Confessioni di un governatore. Intervista ad Attilio Fontana
Di Francesco Subiaco
Attilio Fontana, 70 anni, avvocato, una carriera nell’amministrazione e nel rapporto con il territorio. Sindaco, presidente dell’assemblea dei sindaci, presidente della regione, candidato a questa tornata elettorale per rinnovare il suo secondo mandato come governatore della Regione Lombardia. Eccellente amministratore, volto moderato e responsabile della Lega, che ha attraversato dagli inizi della Lega Lombarda passando per la svolta salviniana e l’attualità, di cui oggi è uno dei più noti ed apprezzati esponenti. Da sempre legato alla cultura liberaldemocratica, si ricandida a questa tornata elettorale con un programma e un pareterre di candidati capace di far convergere conservatori e liberali, leghisti e centristi, popolari e mazziniani (tra i candidati della sua lista Civica spiccano infatti anche i repubblicani Valerio Massimo Antonelli e Silvia Gioventù del Pri lombardo) in una proposta politica capace di conciliare responsabilità e connessione sentimentale nazionalpopolare, senso delle istituzioni e legame col territorio, l’autonomia con la coscienza nazionale. Fontana è nell’immaginario collettivo “il governatore” per antonomasia, il rappresentante di un centrodestra che non solo vuole incarnare le istanze popolari, ma soprattutto trasformarle nell’anima delle istituzioni, che sa guardare oltre le ideologie in nome di una visione dell’amministrazione pragmatica e concreta.
–Presidente Fontana, Lei ha guidato la regione Lombardia durante un periodo durissimo come quella della zona rossa e della pandemia. Che ricordo ha di quei giorni e come ha vissuto quella stagione così complessa? Non scorderò mai le notti a studiare un nemico invisibile che nessuno ci aveva preparato ad affrontare. Abbiamo fatto tutto quello che era possibile fare per salvare il maggior numero di persone. Il dolore per chi ha perso la vita e per le loro famiglie sarà sempre una ferita aperta nel mio cuore. Senza dubbio la difficoltà più grande è stata far comprendere a Roma che la situazione in Lombardia era più grave di quello che loro percepivano. Nel primo periodo ci siamo sentiti abbandonati. Il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza il 31 gennaio 2020, ma non si è preoccupato, pur avendone la competenza esclusiva, di fare provviste di dispositivi e macchinari che poi sarebbero stati essenziali per il personale sanitario. C’è stata una grande sottovalutazione del problema, il resto è storia. Come dicono anche all’Estero se il covid avesse colpito un’altra regione, soprattutto del sud, gli effetti avrebbero potuto essere ben più drammatici. Il nostro eccellente sistema sanitario ha arginato e gestito al meglio una situazione pazzesca.
–Come giudica la sua esperienza di governatore e quali sono stati i momenti più importanti e significativi del suo mandato? È stato un privilegio per me guidare la regione definita locomotiva d’Italia e motore d’Europa. Tra i momenti più significativi di questo mandato c’è sicuramente la gioia per l’aggiudicazione delle Olimpiadi 2026 e poi la ripartenza dopo la pandemia. Il grande piano vaccinale, portato avanti da Bertolaso che ci ha consentito di mettere al sicuro il 91% dei lombardi sopra i 5 anni e il 94% degli over 12, una percentuale che ci ha visto primeggiare non solo in Italia, ma in Europa. Poi il ‘Piano Lombardia’ concepito e lanciato per sostenere la nostra economia e dare un messaggio di speranza. Oltre 8000 interventi ammessi e finanziati per 3mld e 640 milioni, 5700 cantieri aperti e 2700 completati da parte di comuni, province e altri soggetti pubblici. Un investimento di 4,2 miliardi di euro di risorse regionali che ne ha generato da parte degli enti locali ulteriori 2,3. Si stima che il Piano abbia prodotto un incremento del Pil regionale dello 0,8 per cento, con un incremento della occupazione di circa 36mila unità in Lombardia e di altri 12mila fuori regione. Siamo molto orgogliosi di questa scelta che, di fatto, ha anticipato di oltre un anno il Pnrr, e soprattutto perché l’abbiamo realizzata lavorando in sinergia con i Comuni.
-Che considerazioni trae riguardo la prosecuzione del progetto di autonomia differenziata? E come risponde alle critiche mosse al suo partito riguardo questo tema? Alle critiche rispondono i fatti e questi dicono che l’attuazione dell’autonomia differenziata per la Regione Lombardia è un problema politico nazionale e su questo, mi pare, ci sia coesione nella maggioranza e penso che potrà arrivare nel 2023. Anche il presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è resa conto che questa riforma guarda al futuro e all’efficienza degli Enti locali e dei servizi ai cittadini. Il ministro per le Autonomie Roberto Calderoli sta facendo un pressing su tutti i governatori del sud e sta cercando di spiegare come questa riforma sia utile anche per loro. Anche se con qualche sfaccettatura diversa da parte di tutti c’è disponibilità.
–Quali saranno i principali temi su cui verterà la sua candidatura e quali le battaglie saranno prioritarie in caso venisse rieletto? La vision strategica per la Lombardia del futuro ha l’obiettivo di mantenere il suo posizionamento come leader nazionale e di migliorare la propria attrattività internazionale, avendo come punto di riferimento le persone e il miglioramento della loro qualità della vita e agendo su alcuni driver principali: le infrastrutture materiali e digitali, per connettere il territorio in tutte le sue aree e permettere di cogliere le opportunità legate alle trasformazioni tecnologiche anche in un’ottica di transizione ecologica; il sistema dei servizi al cittadino, mantenendo un ecosistema che permetta lo sviluppo delle potenzialità individuali, partendo dal benessere delle persone e sostenendo cittadini e famiglie; gli investimenti sul capitale umano come driver per migliorare competitività e produttività, integrando tra loro le filiere scuola, formazione, lavoro e impresa per garantire lo sviluppo delle competenze del futuro; le strategie di sviluppo territoriale per una Smart Land sempre più connessa e resiliente, potenziando la coesione e l’inclusione sociale e valorizzando il patrimonio paesaggistico e culturale della Regione e, al contempo, garantendo lo sviluppo sostenibile e la protezione delle biodiversità.
-Che opinione ha della possibilità di un ritorno del nucleare in Italia? Credo che il nucleare di ultima generazione sia sicuramente da prendere in considerazione, a patto che sia data ogni tipo di garanzia ai cittadini. Sono ottimista, visto lo sviluppo che sta avendo nel mondo. Viene considerato sostenibile anche da un punto di vista ambientale e infatti l’Europa lo prevede come una delle forme di approvvigionamento energetico.
–Quali sono stati i momenti più importanti del suo percorso politico e quali la hanno formata di più? Sicuramente l’avvicinamento alla Lega. Nella prima fase come osservatore, affascinato dal discorso delle Autonomie. Poi senza dubbio tutti gli incarichi assunti come amministratore, ognuno mi ha dato qualcosa: da sindaco di una piccola cittadina come Induno Olona, a presidente del Consiglio Regionale, a nuovamente sindaco, ma stavolta di una città più grande, a presidente di tutta l’assemblea dei sindaci lombardi e infine l’incarico ancora più impegnativo come presidente di Regione Lombardia.
-Quali sono i riferimenti culturali di Attilio Fontana? Il mio riferimento culturale è stato negli anni della formazione quello del Partito liberale. Mio padre era un simpatizzante e io l’ho seguito. Avevo stima soprattutto per Malagodi.
Ezio Mauro:”Bisogna servire la cronaca, non rimanere intrappolati in inutili dogmatismi”
Di Francesco Subiaco
Ezio Mauro, direttore di Repubblica per quasi vent’anni, saggista, giornalista è una delle penne più influenti del panorama italiano. La cui carriera costellata di successi e incontri autorevoli ne fa uno dei grandi nomi del nostro giornalismo. Piemontese, classe 1948, Ezio Mauro muove i primi passi ufficiali nel mondo del giornalismo sulla Gazzetta del popolo di Torino, durante la stagione del terrorismo, come uno dei più attenti cronisti degli anni di piombo. Inviato speciale per La Stampa e corrispondente da Mosca per Repubblica diventa in pochi anni la voce del disgelo, raccontando gli anni dello scioglimento dell’Unione sovietica ai tempi della Perestrojka mostrando le mille sfaccettature del crollo delle repubbliche sovietiche. Nel 1996 diventa direttore di Repubblica, subentrando a Scalfari, cercando non solo di continuare quel lavoro di sintesi tra sinistra e valori liberaldemocratici iniziata dal fondatore, ma anche di servire e fare proprio quella identità culturale che è l’anima del giornale. Ha intervistato Putin, Moro, La Malfa, i grandi della storia. Ora, dopo aver lasciato la direzione di Repubblica nel 2016, conduce una trasmissione su Rai 3, “La scelta” inaugurata con una straordinaria quanto discussa intervista a padre Gänswein che promette un interessante seguito. Voce pacata e passione per i viaggi, per Mauro il giornalismo è un mestiere fatto di particolari e di dettagli, che nella cronaca trova un momento essenziale della sua missione. Mostrandoci che in realtà il vero giornalista non è solo chi racconta i fatti, ma chi li rivela
-Per Tre anni lei ha raccontato la grande metamorfosi della Russia Sovietica durante la Perestrojka. A pochi mesi dalla morte di Mikail Gorbacëv cosa resta di questo protagonista di fine novecento?
