teoria economica si sia allontanata dalla realtà a partire dagli anni ’60. Il Nuovo Stato Industriale (di seguito denominato TNIS) descriveva la struttura attuale di una moderna economia industriale. Non ha nulla a che fare con la visione di Alfred Marshall di un’economia di mercato, in cui una moltitudine di piccole imprese imprenditoriali vendevano beni omogenei direttamente ai consumatori in mercati anonimi e in cui i prezzi erano fissati dall’intersezione di domanda e offerta. Al contrario, l’economia è dominata da grandi società, a loro volta gestite da una “tecnostruttura” burocratica – il termine inventato da Galbraith – che tenta di gestire tutta la filiera produttiva, dai costi di input alla domanda finale dei consumatori (che manipolano tramite il marketing e i media). I prezzi sono addomesticati da contratti a lungo termine e l’unica fonte di instabilità dei prezzi proviene da un lato dalle richieste salariali e dall’altro dai capricci della produzione agricola ed energetica. Questa era la realtà della metà degli anni ’60 commentata da Galbraith. All’epoca in cui scriveva, Galbraith era fiducioso che questa realtà avrebbe soppiantato la fantasia marshalliana delle curve di domanda e offerta, che dominava la teoria economica. L’ottimismo di Galbraith riguardo alla sua professione di economista era mal riposto: di fronte a un conflitto tra realtà e teoria, la teoria economica tradizionale venne elevata rispetto ai fatti scomodi del mondo reale. I principali cambiamenti del mondo reale dai tempi di Galbraith sono stati lo schiacciamento dei sindacati, che ha in gran parte eliminato la capacità dei lavoratori di contrattare per gli aumenti salariali, lo sviluppo della globalizzazione, che ha creato catene di approvvigionamento lunghe ed estremamente fragili, con gran parte della produzione in corso offshore piuttosto che nelle fabbriche americane e la finanziarizzazione del sistema industriale e produttivo. Ma una “tecnostruttura” è ancora al comando e le realtà della produzione, della gestione e del marketing sono gli stessi che osservava Galbraith a metà degli anni ’60. Niente di tutto questo realismo è penetrato nella teoria economica. Galbraith ha acquisito la sua conoscenza dell’effettiva natura della gestione del capitalismo industriale dalla semplice osservazione e, soprattutto, essendo coinvolto negli sforzi di approvvigionamento e controllo dei prezzi della seconda guerra mondiale. Negli anni ’90, l’economista mainstream Alan Blinder ha acquisito una conoscenza simile attraverso un’indagine casuale molto attenta di aziende americane con vendite superiori a $ 10 milioni all’anno. Le risposte che queste aziende hanno dato a Blinder sulle loro operazioni hanno capovolto tutti gli assiomi presenti nell’economia tradizionale, proprio come aveva fatto il libro di Galbraith 30 anni prima. Le imprese affrontano costi marginali in calo, non i costi marginali in aumento ipotizzati dalla teoria economica. Oltre il 70% della loro produzione viene venduta ad altre società, non ai consumatori finali. I prezzi dei beni industriali sono soggetti a contratti a lungo termine e cambiano raramente. Parola per parola, il sondaggio riproduceva la visione del settore aziendale che Galbraith aveva tracciato. Lo stesso Blinder ha osservato che “la notizia assolutamente negativa qui (per la teoria economica) è che, a quanto pare, solo l’11% del PIL è prodotto in condizioni di aumento del costo marginale”, e che “le loro risposte dipingono un’immagine della struttura dei costi del tipico impresa molto diversa da quella immortalata nei libri di testo” (Blinder 1998, pp. 102, 105). Il mondo reale è “una notizia estremamente negativa” per la teoria economica perché, con la diminuzione del costo marginale, la curva di offerta da manuale non esiste: la produzione delle imprese non è vincolata dall’aumento dei costi, ma, invece, qualsiasi impresa che si assicuri una quota di mercato maggiore anche assicura un profitto maggiore. Il netto equilibrio del libro di testo è sostituito da una lotta evolutiva per la sopravvivenza e il dominio. Non una parola di quella realtà è entrata nei libri di testo economici. Perfino il libro di testo universitario di Blinder (Baumol e Blinder 2015) finge che il modello di Marshall sia accurato, nonostante lui sappia che i risultati del suo sondaggio erano “una notizia schiacciante in modo schiacciante qui (per la teoria economica)”. Il libro di Galbraith rimane quindi rilevante come descrizione della realtà economica, ma l’ottimismo che aveva sul fatto che la sua visione realistica avrebbe sostituito le fantasie dei libri di testo era mal riposto.
