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De Masi: “La questione sociale sarà il vero tema della transizione digitale”

De Masi: “La questione sociale sarà il vero tema della transizione digitale”

Di Francesco Subiaco

La transizione digitale e l’innovazione tecnica pongono il cittadino del mondo post industriale di fronte ad una sfida critica: la gestione del cambiamento e la pianificazione del futuro del lavoro. Nel mondo post-industriale, infatti, all’interno dei processi produttivi prendono sempre più spazio la sostituzione del capitale rispetto alla forza lavoro, la disintermediazione e la conseguente crisi della classe media e l’accentramento della ricchezza, del potere, del sapere nelle mani di ristrette oligarchie finanziarie. Eventi la cui conseguenza sono l’obsolescenza professionale della classe media, l’emergenza della ricollocazione delle forze produttive e l’aumento delle disuguaglianze che pongono un tema prioritario: la necessità di una nuova questione sociale e il ruolo dello stato nella transizione digitale. Per approfondire questi temi abbiamo intervistato il sociologo Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro all’Università «La Sapienza» di Roma dove è stato preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione. Svolge attività di consulenza per organizzazioni pubbliche e private. Conferenziere internazionale e saggista, è autore di numerose pubblicazioni riguardanti soprattutto la società postindustriale, la sociologia del lavoro e la creatività. Che recentemente ha pubblicato “Il lavoro nel XXI secolo” (2018) e “La felicità negata” (2022), entrambi per Einaudi.


Professor De Masi, come la transizione digitale sta ristrutturando e mutando la conformazione del mercato del lavoro?

Negli ultimi secoli abbiamo assistito a quattro ondate tecnologiche: il telaio meccanico ad inizio Ottocento; le macchine elettromeccaniche, nel Novecento; la nascita dei computer e l’avvento del digitale, nella seconda metà del Novecento; lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, negli ultimi anni. L’affermazione di queste ondate tecnologiche ha modificato il mercato del lavoro, prima sostituendo gli operai comuni con i mezzi meccanici, poi gli operai specializzati con le macchine elettromeccaniche, successivamente i quadri ed i dirigenti con lo sviluppo del digitale e infine una parte dei lavori creativi con l’arrivo dell’Intelligenza Artificiale. Ognuna di queste ondate tecnologiche ha modificato il mercato del lavoro in due sensi: ha ridotto il fabbisogno di fattore umano e di forza lavoro; ha spostato percentuali crescenti di lavoratori nel settore del lavoro creativo (laboratori scientifici, atelier artistici, ecc.) o in quello dei lavori di tipo affettivo (badanti, ecc.). Una mutazione che ha ridefinito la piramide del lavoro al cui apice ora sono presenti i lavori creativi e alla base quelli affettivi. 


Che impatto sociale avrà a suo dire il passaggio della centralità nei processi produttivi dalla forza lavoro e dai quadri dirigenti al capitale, come fonte di finanziamento della AI e della robotica?

Renderà sempre meno necessaria la componente umana a vantaggio della componente meccanica e informatica. Producendo un accentramento del potere (concentrato nelle mani di chi detiene la proprietà dei mezzi tecnici) e della ricchezza (concentrato nelle mani di chi detiene i capitali). In questo contesto assume un peso fondamentale, rispetto al fattore e al tempo di lavoro, la dimensione del tempo libero e di come si impiega la propria esistenza al di fuori del mercato del lavoro.


Lo sviluppo della globalizzazione e delle nuove tecnologie sta ridefinendo la piramide sociale cannibalizzando la classe media, ampliando il divario tra “servitori personali” e oligarchia creativa-tecnica?

La classe media sarà sempre più prosciugata dal processo di disintermediazione. Il crescente divario tra una élite creativa in cima alla piramide sociale e, alla base, i lavoratori non professionalizzati e con bassi stipendi, utilizzati nel settore affettivo, porterà a una evaporazione della classe media. Di fronte poi alla destrutturazione del luogo di lavoro prodotto da fenomeni come lo smart working, anche figure come capi dipartimento, capi ufficio e sovrintendenti organizzativi vedranno scomparire via via il loro impiego e il loro peso. Scompaiono quindi tutte quelle figure che hanno rappresentato l’essenza della classe media e che fondavano la loro azione sull’intermediazione e sull’organizzazione del lavoro. In sintesi, la disintermediazione ha prosciugato la classe media, creando un problema di ricollocamento di numerosi lavoratori che non trovano più impiego nel loro tradizionale settore di appartenenza e la cui condizione provoca un problema sociale difficilmente risolubile.