L’ultima volta che lo vidi gli avevo raccontato che avevo passato una giornata intera con Navalmy; il leader dell’opposizione in Russia, l’uomo che è poi stato avvelenato e imprigionato dal regime di Putin. Mentre gli parlavo dell’incontro con Navalmy, mi guardò e mi disse “vedi che questi sono tutti dei nipotini della Perestrojka, anche se forse non lo sanno, perché il seme che abbiamo gettato allora da anche questi frutti”. Se dovessi formulare un giudizio su Gorbacev devo ammettere che fu sicuramente il leader del disgelo di un mondo pietrificato che sembrava immobile, uno dei personaggi chiave della storia russa, basti pensare che prima di lui c’era Cernenko (un leader che sembra venire da un altro secolo e da una altra storia), ma allo stesso tempo è anche una figura che nel suo paese non è ricordato con favore. Su di lui grava una opinione controversa perchè imprigionata nel paradosso che ha caratterizzato la sua intera azione politica.
–Ovvero?
Che per noi è stato il primo riformatore dell’URSS mentre per i russi è stato invece l’ultimo segretario del partito comunista sovietico.
–E cosa ha pensato quando Putin gli ha negato i funerali di stato? Non mi aspettavo che ci fossero funerali di stato, perché tra i due c’erano dei rapporti molto freddi e distaccati, se non di fatto inesistenti.
–Parliamo di lei. Come nasce la sua vocazione di giornalista? Ho sempre sperato di fare questo mestiere fin da ragazzo ed ho sempre cercato di partecipare a dei “giornali”, sia alle medie, sia durante la mia esperienza al collegio e nel mio paese d’origine. –Che insegnamento la ha formata di più nel suo approccio iniziale al giornalismo? Ricordo quando ero ancora un cronista della Gazzetta del popolo a Torino, uno dei più antichi giornali italiani, e al mio primo articolo mi mandarono a seguire il caso di una donna che era stata gettata nel Po e di scrivere una notizia su questo tema. Andai sul posto, cercai informazioni e poi iniziai, con molta difficoltà a scrivere il pezzo. Mi ricordo un collega passò vicino alla mia scrivania e leggendo le prime righe dell’articolo che avevo appena scritto a macchina mi si avvicinò e mi disse “Auguri”, lasciandomi senza capire se fosse un giudizio positivo o negativo… La sera tardi rimasi in redazione e quando arrivarono le copie del numero su cui c’era, o almeno ci doveva essere, il mio articolo, lo sfogliai immediatamente (era passata da poco la mezzanotte), e cercai alla sezione cronaca il mio articolo. Lo trovai e rimasi molto deluso, perché era stato totalmente riscritto e modificato. Del mio pezzo iniziale c’era poco e niente. Questo evento mi insegnò che avevo molto da imparare, perché potevo scrivere benissimo un reportage o una notizia politica, ma non sapevo ancora confrontarmi adeguatamente con la cronaca, men che meno scrivere una notizia di nera in poche righe, poiché esiste una tecnica, un tatto, una sensibilità per quelle cose che solo con molta esperienza si riesce ad acquisire. Un giornalista non deve mai smettere di mettersi in discussione di essere curioso e di voler conoscere a fondo la realtà che racconta. Un insegnamento che la mia esperienza alla Gazzetta mi ha lasciato molto –Le ha insegnato molto la cronaca? Moltissimo. Mi ha insegnato molte cose, il rispetto per le persone coinvolte, il tatto nel trattare questioni delicate, la capacità di sintesi, la curiosità per le cose di tutti i giorni. Perché, vede, tutti credono che fare cronaca sia solo raccontare i fatti, che la cronaca sia gregaria dei fatti, mentre essa, se fatta seriamente e con scrupolo, rivela la realtà delle cose e delle persone, poiché la realtà è molto più forte e più dura dei preconcetti e dei pregiudizi che si nascondono in ognuno di noi e solo immergendosi nel reale si scopre un mondo fatto di sfumature, di dettagli, una realtà fatta di contraddizioni. Una realtà complessa, ambigua a volte ingiusta, ma vera, oltre l’ideologia e le convinzioni di chi lo racconta. Un giornalista che non crede nei fatti e che ha uno schema ideologico che lo guida non si può far sedurre dalla cronaca e dalle rivelazioni che nasconde la realtà che racconta. Chi inventa non è capace di leggere la realtà, perché i fatti sono molto più forti di tutte le invenzioni di chi li vuole interpretare. Bisogna leggere la realtà, aprirla come un libro e comprendere quello che nasconde di più prezioso: i dettagli. –Per un giornalista i dettagli sono importanti? Sono fondamentali. Mi ricordo una frase che lessi una volta a casa di Nabokov, in un cassetto quando la andai a visitare in occasione di un mio lavoro sul centenario della rivoluzione russa :”soltanto i particolari e i particolari dei particolari, trasformano una storia inerte in qualcosa che merita di essere letta”.
–Anni fa lei intervistò insieme ad una delegazione di giornalisti occidentali Vladimir Putin. Che ricordo ha di quell’incontro e cosa pensa della metamorfosi di questo personaggio Dostoevskijano? È stato un incontro molto lungo e molto orientale. Putin si presentò con 4 ore di ritardo ad un appuntamento con una delegazione di otto direttori di giornali occidentali, tra cui il sottoscritto. Nella lunga attesa prima del suo arrivo riuscimmo a definire con gli altri direttori, all’epoca dirigevo Repubblica, i temi e le domande che volevano porre al presidente della Federazione Russa e convergemmo tutti su un tema principale da mettere per primo: i diritti umani e la questione delle minoranze. Scegliemmo quindi per prima cosa di chiedere a Putin se si volesse impegnare per escludere un atteggiamento duro e repressivo nei confronti dell’opposizione politica una volta concluse le elezioni (eravamo alla vigilia delle elezioni che poi lo avrebbero riconfermato leader del paese) evitando di usare il pugno di ferro contro le minoranze. Gli feci io questa domanda e lui allora mi disse che c’era spazio per tutti nella sua Russia e che non era necessario il pugno di ferro contro l’opposizione, cosa che di fatto smentì soprattutto nei confronti di Navalmy. La prima cosa che mi colpì di lui fu che mentre io gli porgevo la mia domanda sui diritti umani lui rimase in tensione sulla punta della sedia, mentre quando venne il turno del mio collega tedesco, che doveva porgli una domanda sui temi economici, si distese completamente, rilassato, sulla spalliera della sedia. La seconda cosa che mi colpì molto fu che mentre mi presentai prima dell’intervista, gli dissi chi ero e per quale testata scrivessi, mi disse “ho chiesto informazioni su di lei al mio amico Silvio”, sottolineando da una parte l’amicizia tra i due leader, dall’altro una profonda preparazione del leader del Cremlino che non perse nemmeno una occasione casuale per informarsi del suo interlocutore. Ricordo poi che mentre ci salutammo con gli altri colleghi della delegazione, eravamo in una abitazione che ci era stata descritta come residenza di Putin, gli dissi in russo “la prossima volta mi piacerebbe intervistarla al Cremlino” lui mi chiese perché ed io gli risposi che era poiché non avevo mai visto l’ufficio di un segretario generale di Mosca. Lui allora mi guardò e mi disse “perché non viene a vedere la mia partita di hockey che vado a fare con loro” indicando le sue guardie del corpo. In quel momento mi immaginai la copertina de Il venerdì di Repubblica con la foto in primo piano di Putin che gioca ad hockey ed il titolo lapidario:”La maschera di ferro”. Però poi gli dovetti rispondere che a causa di quelle quattro ore di ritardo dovevo correre a scrivere l’intervista per chiudere il numero. Mi sono perso una occasione cruciale per conoscerlo veramente ma dovevo scegliere o la partita o l’intervista e capirà ci sono delle scelte che un direttore a volte deve compiere. –Tra i protagonisti del giornalismo italiano, dalla Russia post sovietica al terrorismo passando per il berlusconismo, quali sono gli incontri che più la hanno formata ed i personaggi che più la hanno colpita? La stagione del terrorismo è stata importantissima per la mia formazione perché per me che all’epoca ero un ragazzo, la definisco come la guerra della mia generazione. Soprattutto perché la vissi in una città come Torino dove passava una frontiera tra il terrorismo e lo stato e poiché come disse una volta l’avvocato agnelli chi non è stato a Torino non può dire di conoscere è stato il terrorismo italiano. Ci si alzava la mattina e si sentiva la radio per capire dove colpivano e che attacchi facevano, ma ogni giorno colpivano, ogni giorno c’erano scontri, attacchi sparatorie, proprio come in una guerra. Ricordo che alla Gazzetta del popolo avevamo una radio che un collega geniale, aveva modificato per permetterci di ascoltare le frequenze delle forze dell’ordine e dei grandi giornali, in modo un po’ piratesco, per permetterci di essere sul posto ogni volta che i terroristi colpivano. Si ascoltava con attenzione le comunicazioni, i discorsi, per correre sul posto prima che i fatti diventassero delle notizie. Veniva messo ad origliare queste comunicazioni di solito il primo arrivato, tra cui anche per un periodo il sottoscritto, e ci accorgemmo che ogni volta che succedeva un attentato un crimine urgente, ma lo avrebbe capito chiunque, quelle frequenze impazzivano e si animavano rocambolescamente. Bisognava solo capire l’indirizzo, per arrivare per primi e cercare di capire cosa stesse accadendo. Di solito eravamo un giornalista e un fotografo o più giornalisti e quando succedeva un evento vicino alla Gazzetta arrivavamo prima delle forze dell’ordine. Mi ricordo di una segnalazione. Era l’ottobre del 1977, le Brigate Rosse avevano compiuto un attacco ad Antonio Cocozzello, consigliere comunale di Torino per la Democrazia Cristiana, che era stato gambizzato alla fermata del tram prima di andare a lavoro. In quel momento capii con i fatti che cos’era il terrorismo, guardando negli occhi la realtà della lotta armata. Pensavo al povero Antonio Cocozzello, mentre lo soccorrevano gli aprirono i pantaloni per cercare di curarlo e si vedeva che indossava un paio di mutande semplici, povere, da mercato. Quelle che poteva aver indossato mio nonno o un signore qualsiasi della campagna piemontese, e mi accorsi che quelle persone con quel delirio ideologico non c’entravano niente, che erano state colpite come maschere di un potere sovranazionale con cui non c’entravano niente, mentre invece erano solo delle persone comuni, ferite e colpite, ricoperte di sangue e lasciate in fin di vita perché erano diventati i bersagli di una lotta che non li riguardava e con cui non c’entravano nulla. –Quali sono stati i grandi incontri della sua carriera giornalistica? I leader politici, Berlinguer, Craxi, Andreotti, De Mita, La Malfa, Moro. Moro ad esempio mi metteva molta soggezione. Una volta mi trovavo di fronte al palazzo della Democrazia Cristiana, lo aspettavo per una circostanza che non ricordo a piazza del Gesù. Io mi ero intrufolato nel palazzo mentre lui entrava e non ricordo come riuscii ad. Entrare nell’ascensore con lui. Mi guardò con due occhi scocciati come a dirmi “non vorrai importunarmi con le tue domande”. Non gli feci nessuna domanda, ero molto in soggezione. Mi ricordo che mi guardò con quel suo sguardo, che mischiava timidezza e riserbo, ma che era capace di suscitare in me molta soggezione. Avevo aspettato almeno un’ora, ma non gli domandai nulla.