–Pensa che oggi siamo passati da una tecnostruttura industriale a una tecnostruttura digitale e high tech? Gran parte del circuito industriale statunitense è stato trasferito in Cina e in altre economie in via di sviluppo, ma semmai ciò ha rafforzato l’importanza della tecnostruttura: il coordinamento che Galbraith ha visto svolgersi negli Stati Uniti continentali è ora molto più complesso. La crescita del software ha inoltre reso l’analisi di Galbraith ancora più appropriata. Sebbene i costi marginali delle aziende industriali siano bassi e in calo – l’opposto del modello dei libri di testo – i costi marginali delle aziende di software sono più vicini allo zero. I margini di profitto derivanti dalla posizione dominante sul mercato sono quindi ancora maggiori. Non esiste un secondo posto nel mercato dei word processor (Microsoft Word) o nel mercato dei browser (Google Chrome), e il secondo posto nel mercato dei sistemi operativi (Apple MacOs) è molto distante dal primo posto (Windows). La necessità di controllare i prezzi e gestire la domanda è ancora maggiore nel mondo digitale/high-tech di quanto non fosse ai tempi industriali di Galbraith, mentre la capacità di dominare il mercato da parte del leader di mercato è ancora più forte dove i prodotti hanno un sostanziale effetto di rete. Questo vale per i prodotti dei social media come Twitter e Facebook, banalmente. Il predominio di Word nel mercato dei word processor è in gran parte dovuto al fatto che era il programma utilizzato dalla maggior parte degli utenti. Gli utenti di prodotti di minoranza, come una volta ero io, che utilizzavano Lotus Word Pro invece di Word a causa delle sue funzionalità di desktop publishing superiori, furono costretti ad adottare Word per compatibilità con le persone con cui dovevamo comunicare. Rivali come Word Pro appassirono e morirono sul mercato, semplicemente perché non erano il prodotto numero uno. I libri di testo trattano questa come un’eccezione interessante, e facilmente ignorabile, alla presunta regola dell’aumento del costo marginale. Ma in realtà si tratta di un’amplificazione dei processi individuati da Galbraith nello stato industriale, che rendono il modello da manuale ancora più irrilevante per il mondo reale.
-Il ruolo del proletariato e della forza lavoro in questo nuovo stato digitale è oggi svolto dal capitale e dai mezzi tecnici che sostituiscono il peso sociale della forza lavoro? Il declino del potere politico della classe operaia dalla pubblicazione di TNIS è stato drammatico. Galbraith prevedeva questa possibilità, notando fino a che punto la tecnostruttura tentava di far identificare i lavoratori con l’azienda piuttosto che con la loro classe sociale. Qui Galbraith merita un elogio per la sua grande preveggenza: “Il sistema di pianificazione, sembra chiaro, è sfavorevole al sindacato. Il potere passa alla tecnostruttura, e questo attenua il conflitto di interessi tra datore di lavoro e dipendente che ha dato al sindacato gran parte della sua ragion d’essere. Capitale e tecnologia permettono all’impresa di sostituire colletti bianchi e macchine che non si possono organizzare a colletti blu che possono. La regolazione della domanda aggregata, l’alto livello di occupazione che ne deriva insieme all’aumento generale del benessere, tutto sommato rende il sindacato meno necessario o meno potente o entrambe le cose. La conclusione sembra inevitabile. Il sindacato appartiene a una fase particolare nello sviluppo del sistema di pianificazione. Quando quella fase passa, anche l’unione passa in qualcosa di simile alla sua originaria posizione di potere. E, come ulteriore tocco di paradosso, le cose per le quali i sindacati si sono battuti energicamente – la regolamentazione della domanda aggregata per garantire la piena occupazione e un reddito reale più elevato per gli iscritti – hanno contribuito al loro declino. (Galbraith e Galbraith 1967, p. 337)
– Partendo dal testo “L’economia della frode innocente” come il ruolo della finanza ha cambiato il legame tra tecnostruttura e mercati? Un fattore che Galbraith non aveva previsto nel 1967 era l’aumento dell’importanza del settore finanziario, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Quando è stato pubblicato il TNIS, il debito privato era inferiore al 90% del PIL e il settore industriale era il settore dominante dell’economia statunitense. Oggi, il debito privato è più del doppio rispetto al PIL e la coda finanziaria ora agita il cane industriale (vedi Figura 1).