–Un momento in cui ha avuto paura e uno che ricorda con gioia? Non credo di aver avuto mai paura, nemmeno durante la stagione del terrorismo, forse per incoscienza più che per coraggio. Ad esempio una volta ero a Torino, durante la mia collaborazione con la Gazzetta del popolo, all’epoca finivano molto tardi e mi ricordo che mentre tornavo a casa avevo visto due ragazzi che amoreggiavano davanti casa mia. In quel momento un preoccupato decisi di rifare il giro, lo feci almeno sei, sette volte, forse anche di più, perché non mi sentivo tranquillo. Dopo poco tempo se ne andarono. Evidentemente erano solo dei ragazzi che cercavano di stare tranquilli per un po’. Però nemmeno in quel caso provai paura, anche se sicuramente c’era molta insicurezza a causa del clima di Torino in quegli anni. Solo chi ha vissuto a Torino quel periodo può capire veramente cosa è stato il terrorismo. Più che paura nella mia carriera ci sono stati dei momenti in cui ho temuto di non riuscire a leggere la lezione dei fatti in maniera corretta, di non avere una bussola per il giornale o di fare un errore. Sono momenti che capitano nella vita di un direttore di giornale, hai dei dubbi, non comprendi la realtà nitidamente, esiti perché vedi le cose in maniera poco chiara o non molto definita, hai paura di non comprendere la realtà, di fare degli errori. E allora aspetti, cerchi di capire ma non puoi aspettare, devi guidare un giornale, e hai l’obbligo di decifrare la realtà… delle persone dipendono da te, si fidano di te e tu gli devi una risposta devi sapere cosa è giusto fare, perché hai il compito di dare rotta e di tenere il timone del giornale. Questi dubbi sono tipici della solitudine di chi guida un grande giornale. In questi casi provai molta inquietudine, ma mi aiutarono molto due cose. Le lezioni dei fatti e l’identità del giornale. Sono queste le coordinate che mi hanno sempre aiutato cercare di essere lucido rispetto alla realtà e cercare di essere coerente con l’anima del giornale che dirigevo. In certi casi la realtà però è complessa e non si riesce a capire il vero volto delle cose, tutto sembra inafferrabile, queste sono le problematiche che affollano la solitudine di un direttore di giornale. –E cosa la aiutata a superare queste problematiche? L’aiuto dei colleghi, il confronto con gli altri, l’ascolto. Tenendo sempre presente la cultura del giornale, poiché è l’identità del giornale di cui fai parte, è una lente che ti aiuta a comprendere la realtà. Il buon giornale nasce dall’incontro dei fatti che urtano e irrompono nell’attualità e la cultura del giornale che determinano la scelta che compie chi dirige e chi scrive. –Ed il momento più bello? Penso ogni volta che ho sentito muoversi il giornale nel suo insieme, come una squadra o una forza intellettuale capace di comprendere e rivelare la realtà, quando tutte le voci le idee e le sensibilità delle persone che compongono un giornale si muovono in maniera univoca, come in una sinfonia. Se vuole un esempio definito invece le dico uno scherzo che mi fecero alcuni colleghi. Una volta andammo a cena con mia moglie e le segretarie di direzione. Finita la cena mi hanno detto di andarci a prendere un caffè all’interno del locale e mentre entrammo trovai una festa con tutti i colleghi di Repubblica. C’erano tutti i colleghi, Eugenio Scalfari, Carlo De Benedetti, mia figlia e anche alcuni colleghi che erano venuti a Roma appositamente per questa festa a sorpresa per me. Sono rimasto frastornato, ma anche molto felice. –
–Dalla segreteria blairiana del PD al governo draghi, che giudizio trae dal percorso politico di Matteo Renzi? Penso che se un leader politico ha l’onore di guidare la sinistra italiana contro la destra, di essere presidente del consiglio per quella forza politica, se messo in minoranza non debba uscire da quel campo politico formando una forza antagonista a quella che ha rappresentato in precedenza, ma deve continuare a testimoniare le sue posizioni politiche dentro quel partito. È un vincolo prima morale che politico. E questo è un discorso che vale sia per Renzi, che per D’Alema e per altri ancora. –Quali sono i Riferimenti culturali. Il Pantheon di Ezio Mauro ? Non lo so. Io non credo di avere un Pantheon che ha guidato la mia formazione, ma piuttosto di aver compiuto una ricerca, una continua ricerca che ha attraversato tutta la mia formazione e che continua tuttora. Un punto cardine sicuramente è stato Norberto Bobbio. Sa a noi piemontesi ci hanno sempre preso molto in giro per la faccenda del cosiddetto “azionismo torinese”, come se fosse un vizio o un difetto. In realtà l’azionismo fu un tentativo più culturale che politico di emancipare la sinistra italiana dai suoi ritardi, dai suoi errori, ed anche dagli orrori della sinistra nel mondo, coniugandoli con i valori liberali. Un tentativo fallito a livello politico, pensi ai risultati deludenti del Partito D’Azione, ma che ha lasciato una inesauribile testimonianza culturale di questo spirito di riforma e di che abbiamo cercato di portare a Repubblica con Eugenio. Lui veniva da una educazione liberale che ha conciliato con la sinistra mentre io da una formazione di sinistra che ho riletto alla luce dei valori del liberalismo. Un esperimento ed un tentativo culturale che abbiamo cercato di portare avanti e che non è ancora concluso perché credo che questo spirito sia l’unica strada per mettere la sinistra italiana al servizio del paese. Credo a livello letterario la letteratura russa e nello specifico Michail Bulgakov, soprattutto Il maestro e Margherita.
–Che ricordo ha di Scalfari e che cosa le manca di lui? Mi manca soprattutto il rapporto umano che avevo con lui. Lo dicevamo sempre, pur non avendo la stessa formazione politico culturale, ci siamo trovati nel giornalismo e nel rispetto del comune DNA di Repubblica. Lui perché lo ha inventato, io perché lo ho servito e lo ho rispettato, perché solo rispettandolo lo ho potuto vivere ed adattare tenendolo al passo con i tempi. Lui mi veniva sempre a trovare nel mio ufficio, fumava, anche se non si poteva, e parlavamo. Parlavamo di tutto, dell’attualità, del passato, della fondazione di Repubblica, oppure semplicemente cazzeggiavamo, poi Eugenio era un grande raccontatore ed era sempre bello sentirlo parlare soprattutto del passato e dell’identità di Repubblica. Mi interessava sempre sapere e capire meglio il rapporto con Carlo Caracciolo perché pure prima di arrivare a Repubblica mi interessava capirne l’identità profonda.
Guzzanti: “Né di destra, né di sinistra. Sono un liberale”
Di Francesco Subiaco
Irriverente, lucido ed istrionico, Paolo Guzzanti è una delle penne più affilate del giornalismo italiano, collaboratore de Il giornale e Il riformista, saggista, politico e autore di testi cruciali sulla politica italiana e i suoi protagonisti. Da Berlusconi a Evangelisti, da Cossiga a De Benedetti, Guzzanti ha raccontato le scene e i retroscena dei protagonisti della politica italiana, indagando l’attualità con articoli incisivi ed una longeva attività politica che lo ha portato ad affrontare le ombre che si nascondono dietro agli scandali della politica dei partiti, dietro le influenze sovietiche nel PCI. Da presidente della commissione Mitrokhin ha mostrato il lato oscuro e inconfessabile del comunismo italiano. Nel suo ultimo libro, “La Maldestra” ha raccontato i vizi e le virtù del centrodestra italiano mostrandone i difetti ancestrali e le possibilità future, mostrando una visione liberale integrale, antagonista ai totalitarismi e alle loro seduzioni ispirata a Winston Churchill, personaggio su cui sta scrivendo un nuovo testo per sottolineare l’essenza dei valori liberali che posizionano tale visione nell’ambito di uno scontro durissimo tra democrazie liberali e autocrazie nazicomuniste all’inizio della WW2 fino alla guerra in Ucraina. Per parlare del suo percorso giornalistico e del suo pensiero abbiamo deciso di intervistarlo nel suo studio, tra i quadri da lui dipinti e i ricordi della sua splendida carriera di giornalista.
–Aldo Cazzullo ha scritto che si sta prefigurando una cultura di destra libera e divina rappresentata da Paolo Guzzanti, Camillo Langone e Giampiero Mughini. Si ritrova in questa definizione? No, assolutamente no. Sono molto amico di Aldo Cazzullo, ma non mi trovo d’accordo con lui su questo tema perché io non sono di destra o di sinistra, io sono un liberale e credo che quando si è liberali veramente lo si è in toto. La distinzione tra destra e sinistra viene dopo le rivoluzioni gemelle fascista/nazista e bolscevica/comunista. Due ideologie la cui natura segna la totale opposizione tra le liberaldemocrazie e i crimini dei totalitarismi gemelli. Le stragi, le deportazioni, i campi di sterminio sono la cifra di cosa sono stati i totalitarismi nazifasciocomunisti, fratelli separati in mostruosità che metto sullo stesso piano come i veri nemici delle democrazie occidentali e quindi del liberalismo. Entrambe, infatti, sono ideologie mostruose, ma con una aggravante, nel caso del nazismo, che riguarda quell’abominio morale che fu la Shoah, che fu interrotto solo dalla sconfitta durante la seconda guerra mondiale sennò avrebbe raggiunto i numeri, ampiamente superiori rispetto al nazifascismo, del comunismo, che intendo nella sua forma più ampia (cubano, stalinista, iugoslavo, cinese), come una fede politica che ha insita nella sua conformazione una visione totalitaria e criminale, come del resto la sua rivoluzione gemella. Per questo i liberali non hanno nulla a che fare con i nazifascisti, di destra, né con i comunisti, di sinistra, ma sono liberali e basta. Churchill, conservatore, anticomunista e antifascista, era un vero liberaldemocratico perché durante la guerra osteggiò queste due pestilenze della storia in ogni modo. -Ma Churchill non era un conservatore oltre che un liberale e quindi un uomo di una altra “destra”? Se consideriamo di destra Churchill allora io posso definirmi “di destra” ma ciò esclude ogni attribuzione a questa definizione di quella robaccia postfascista. Per me quindi i liberali sono liberali e basta.
–Perchè definisce le rivoluzioni dei totalitarismi “gemelle”? Perché sono due facce dello stesso volto. Se cerchiamo nei libri di storia russa e sovietica, soprattutto, un evento come la seconda guerra mondiale non ne troveremmo traccia. Leggeremmo invece di un evento molto particolare: “La grande guerra patriottica”. Un momento del novecento in cui l’alleato dell’Urss, la Germania di Hitler, si è rivoltato contro il popolo russo tradendo il patto di alleanza che avevano firmato negli anni 40. Un tradimento che portò Stalin ad abbandonare l’alleanza militare ed ideologica con Hitler per scegliere un accordo militare e strategico con le democrazie occidentali. Fino a quel momento tutti i comunisti del mondo, su indicazione del Cremlino e di Stalin tramite i suoi comunicati sulla Pravda, hanno tifato per Hitler affinché vincesse la guerra minando l’integrità “dell’imperialismo angloamericano e portando alla sconfitte le borghesie plutocratiche occidentali”. Solo i socialisti si opposero a questa alleanza ideologico-militare e per questo furono attaccati ed etichettati come socialfascisti. Tutte le forze di sinistra dopo l’aggressione nazista cambiarono radicalmente la loro posizione, passando da un pacifismo filonazista ed antioccidentale, ad un forte interventismo, ma quella mutazione a mio avviso fu solamente strategica e non ideologica, tanto che chiusa la seconda guerra mondiale l’opposizione al liberalismo e alle democrazie continuò durante la Guerra Fredda manifestando quanto entrambi questi mondi fossero equivalenti nella loro avversione agli ideali liberali. La cosiddetta guerra fredda fu nient’altro che la continuazione della seconda guerra mondiale contro l’Occidente con altri mezzi. Una minaccia equivalente a quella nazista come sostengo in un libro che sto scrivendo sul tema. I sovietici non a caso hanno sempre alimentato il mondo dei naziskin e dell’eversione nera contro l’occidente. –E i liberali? Sono un mondo opposto a queste ideologie. Noi liberali siamo i nemici di costoro, e lo siamo perché loro stessi ci hanno dichiarato più volte una guerra senza quartiere. Ma il liberalismo non è solo il voto, tutti i maggiori paesi possono votare. Votano in Cina, in India, in Russia, in Pakistan e non c’è nulla di più comune di una democrazia autoritaria che conferma un governo antidemocratico. Cosa avrebbero fatto gli italiani nel 1936 se avessero potuto votare, probabilmente avrebbero confermato il regime fascista, perché non è solo il voto che definisce le liberaldemocrazie, ma sono la libertà e la concorrenza. La possibilità pluralista di fare scelte differenti, di avere visioni anche contrapposte, che sono la conseguenza della concorrenza e della libertà di scambio senza cui non ci può essere una vera libertà. Una concezione che purtroppo capii nella mia vita un po’ troppo tardi.
–Lei quando divenne un liberale? Gradualmente. Io venivo dal Partito Socialista e quando il PSI si sciolse c’erano due opzioni o andare con i postcomunisti o partecipare a quella ventata di grande rinnovamento portata da Berlusconi con Forza Italia, a cui aderirono Lucio Colletti, Giuliano Ferrara e Marcello Pera ad esempio. In quello scenario si sentiva una forte esigenza per il paese di portare liberalità alla società italiana e aprirla ad una nuova visione del mondo, questa condizione non poteva appartenere ai postcomunisti che in tutto il loro passato non erano stati in grado, pur volendo, di dire di no all’Unione sovietica in nessun momento della loro storia e anche dopo la caduta del Muro hanno deciso di opporsi a questa idea di liberalizzazione della società.
–E che ne pensa di quel mito del Pci, come di un partito libero e pulito, contro la corruzione e i suggerimenti atlantici, descritta dal clero post comunista? Nulla di più falso. Prima di tutto il PCI ha sempre votato e deciso seguendo le indicazioni del Komintern e di Mosca, pur non volendo in alcuni momenti. In secondo luogo tornando alla questione morale dei comunisti c’è da dire che in Italia solo un partito era autorizzato ad avere un ingente e irregolare finanziamento illecito, ovvero il Partito comunista. Il PCI si riforniva irregolarmente e illecitamente ogni anno di sontuosi e abbondanti finanziamenti, come disse e spiegò più volte l’ex presidente della Repubblica Cossiga. La procedura era la seguente: un alto funzionario comunista partiva da Roma con una valigetta vuota verso Mosca; arrivato a Mosca si incontrava col signor Ponomarëv con cui conversava amabilmente di fronte ad una tazza di tè caldo, mentre alcuni funzionari del PCUS riempivano di dollari la suddetta valigetta; tornato a Roma due agenti del tesoro americano controllavano che i dollari portati da Mosca fossero validi e veri, per evitare l’immissione di dollari falsi e contraffatti nel mercato, e verificata la qualità del denaro riprendevano l’ultimo aereo per tornare negli States; a quel punto due alti notabili dello stato, tra cui una volta lo stesso Cossiga, accompagnavano l’emissario del Pci in Vaticano, dallo Ior, per farsi cambiare il denaro importato in valuta nazionale. Tutti gli altri partiti lo sapevano e per tale motivazione anche loro si rifornivano in maniera illecita. Tangentopoli poteva essere scoperta già a fine anni settanta ed anzi io, per caso, riuscii a mostrare il mondo che sarebbe salito alla ribalta con Mani Pulite già nel 1979, proprio con una notizia che raccontava l’ambiente del potere della Prima Repubblica in relazione con i finanziamenti illeciti.
–Allude al caso Evangelisti che raccontò ai tempi di Repubblica e che portò anche in teatro? Esattamente –Ci può raccontare come è andata? Andai ad intervistare l’allora Ministro della Marina Mercantile Franco Evangelisti, perché Eugenio Scalfari voleva avere una risposta o una smentita, se vogliamo, di un accusa, mossagli da L’Espresso, nel suo coinvolgimento in attività illecite riguardanti la marina mercantile. Era il 1979 ci incontrammo al ministero e nonostante fosse la prima volta che ci incontrassimo lui mi accolse calorosamente con il suo accento marcato romanesco e mi disse “A Pa’ viè qua” io allora mi avvicinai con il taccuino in mano per segnare la sua dichiarazione al che lui mi guardò e mi disse “ma che fai lascia perde leva sto coso, prima te devo da Er background per farti capire de che stamo a parla” ed inizia a raccontarmi come funzionava la politica dei partiti. “A Pa’ qui avemo rubato tutti” e descrisse quello che era il mondo del finanziamento del sistema dei partiti, il famoso “a Fra che te serve?”. Lì mi sembrò di sognare, il braccio destro di Andreotti, ministro dii un governo, mi stava raccontando il dietro le quinte del potere democristiano, le chiamate, i contatti, le relazioni. In quel discorso era tutto nero su bianco. Finito di parlarmi informalmente mi disse “mo puoi tirare fuori quel coso” e mi iniziò a dare istruzioni su cosa dire, che domande fargli e che risposte scrivere. Io tornato in redazione però non scrissi nulla di questo, ma trascrissi il reale contenuto dell’intervista. La feci pubblicare in fretta senza farlo passare per troppe mani. Il giorno dopo scoppiò il pandemonio, con dodici anni di anticipo avevo raccontato il volto segreto della politica dei partiti che solo DOPO Di Pietro e il pool di Milano mostrarono, e lo sa cosa successe? –Cosa? Niente. Nonostante il ministro fu costretto a dimettersi per le verità che aveva rivelato, ovvero che sia all’opposizione che al governo tutti i partiti si nutrivano di aiuti esterni, di ambiguità col mondo imprenditoriale e con altre nazioni, l’opinione pubblica non si indignò per la fonte illecita dei finanziamenti ai partiti, ma per il modo in cui tali fatti venivano raccontati. Fu più l’arroganza e la spavalderia romanesca di Evangelisti che la verità che raccontava a costringerlo a dimettersi ed ad avviare il suo declino politico. Per l’opinione pubblica era normale ricorrere ad aiuti “esterni” per fare politica, “la politica ha i suoi costi” dicevano, la cosa che li scandalizzava era che un ministro della Repubblica parlasse in quel modo, si comportasse così di fronte ad un giornalista, del resto non importava niente a nessuno, un po’ di clamore e poi si tornò per altri dodici anni alla normalità. Quell’evento mi colpì molto dopo averci riflettuto successivamente poiché mi rese chiaro la natura di Tangentopoli. –Ovvero? Che Tangentopoli fu una grande operazione di sostituzione della vecchia classe dirigente della prima Repubblica, che aveva esaurito il suo compito con la fine della guerra fredda, con quei bravi ragazzi del polo post comunista, molto più affidabili dei vecchi democristiani e dei vecchi socialisti, inaffidabili e ambigui. Poi arrivò Berlusconi e con un tentativo unico di rivoluzione liberale, con un partito nato in pochi mesi, scompigliò le carte del mazzo cambiando la rotta del nostro paese.