Di conseguenza, l’America non è più dominata dal complesso militare-industriale – per usare l’espressione inventata non da Galbraith, ma dal suo contemporaneo presidente Dwight D. Eisenhower – ma da quello che io chiamo il complesso politico-finanziario. Dobbiamo guardare, non a Galbraith nel 1967, ma a Marx un secolo prima, per un’accurata caratterizzazione di ciò che questo ha significato per la sopravvivenza del sistema capitalista: “Parliamo di centralizzazione! Il sistema creditizio, che ha il suo fulcro nelle cosiddette banche nazionali e nei grandi prestatori di denaro e usurai che le circondano, costituisce un enorme accentramento, e dà a questa classe di parassiti il potere favoloso, non solo di depredare periodicamente i capitalisti industriali, ma anche per interferire nella produzione effettiva in un modo molto pericoloso – e questa banda non sa nulla della produzione e non ha nulla a che fare con essa.” (Marx 1894, capitolo 33)
Qual è la principale eredità di Galbraith? Rileggere TNIS mi ha fatto venire nostalgia degli anni ’60, non perché la musica fosse migliore – anche se, ovviamente, lo era – ma perché la visione del futuro che aveva Galbraith era migliore del futuro stesso. La prosa erudita di Galbraith era sostenuta dalla presunzione che la conoscenza che aveva acquisito – di come funzionava effettivamente il settore industriale americano – avrebbe soppiantato le rassicuranti finzioni dei mercati marshalliani che gli economisti accademici continuavano a spacciare nei loro libri di testo del primo anno. Non è successo. I libri di testo economici oggi sono ancora più arcani dei prodotti accademici degli anni ’60, che Galbraith sentiva di poter tranquillamente denigrare mentre delineava quella che chiamava la “sequenza rivisitata” di come le merci vengono prodotte e commercializzate in un’economia capitalista avanzata: Nella forma appena presentata, la sequenza riveduta non sarà, credo, messa in discussione da molti economisti. C’è una certa difficoltà a sfuggire all’ineluttabile. C’è più pericolo che il punto venga ammesso e il suo significato quindi ignorato… La sequenza rivista invia al museo delle idee obsolete l’idea di un equilibrio nelle spese dei consumatori che riflette il massimo della soddisfazione del consumatore. (Galbraith e Galbraith 1967, p. 265)
Invece, i contributi di Galbraith hanno in gran parte fatto la fine del Dodo (manuale di economia neoclassica caduto in disuso, ndr). I moderni studenti di economia non sono a conoscenza dei suoi contributi, dal lavoro pratico che ha intrapreso per consentire agli Stati Uniti di espandere notevolmente la produzione in tempo di guerra senza causare inflazione nei prezzi dei beni militari o di consumo, alla sua eloquente erudizione di un’economia alternativa in opere come TNIS, The Affluent Society (Galbraith 2010) e The Great Crash 1929 (Galbraith 1955). Galbraith contribuì in parte alla sua successiva irrilevanza, non fornendo un mezzo con cui la sua eloquenza potesse essere trasformata in equazioni. Il suo contemporaneo Hyman Minsky (Minsky 1975, 1982), che all’epoca era molto meno noto di Galbraith — anche in circoli economici non ortodossi — è quello la cui visione non ortodossa sopravvive dopo di lui, soprattutto perché la sua visione poteva essere messa in una gamma di forme analitiche (Keen 1995; Delli Gatti e Gallegati 1996; Dymski 1997; Wray 2010; Keen 2020). Persino i neoclassici, che rimangono ignoranti delle vere intuizioni di Minsky quanto lo sono di Galbraith, devono riconoscere l’esistenza di “Minsky Moments” (Bressler 2021). Non esiste un equivalente Galbraithiano.
–Quali sarebbero le caratteristiche di un “Nuovo Stato Digitale”? La principale differenza tra lo stato industriale descritto da Galbraith e lo stato digitale (e finanziario) in cui risiediamo oggi è l’importanza degli effetti di rete per l’economia digitale. I beni prodotti dalle società di Galbraith considerati dal trattato non dipendevano dalla diffusa conformità del consumatore. Il New Industrial State ha portato al dominio delle mega-corporazioni (come Ford, General Electric e IBM), ma il loro dominio non significava che le società rivali (come General Motors, Westinghouse e Burroughs) non fossero in grado di raggiungere quote di mercato. Tuttavia, nello stato digitale di oggi, è quasi impossibile per un rivale di Facebook raggiungere la massa critica, perché Facebook ha già quella massa critica. Ciò rende il Digital State un regime di mercato molto più aut-aut rispetto al New Industrial State della metà degli anni ’60. L’effetto è profondo. Se il mercato aveva motivo di lamentarsi del prodotto di un gigante industriale, ad esempio la Ford Edsel, era facile passare a un prodotto concorrente di un produttore rivale. Ma lamentarsi come fanno oggi i consumatori su Google, Facebook e Twitter, la capacità di trasformare tali reclami in un prodotto rivale è praticamente inesistente. In questo modo, il predominio della tecnostruttura sul mercato che Galbraith identificò negli anni ’60 è ancora maggiore oggi. Ma gli hipster della Silicon Valley che potrebbero benissimo usare la parola mentre discutono dell’Internet delle cose davanti a un latte di soia non saprebbero mai che la parola che li descrive così bene è stata inventata da John Kenneth Galbraith.