Che giudizio trae di Silvio Berlusconi? Lui è stato un eroe. Uno degli uomini più ricchi del mondo che al posto di crogiolarsi nel proprio successo ha deciso di dedicarsi alla politica e di iniziare un percorso di profonde riforme e innovazioni del paese che lo hanno portato a sfidare la macchina da guerra del centrosinistra, e ad impedire, da solo contro tutti, di trasformare il PCI, forte del suo sostegno statunitense, nel partito egemone dell’establishment italiano. Una impresa eroica che gli è costata processi, attacchi, campagne d’odio ed attentati per cercare di avverare una rivoluzione liberale. Ha cambiato il corso della storia ed ha impedito ad una banda di clericali e dogmatici, figli della peggiore sinistra e della peggiore DC, di dare il colpo di grazia a questo paese. Umanamente è una persona deliziosa, politicamente ha fatto degli errori e delle cose giustissime, ma non voglio parlare dei suoi errori perché ne parlano tutti, anche con estrema precisione ed in maniera esigente, abitudine che purtroppo non vale per altri personaggi con minor meriti e maggiori errori.
–Per lei cosa vuol dire quindi essere veramente liberale? Vuol dire garantire la libertà di scambio, di merci, di idee, di informazione. Non è solo il voto o la possibilità di essere ricchi, quanti oligarchi russi, mandarini del partito comunista cinese e gerarchi fascisti erano ricchissimi e pieni di soldi?, ma la possibilità di essere liberi di garantire la libertà di scambio, di poter fare affari con chi si vuole e quindi in sostanza di non avere la libertà come un privilegio concesso dall’alto per pochi. Per questo i liberali sono inconciliabili con la visione nazifasciocomunista.
–Ricorda quando si avvicinò nettamente al pensiero liberale? Probabilmente con Cossiga che ha risvegliato in me una visione liberale e durante il mio soggiorno nei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Un giorno, quando era presidente della Repubblica, Cossiga mi chiamò la mattina presto a casa, tanto che mio figlio ancora bambino si impressionò e mi chiese cosa avessi fatto a Bush (per lui il presidente era infatti quello americano) per meritarmi una sua chiamata. Mi chiamò e mi disse “Lei cosa sa sui Cattolici liberali in Italia?” ed io non ne sapevo nulla e così mi invitò ad un convegno in cui si parlava di Cavour e dei liberali italiani, quello fu un primo approccio al liberalismo che ritengo fondamentale. Anche se devo dire che non apprezzo molto Benedetto Croce per la sua umiliazione della scienza e della psicanalisi. Poi in generale sono molto critico verso la scuola hegeliana, perché penso che i problemi del pensiero novecentesco nascano tutti da Hegel e dalla sinistra e dalla destra hegeliana, pensiamo a Marx, al fascismo, al nazismo.
Chi sono stati i suoi maestri e riferimenti? Sono stati i protagonisti della storia che hanno sfidato la guerra per difendere la libertà, come Winston Churchill. Perché chi è liberale è una persona intransigente nel difendere libertà anche a costo della guerra. Sicuramente sono stati i miei maestri gli autori del pensiero liberale. I grandi incontri della mia vita, Cossiga, ma anche Scalfari.
–Che ricordo ha di Cossiga? Io all’epoca ero un giornalista de La stampa e in quel periodo tutti erano incuriositi di questo presidente che tutti definivano pazzo e allora Ezio Mauro mi disse di andare a Gela per un evento in cui presenziava Cossiga. Io allora andai a Gela e il giorno dell’evento ero insieme ad una schiera di giornalisti di varie testate ed aspettavamo l’arrivo del presidente della Repubblica. Ad un certo punto arriva Cossiga, che io non conoscevo, ma che aveva potuto vedermi in una puntata di una trasmissione, chiamata Harem, in cui parlavo di mia figlia Sabina, all’epoca non ancora famosa, che faceva l’accademia di arte drammatica. Cossiga mi vede e si stacca dalla delegazione presidenziale e si dirige verso la flotta di giornalisti e si avvicina a me. Io allora incredulo mi guardo intorno e cerco di capire verso chi si stia dirigendo, fino a quando lui si dirige verso di me, mi prende sotto braccio estraendomi dalla schiera, strappandomi la giacca tra l’altro, verso il palco mentre mi dice col suo inconfondibile accento: “Non sapevo sua figlia facesse l’attrice” e mi trascinò sul palco dove eravamo io, lui e il sindaco di Gela. Lì fece un discorso contro Giorgio Bocca, in difesa dell’arma dei carabinieri, erano i tempi dell’uno bianca. Allora raccontai quello che aveva detto, che impressione mi fece, ma non scrissi quello che era comune nell’opinione pubblica, ovvero non dissi che era pazzo come tutti dicevano allora, rompendo un patto sacrale che si era creato nel panorama giornalistico italiano, attirandomi le ire e l’odio dei decani dei massimi giornali, primo fra tutti Repubblica. Cossiga saputo dell’accaduto mi invitò ad un usanza che non conoscevo, la colazione al Quirinale alle 7. Li arrivai e trovai Cossiga circondato da tutti giornalisti di sinistra, del Manifesto e dell’Unità soprattutto, con cornetto e cappuccino.
–Perché di sinistra proprio? Perché gli piaceva, perché vedeva i comunisti come una banda di galantuomini con cui si era costretti ad essere avversari ma che trattava col massimo rispetto. Non a caso, da cugino di Berlinguer, diceva sempre “con i comunisti si mangiava l’agnello la domenica di Pasqua”.
–E invece del suo periodo a Repubblica? Ma è vero che licenziava i colleghi con la voce di Scalfari? Non proprio. Più che altro facevo una ottima imitazione della voce di Scalfari e con altri colleghi ci divertivamo a fare degli scherzi in redazione. Ad esempio chiamavo con l’interfono Barbara Spinelli con la voce di Scalfari e gli dicevo “Barbara puoi venire un attimo in ufficio?”. Lei andava in ufficio da Scalfari e gli chiedeva “Dimmi Eugenio” lui la guardava e gli diceva “guarda non mi sembra di averti chiamato”. Allora aspettavo che ritornasse in ufficio e poi la richiamavo “Barbara scusami mi sono ricordato che ti volevo dire”. E reiteravo questo scherzo. il licenziamento era invece una cosa che feci solo una volta ad un collega con cui non avevo splendidi rapporti. Lo chiamai, lui era un livornese, e con la voce di Scalfari gli dissi “Il giornale come vedi non va bene, stiamo perdendo copie e le notizie non sono più brillanti come un tempo, queste sono cose di cui sei tu responsabile”, lui allora prova a giustificarsi e a dirmi “Che devo fare, come posso cambiare?” Ed io inesorabile gli risposi “Ma che puoi fare, non puoi fare niente, è un processo irreversibile. Se vai al sesto piano trovi l’ingegner Piana con pronta la tua liquidazione”. Invece se devo pensare ad un giudizio su quel periodo devo ammettere che Repubblica in una prima fase era la speranza di una certa sinistra liberalsocialista, radicalsocialista, comunista dissidente, azionista, che poi naufragò con l’avvicinamento al PCI e con la fusione con Paese sera anche se fu un periodo per me altamente formativo e pieno di nuove e fondamentali esperienze.
I personaggi cardine della tua vita? Scalfari sicuramente poichè mi permise di viaggiare in giro per il Medio Oriente e nei paesi post comunisti poco dopo la fine del patto di Varsavia oppure affidandomi servizi letterari come quelli sul carteggio dei Fratelli Verri, e con queste letture e questi viaggi mi hanno permesso di avere una università di fatti e di esperienze che mi hanno permesso di conoscere il mondo oltre le lenti dell’ideologia. Mio padre che era un razionalista e un liberale e mi ha formato moltissimo e sicuramente Francesco Cossiga.
“Meraviglioso e vertiginoso , coinvolgente e sconvolgente , divisivo almeno tanto quanto unisce , magnetico ed enigmatico nella sua ap parente chiarezza , la Repubblica è un libro che non si può smettere di leggere ; un libro che emoziona , perché ci pone davanti a un Inizio – alla sua indiscutibile grandezza e alla sua insuperabile contingenza e difficoltà” con queste parole Carlo Galli, professore emerito all’Università di Bologna tra i massimi studiosi del pensiero politico, apre il prologo del suo ultimo straordinario testo su Platone: “La necessità della politica “(Il mulino). Un’opera con cui Galli fa entrare il lettore in quel monumento del pensiero politico che è La Politeia platonica, indagando tramite la lente del filosofo greco la Politica in ogni sua declinazione e in ogni sua manifestazione, un dialogo totale che indagando le forme dei governi riesce a tracciare una radiografia definitiva su cosa sia il potere e su che tragedia sia il divorzio tra Filosofia e azione politica. Un testo capace di confermare il motto di Holderlin per cui “ci sentiamo originali solo perché non abbiamo letto abbastanza”, in quanto tra le pagine della Repubblica si ritrova un grado di profondità e di astrazione così elevato che rendono questo testo, e di conseguenza il testo di Galli, imprescindibile per chiunque voglia conoscere cosa sia la Politica, poiché si può pensare essa contro Platone, ma non si può pensare essa senza Platone. Per meglio comprendere la complessità di questo testo abbiamo intervistato il Professor Carlo Galli che nel suo saggio ha scritto parole definitive sulla Politica e sul capolavoro Playon.
Perché “La necessità della politica”? E che relazione esiste tra Politica e Politico? Il mio libro su Platone ha come tema “la necessità della politica”, che è cosa ben diversa dal ‘politico’. Questo è una immediatezza, un rapporto conflittuale, ipotizzato come originario, mentre la “Politica” è il sistema di mediazione e riconoscimento del ‘politico’ in un ordine. E’ questo ciò che tratto e indago nell’opera platonica, ovvero un’idea di mediazione, che viene rappresentata tramite la filosofia e la metafisica. Il tema principale trattato nella Politeia, il testo che è al centro del mio saggio, è la giustizia, la quale, non è, però, una virtù in senso tradizionale, ovvero un abitus morale del singolo, bensì una meta-virtù poiché per esistere essa ha bisogno della pluralità degli uomini e di una dimensione politica, il che la rende differente dalle altre virtù trattate nei dialoghi platonici. La giustizia è dunque una meta-virtù, per realizzare la quale è necessario un diverso modo di pensare, ovvero la metafisica, che ne costituisce le fondamenta. Qui c’è la grandezza della scoperta platonica, che collega la giustizia direttamente alla sfera collettiva e alla “filosofia prima” non solo al singolo.
–Come nasce la Repubblica è come risolve Platone il problema della giustizia? La Repubblica è un opera in dieci libri, che si prefigura come una lunga risposta alla provocazione del sofista Trasimaco, per il quale la giustizia è l’utile del più forte ed un “bene” di altri. Il “Bene” che la legge promuove, per il sofista, è il vantaggio non di chi obbedisce alla legge, ma di chi la promulga e concepisce. Nella visione di Trasimaco, l’utile, fagocitando la morale, trasforma la politica nella massimizzazione dell’interesse esclusivo di una parte, e da ciò deriva come conseguenza è l’ingiustizia del più forte sul più debole. La risposta di Platone a questa tesi è assolutamente impegnativa, nonostante una premessa iniziale non molto solida; la giustizia, dice Socrate nel dialogo, è una tecnica che è svolta a vantaggio dei più deboli, da parte dei migliori (come la medicina, con la quale i medici curano i malati). La descrizione che fa Socrate della giustizia è però troppo debole: per questo Platone inventa la “mediazione”, ovvero la metafisica, al fine di superare l’utilitarismo di Trasimaco. Platone considera, infatti, la politica come la dimensione in cui tutti possono diventare sé stessi sotto la guida filosofi, che hanno titolo a governare perché non solo conoscono la verità delle Idee ma la portano, mediandola, sulla terra, nella città. Una visione che è possibile solo se si costituisce filosoficamente la politica, mostrando la filosoficità della politica e la politicità della filosofia. Tale concezione è l’elemento più caratteristico e più lontano dal liberalismo della filosofia platonica.
–Per questo secondo lei Platone viene definito totalitario da pensatori come Karl Popper? E perché questa concezione è antitetica a quella liberale?
Poiché per i liberali la politica è la dimensione in cui l’immediatezza, la ricerca dell’utilità del singolo, trova una regolamentazione, attraverso condizionamenti istituzionali che le danno una forma ordinata, trasformando l’aggressione in concorrenza. È una concezione della politica che si fonda sul soggetto e sulla nascita della “mediazione” politica, lo Stato, come artificio contrattuale. La differenza con Platone è abissale, perché per lui nella politica c’è la possibilità di realizzare compiutamente la pienezza dell’uomo e non solo una esteriore regolamentazione dell’agire dei singoli. Una ricerca della pienezza che noi moderni abbiamo, invece, perduto per sempre, poiché abbiamo deciso di vivere come soggettività alienate. Noi moderni viviamo una esistenza che si divide in una pluralità di aspetti tra loro alienati poiché abbiamo una sfera politica quando costruiamo l’ordine giuridico, poi una economica quando perseguiamo l’utile tramite il lavoro nella società, mentre nella vita domestica abitiamo un’altra sfera, quella privata. Questi tre diversi piani dell’esistenza, separati tra loro, Platone non li concepisce affatto. Non perché non ne ammetta l’esistenza, ma perché la pienezza e complessità dell’umanità vanno preservate e organizzate in una unità, e ciò è possibile solo attraverso la filosofia che si fa pratica, ovvero nella città, tramite la politica in cui comandano i filosofi, conoscitori del Vero. L’obiettivo non è, quindi, di alienare l’uomo ma di liberarlo dall’alienazione facendolo vivere in armonia con gli altri e con sé stesso. Una visione totalmente in antitesi col liberalismo, ma che non per questo fa di Platone un pensatore totalitario. Lo stesso accostamento di Platone al totalitarismo è errato ed insensato, poiché questa contrapposizione è completamente anacronistica. Platone come liberale o come totalitario è una visione profondamente errata, ma non per questo la sua filosofia è estranea alla nostra civiltà, poiché con “La Repubblica” ha aperto la via della filosofia e della politica, non per i contenuti o le mete che ha raggiunto, ma per le strade e per le domande che ha posto nella sua formulazione. Rendendolo un libro imprescindibile per chiunque voglia approfondire i rapporti tra filosofia e politica.
–Perché il pensiero platonico è imprescindibile per comprendere il rapporto tra filosofia e politica?
Platone ha insegnato che per non vivere nella casualità, nell’insensatezza, dobbiamo pensare la politica, e per pensare la politica ed essere veramente uomini dobbiamo passare per le questioni e i sentieri che ha segnato. Per questo lo possiamo definire il padre venerando e terribile della filosofia e della politica.
–Quali sono le caratteristiche della Kallipolis e delle idee espresse nella Politeia?
La città, che è il soggetto politico della Politeia, nasce come coesistenza umana mediata dal bisogno e della divisione del lavoro; quando essa si sviluppa diventa una città di lusso e allora si apre alla guerra e ciò comporta una differenziazione anche dei ruoli politico-sociali. Si forma una differenza fra i soggetti capaci di combattere, i più coraggiosi (i guerrieri), e di quelli in grado di pensare l’intero e dotati di una intelligenza collettiva (i filosofi), e i produttori. I cittadini di questa città hanno l’anima uguale, nel senso che ciascuno ha in sé l’elemento teorico, l’elemento del coraggio, e l’elemento pratico; ma in proporzioni diverse. Alcuni hanno quindi doti pratiche e sono destinati al lavoro, altri sono orientati al coraggio, e sono superiori secondo Platone poiché chi lavora lo fa per sé, chi combatte lo fa per gli altri, e poi chi fra i coraggiosi è dotato della riflessione in generale, deve guardare all’interesse complessivo della città. Ciò viene spiegato da Platone tramite il “mito fenicio” degli uomini delle tre radici (di bronzo, d’oro e d’argento), che prefigura le divisioni nella Kallipolis le quali rappresentano una città gerarchica e differenziata, dove ognuno fa quello che la propria natura gli detta e non quello che gli pare. A quale gruppo ciascuno appartiene però non viene deciso in maniera ereditaria, ma si viene selezionati dai filosofi. La Kallipolis per quanto differenziata non è percorsa da contraddizioni insolubili, bensì vi è una virtù comune che è propria di ogni cittadino: la “temperanza”. Tutti i cittadini in coro, riconoscono “sinfonicamente” che la città e la sua gerarchia sono giuste; ciascuno segue la propria natura e modera i propri istinti (perché temperanza vuol dire moderazione) in nome del benessere comune seguendo la loro vocazione primaria. Tutti hanno la ragione, ma è filosofo solo colui nel cui animo la ragione è egemonica. Quella platonica è una città dell’uguaglianza, ma ancor più della differenza, della gerarchia, ma soprattutto dell’armonia. Per vivere in maniera armoniosa, per realizzare la Kallipolis, bisogna che ci siano tre condizioni: l’uguaglianza tra gli uomini e le donne; la messa in comune dei beni di filosofi e guerrieri, eliminando le cattive conseguenze dell’individualismo; il dominio dei filosofi. –Come mai proprio i filosofi per Platone devono comandare? Perché la politica consiste in un agire sorretto dal sapere, ovvero conoscere ciò che c’è di conoscibile in questo mondo, individuando in esso una trama razionale superiore: la metafisica. Per vedere tale trama occorre andare oltre l’apparenza. Siamo immersi in un mondo empirico e caotico che rappresentiamo in immagini, ma le idee, che sono l’essenza del mondo, non sono questo. In Platone la differenza fra il mondo delle idee e quello dell’apparenza è la differenza tra ciò che è mobile e ciò che è essenziale, ciò che è conoscibile con i gradi bassi della conoscenza, ciò che è mortale, e quello che è conoscibile tramite la dialettica, ovvero ciò che è immortale. I filosofi poiché contemplano le idee e conoscono il cuore degli uomini, grazie alla loro capacità di leggere la trama razionale del mondo sono, per Platone, gli unici che possono governare la Polis, in quanto sono dotati di una intelligenza che fa loro cogliere la complessità delle cose.
–Secondo Platone filosofia e politica possono vivere disgiuntamente? La filosofia è per lui impensabile senza la politica, perché è nella pratica che essa realizza l’armonia e il bene sociale tramite la conoscenza. La conoscenza, quindi, non è un sapere sterile ed autoreferenziale, bensì è conoscenza dell’essenza e della sua realizzazione nel mondo. La realizzazione della filosofia è descritta nel mito della caverna con l’immagine dell’uscita del filosofo dalla caverna, la visione delle Idee e del Sole, e poi del pericoloso ritorno dentro la caverna per liberare i prigionieri, perseguendo il bene comune. Per Platone il Bene (il Sole) è superiore alle idee, nonostante non sia conoscibile ma solo contemplabile dal filosofo, poiché è la condizione della conoscenza e la sua ultima garanzia. Qui emerge il carattere antinichilista e antitecnico della filosofia platonica: le idee sono nel Bene, la conoscenza è nel Bene, la sua realizzazione pratica (che è anche una tecnica ma che nella tecnica non si esaurisce) è nel Bene. La metafisica ha una finalità operativa, come aveva capito Heidegger, in quanto è l’impulso a lavorare sul mondo per trasformarlo e renderlo diverso, tramite un gesto critico distruttivo (perché va oltre le apparenze), che oltre a una valenza nichilistica ha anche un lato edificante e costruttivo, perché è portatore della convinzione che il filosofo legittima il proprio sapere e la propria conoscenza in quanto è immerso nel Bene. L’impulso nichilistico e tecnico viene corretto dalla convinzione che è Bene che esistano le idee, il mondo, e la conoscenza e che c’è un principio da cui essi scaturisce. Per questa capacità di analisi le domande e i percorsi che ha aperto la Repubblica rendono questa opera imprescindibile per comprendere che cos’è la filosofia, la metafisica e la politica, a meno che non si pensi il mondo come pura casualità, contingenza ed insensatezza.
–Che rischi sono presenti nel pensiero platonico? Forse quelli di un pensiero totalitario? I rischi di Platone non sono quelli del totalitarismo, ma sono quelli della tecnicità. Per il totalitarismo l’uomo è nulla e può essere rifatto, mentre per Platone può essere guidato per diventare ciò che è. Ovviamente nel pensiero platonico il soggetto è sicuramente debole, come sottolineò Hegel, ma allo stesso tempo il suo edificio filosofico si pone come nemico delle immagini, dell’utile e della cultura come divertimento, in nome della verità e dell’essenzialità. Un edificio filosofico che si posiziona anche al di sopra anche della religione orfico pitagorica e misterica da cui attinge molto, ma a cui aggiunge una razionalizzazione dell’elemento della salvezza e della conversione che non sono più legati al mistero, ma al sapere. Che ci obbliga a non avere più paura della libertà.
Che cos’è per Platone la libertà ? La libertà è un obiettivo da raggiungere, che viene conquistato operando su sé stessi tramite la filosofia, con la disciplina e la temperanza, governando le passioni, attraverso un percorso di scoperta che permette all’uomo di essere libero, cioè di essere sé stesso. La libertà ha senso solo nella giustizia, cioè nella relazione giusta con gli altri, mediata dalla politica e dalla filosofia. E, soprattutto, per Platone la libertà come giustizia è l’unica via per la felicità, che non sta nel fare ingiustizia (come diceva Trasimaco) ma nel fare giustizia. La libertà è anche responsabilità, come dice Platone nel mito di Er (nel decimo libro).
Quanto attuale Platone oggi? Al di là di quanto si è detto sul fatto che Platone imposta il problema politico-filosofico in generale, è attualissimo soprattutto nell’ottavo libro della Repubblica quando mostra che cos’è la politica senza la filosofia. In quel libro, dopo averci detto che cosa fanno i filosofi nella Città ideale, ci insegna che cos’è la politica senza la filosofia, mostrando le metamorfosi delle forme del potere non guidate dal sapere. C’è la timocrazia, il governo della virtù e degli aristocratici, l’oligarchia, il governo dei ricchi, poi la democrazia, il governo della massa, e infine la tirannide. L’epoca di Platone è segnata dallo scontro tra oligarchia e democrazia, ovvero i ricchi e i poveri, che logorano la Polis combattendo tra loro, motivo per cui il filosofo è critico di entrambi i regimi. La democrazia viene criticata da Platone perché è il regno della licenza, e non della libertà. La democrazia, per Platone, è pura contingenza, pura empiria, puro capriccio che senza un nomos e una legge vuole soddisfare le pulsioni, facendosi portatrice di un enorme disordine e di una profonda anomia che causano caos e instabilità nella Polis. Una insicurezza fatta di congiure, tensioni sociale e crisi dei valori, causato dagli scontri tra gli oligarchi decaduti e i governi democratici, che sono il sintomo più eclatante della politica in assenza della filosofia. In questi scontri tra capi popolari e restauratori spiccano gli eredi degli oligarchi, ormai impoveriti, che formano bande di individui pieni di rabbia e risentimento i quali, dopo aver destabilizzato il fragile governo democratico, riescono a prendere il controllo della Città e insediano al potere uno di loro, il quale diventa il tiranno, a cui si affidano sia ricchi sia poveri con la speranza di trovare ordine e pace e di vedere finite le reciproche vessazioni. Ma tutti si sbagliano tremendamente perché il tiranno, che è il contrario del filosofo, è un uomo solo preda di tutte le passioni e tutti i desideri, sostanzialmente folle e imprevedibile, che vive nel continuo terrore di essere sopraffatto o ucciso e per questo si circonda di guardie del corpo, per pagare le quali depreda il popolo con tasse e prevaricazioni. Queste sono le conseguenze della politica senza la filosofia ed infatti per Platone “i mali dell’umanità non avranno mai fine se i filosofi non andranno al governo”: il sapere deve trovare il potere. Il lascito di Platone quindi è che dobbiamo fare della politica il luogo in cui coltiviamo la nostra umanità.
Progetti per il futuro? Ho finito di recente il lavoro di curatela e traduzione del testo “De iure belli ac pacis” di Ugo Grozio, realizzando la prima traduzione integrale italiana di questo enorme testo fondamentale della modernità giuridica-politica, per l’Istituto Italiano degli studi filosofici di Napoli. Poi ho ultimato un testo sul concetto di Ideologia per il Mulino che sarà pubblicato nei prossimi mesi.
Luciano Fontana è uno dei protagonisti del giornalismo italiano, che attraverso interviste, incontri, saggi ed editoriali ha raccontato la mutazione antropologica che dal 2018 ci ha portato ad essere non più un paese senza leader, bensì una nazione di guest star, istantanee ed effimere. Dalle interviste a Putin agli appelli del Papa, passando per il celebre confronto Letta-Meloni, la nascita del tecnopopulismo e la fine dell’ostpolitik europea, Fontana ha visto da dietro le quinte un mondo nuovo che va dalla fine del sogno antisistema alla rinascita del mito euroatlantico. Una mutazione antropologica e politica che aveva già raccontato nel 2018 nel suo saggio “Un paese senza Leader”(Longanesi) e che in questi ultimi anni ha subito cambiamenti e redenzioni inaspettate che lui ha potuto vedere come cronista, prima, e direttore, poi, tramite i numerosi incontri e confronti. Incontri che hanno accompagnato il percorso di un protagonista del giornalismo italiano, che da giovane corrispondente dell’ANSA di Frosinone è diventato il direttore del primo quotidiano italiano e che nonostante la crisi della carta stampata raggiunge livelli di consenso e vendite come non mai nella sua storia. Fontana nato in provincia di Frosinone, laureato in filosofia con una tesi su Karl Popper, autore cardine del suo pensiero, dal 1986 al 1997 ha lavorato per l’Unità, dove si è occupato di politica e cronaca giudiziaria. Nel 1997 è entrato al Corriere della Sera, dove nel 2003 è diventato vicedirettore, nel 2009 condirettore e nel 2015 direttore. È uno dei principi del giornalismo italiano, un uomo cortese, cauto, meticoloso, dalla voce calma e i lineamenti rassicuranti, sa essere equilibrato e aguzzo, quando parla arriva al succo del discorso, da Montanelli ha ripreso lo stile limpido e scarno, da De Bortoli il gusto del pluralismo, ha una visione britannica del giornalismo e forse per questo, in un panorama segnato da umori e istinti molto latini, è riuscito ha far convergere i consensi di schieramenti opposti, attorno alla sua figura. Abbiamo deciso di intervistarlo per capire se siamo ancora un paese senza leader e se saremo anche, data la crisi della carta stampata, senza giornalisti.
Direttore Fontana, l’Italia in preda ai personalismi vive il paradosso di non riuscire ad esprimere una leadership definita, come nel 2018, siamo ancora “un paese senza leader”? Siamo un paese con leader effimeri, soprattutto. Leader che diventano astri nascenti, prima, e poi rapidamente precipitano perché non hanno dietro di loro una piattaforma politica seria e fondata sui bisogni del paese, in quanto questi personaggi non hanno una prospettiva su dove portare l’Italia, non presentano programmi concreti, capaci di essere attuati nella realtà, e soprattutto non hanno una classe dirigente capace di applicare e realizzare nei territori queste loro proposte, quando esse dovrebbero essere, invece, il sostegno dei capi nella loro azione politica. Siamo di fronte ad una politica dell’istantaneità che corrode i rapporti politici, brucia personalità che inizialmente sembrano avere un successo ecumenico e che poco dopo scompaiono. Questo scenario continuerà finché non cambierà radicalmente la natura del rapporto tra politica e società, ricostruendo un tessuto politico che parta dal basso, dalle associazioni al territorio, fino a crescere con consapevolezza dei problemi del paese. Senza questa ricostruzione credo sia impossibile la nascita di un leader che come in passato possa dare una prospettiva al paese e guidarlo nei prossimi anni.
–Dalla nascita del governo gialloverde alla fine dell’esecutivo Draghi, come è cambiata la classe politica italiana di fronte alla crisi del populismo? Le considerazioni su questi cambiamenti possono essere fatte in chiaroscuro e presentano delle connotazioni sia positive sia negative su queste metamorfosi. Il 2018, infatti, anno dell’esplosione del populismo, si è aperto con due temi: la tendenza antieuropea della maggioranza delle forze politiche da una parte e una visione isolazionista secondo cui l’Italia poteva fare da sé, profondamente in contraddizione con tutto quello che il nostro paese è ed è stato dal punto di vista economico e politico (dato che l’Italia vive perché è aperto al mondo), dall’altra. Possiamo oggi notare, invece, che queste due questioni siano cadute ormai in secondo piano, e che la maturazione di una parte degli esponenti del Movimento 5 stelle e della Lega, insieme a quello che sta dicendo Giorgia Meloni sulla collocazione euroatlantica dell’Italia, siano due fenomeni positivi, che segnalano una maturazione delle forze politiche. Dal punto di vista delle considerazioni negative su quel periodo dobbiamo, invece, guardare quel che è rimasto del populismo, ovvero quella pulsione immediata che porta a considerare la politica come una risposta ai problemi della pancia del paese senza una progettualità a lungo termine, tramite una fiera delle illusioni che si sta manifestando nelle promesse dei programmi politici e che i partiti stessi che le propongono non potranno mantenere. Permane purtroppo di quella fase la caratteristica di portare avanti nel dibattito pubblico soluzioni semplicistiche ed istantanee di fronte a problemi complessi e seri che è un elemento ancora molto presente e preoccupante.
–Da direttore del principale quotidiano italiano, come sta evolvendo il giornalismo di fronte alla società dell’informazione perpetua e digitale e che ruolo resterà alla stampa di fronte a questi cambiamenti epocali? Io penso che quando ragioniamo del destino dei giornali non dobbiamo mai valutarlo come l’avvenire della carta stampata. La carta sarà un pezzo di un sistema mediatico che avrà in larghissima parte la sua funzione sul digitale, ed esso dovrà mantenere la stessa qualità, accuratezza ed indipendenza che aveva sul formato cartaceo. Se invece vogliamo parlare delle sorti del sistema dell’informazione ho una visione molto positiva, perché se metto insieme i lettori di tutte le piattaforme del Corriere della sera esso è letto oggi come non mai. È chiaro che in un sistema in cui l’informazione arriva da moltissimi punti diversi, dai social al web in maniera poco accurata o falsa, per propagandare interessi politici ed economici, è importante che il sistema dell’informazione faccia conoscere la propria qualità di aderenza ai fatti, la competenza e la libertà d’opinione dei propri agenti, e sappia essere una bussola per il lettore; un ruolo che è ancora più importante oggi durante il bombardamento delle informazioni approssimative a cui siamo soggetti. Se sapremo fare questo, distinguendoci dalla palude della falsificazione e dell’approssimazione, potremmo continuare il nostro mestiere sennò rischiamo di cadere nel mare magnum della mala informazione.
–Dall’Unità al Corriere della sera la sua carriera è costellatadi incontri e interviste ai protagonisti della nostra storia recente. Quali personaggi la hanno più segnata e a quali incontri è più legato? Dal punto di vista della mia attività professionale ci sono due incontri che considero molto rilevanti, uno più lontano ed uno più recente. Il più lontano è quello che ho avuto con Vladimir Putin nel 2015, che ritengo importante perché in quella occasione avevo già avuto la sensazione netta che fosse un uomo molto lucido e determinato nel suo disegno di ricostruzione imperiale della Russia, ma pensavo anche che fosse dotato di un certo pragmatismo che gli facesse avere la cognizione che esiste un limite nei rapporti internazionali che non va superato per garantire gli equilibri internazionali. Una constatazione che nel 2015 mi sembrava molto valida, soprattutto alla luce delle aperture che faceva al mondo occidentale dopo la prima crisi di Crimea, ma che oggi considerando ciò è accaduto in questi anni mi ha fatto molto rivedere la mia opinione passata su Putin. Il secondo incontro invece, quello più recente è stato quello con il Papa durante il colloquio che il Corriere della sera ha avuto con il pontefice in piena crisi ucraina e che mostra un Francesco molto deciso ed esplicito nel suo ruolo, critico verso le azioni e le scelte della Nato, ma con una presa di posizione nei confronti della Russia e contro la chiesa russa molto netta. Soprattutto per alcune sue dichiarazioni verso il capo della Chiesa Ortodossa russa Kyrill a cui il pontefice diceva che il patriarca non doveva essere “il chierichetto di Putin”. Una frase che a mio avviso resterà sui libri di storia. –Cosa la ha più colpita di questi personaggi? Putin più che colpirmi mi ha impressionato, poiché è un uomo capace di attraversarti con lo sguardo, in grado di incutere un forte senso di timore e potenza. Durante il nostro incontro aveva dimostrato di sapere tutto dell’Italia, in quanto fin dalle prime domande mi citò una serie di dati, di statistiche, molto specifiche che dimostravano una conoscenza approfondita del nostro paese, mostrandosi come un uomo dalla memoria portentosa, abituato a leggere molti dossier e a immagazzinare con estrema facilità tante informazioni, fatto probabilmente derivante dal suo passato di spia in Germania. Del Papa, invece, mi ha colpito la sofferenza e il coinvolgimento con cui affrontava queste vicende che si sommavano ad una chiarezza esplicita senza riserve nelle sue affermazioni che sono una forte novità rispetto al passato. Papa Francesco poi è un uomo molto ironico e spiritoso nelle sue conversazioni private rispetto a come può apparire in pubblico, tutto l’opposto del ricordo che mi ha lasciato Vladimir Putin. –Per lei che cosa è il mestiere del giornalista e come ha iniziato questa sua vocazione? Mi è sempre piaciuto fare il giornalista e questo mestiere è stato il sogno della mia vita fin da giovane. Un sogno che in alcuni momenti mi è parso difficile se non irrealizzabile, dato che sono nato in una piccola famiglia in provincia di Frosinone, in un contesto che non presentava molte opportunità. Già dal liceo avevo una forte curiosità e passione nei confronti del mondo e fin da quegli anni leggevo e scrivevo molto. Sono stato spinto dai professori e da alcuni amici a inseguire questo sogno e da alcune possibilità che mi hanno dato alcuni giornalisti, permettendomi di crescere. –In questo percorso chi sono stati i suoi maestri? All’Unità sicuramente Walter Veltroni che mi ha dato molte opportunità e fiducia, facendomi crescere in una esperienza che si voleva affrancare dalla vecchia tradizione del giornale, cercando di trasformarlo in una testata moderna capace di indagare una società nuova con uno sguardo oggettivo sul mondo che non è usuale per un giornale di partito. L’esperienza a l’Unità è stata per una scuola di formazione fondamentale per il mio percorso. Il Corriere della sera è invece, un mondo completamente diverso e la persona a cui devo sicuramente tutto riguardo a questa esperienza è Paolo Mieli. Mieli mi ha fatto assumere al Corriere, permettendomi di iniziare un percorso nuovo e fondamentale per la mia carriera. Ho imparato, sicuramente, molto da Indro Montanelli che inviava i suoi pezzi in redazione sempre brevi, chiari, espliciti e diretti, sviluppando con lui un rapporto di stima e rispetto. Ma la persona a cui devo di più professionalmente è sicuramente Ferruccio De Bortoli che mi ha insegnato il gusto per l’approfondimento, il rispetto del pluralismo, la serietà nel trattare i fatti, senza perdere però l’attenzione nell’andare a fondo nelle notizie senza avere paura di dire cose scomode o fare autocensura per paura di scontentare qualcuno. –Quali sono i suoi riferimenti culturali? Chi c’è nel Pantheon di Luciano Fontana? Dal punto di vista giornalistico direi Indro Montanelli, come riferimento filosofico invece Karl Popper, su cui ho fatto la mia tesi di laurea, soprattutto per la sua idea di società aperta, un atteggiamento mentale che è maturato con me nel tempo. Dal punto di vista politico penso soprattutto a Luigi Einaudi ed Alcide De Gasperi per le loro idee e per la forza etica che hanno trasmesso al loro agire politico nel ricostruire il paese nel dopoguerra, emtrambi sono stati due personaggi a cui tutti noi italiani dobbiamo moltissimo. Letterariamente parlando leggo moltissimi libri di saggistica, mi piace molto la narrativa americana, Philip Roth, Franzen, “Pastorale americana” e “Le correzioni” sono tra i miei libri preferiti.