Oggi le motivazioni sociali e quelle del sistema industriale e digitale sono tra loro in idiosincrasia, è necessario secondo lei rilanciare il tema della questione sociale?

È un tema fondamentale. La questione sociale e il tema del welfare diventeranno delle cruciali di fronte ai cambiamenti della transizione digitale. Perché la vera sfida della questione sociale è quella redistributiva. Bisogna ridistribuire la ricchezza, il sapere, il potere, le opportunità e le tutele, mentre la tendenza è accentratrice e renderà necessario un enorme lavoro politico. La nostra società capitalistica ha la capacità straordinaria di produrre valore e ricchezza (concentrata nelle mani di poche persone), ma non ha la capacità di redistribuirli. Su tale questione è necessario concentrare le sfide del futuro.

 
L’avanzamento della disintermediazione e della precarizzazione rende necessarie misure come il reddito universale? 

Sono strumenti innovativi e fondamentali per affrontare la transizione digitale. Nel contesto che ho delineato, passeremo da un reddito di cittadinanza a un reddito universale. Saremo costretti (finalmente costretti) a un impiego intensivo e invasivo del welfare, attraverso tassazioni sempre più progressive ed un ruolo più attivo dello Stato al fine di destinare gli investimenti verso la soddisfazione dei bisogni collettivi. Una necessità che diventerà urgente di fronte a un numero decrescente di persone che disporrà di un reddito lavorativo, poiché – come ho detto – la produzione richiederà un impiego decrescente di energia umana. Una condizione che farà venire meno la leva distributiva del lavoro come è stato finora (“tanto più lavori, tanto più guadagni”) facendo corrispondere il guadagno e il reddito non più a questo criterio ma ai criteri redistributivi del welfare, legati non all’impiego ma alla cittadinanza. Soprattutto perché è venuta meno la centralità del lavoro nella vita dell’uomo, facendo diventare il tempo libero un problema centrale e fondamentale. L’identità dell’individuo non è più definita solo in base al lavoro ma anche in base alla quantità e alla qualità del tempo libero a disposizione.


Quale è la sfida più sottovalutata della transizione tecnologica?

Quella di cui abbiamo parlato finora: la redistribuzione e la questione sociale. Perché oggi la maggior parte del valore prodotto è creato da macchine la cui proprietà e le cui risorse sono nelle mani di un numero esiguo di persone: oggi gli otto personaggi più ricchi del mondo detengono una ricchezza pari a quella detenuta dai 4 miliardi di persone più povere. Da qui la necessità della redistribuzione in tutti i suoi ambiti per affrontare il presente e le sfide del futuro. Purtroppo, però, il capitalismo è capace di produrre ma non è capace di distribuire.

COTTARELLI:”ECCO QUALI SONO I PECCATI CAPITALI DELL’ECONOMIA ITALIANA”

COTTARELLI:”ECCO QUALI SONO I PECCATI CAPITALI DELL’ECONOMIA ITALIANA”

Di Francesco Subiaco


Come mai l’Italia non riesce a crescere? È questa la domanda che avvia l’indagine del professor Carlo Cottarelli e trova risposta nelle pagine del suo libro “I sette peccati capitali dell’economia italiana”(Feltrinelli). Un testo con cui l’autore indaga i sette mali cronici che impediscono la crescita dell’economia italiana: l’evasione fiscale, la corruzione, la troppa burocrazia, la lentezza della giustizia, il crollo demografico, il divario tra Nord e Sud, la difficoltà a convivere con l’euro. Criticità il cui confronto sarà ancora più necessario a seguito delle conseguenze economiche della guerra e della pandemia e dalle innovazioni portate dalla transizione digitale e dall’intelligenza artificiale. Per approfondire questi temi abbiamo intervistato l’autore, che da poco ha pubblicato il suo ultimo “All’inferno e ritorno. Per la nostra rinascita economica e sociale” in cui si mostra l’indirizzo ideale necessario per una rinascita italiana: “la possibilità per tutti di avere un futuro nella vita, indipendentemente dalle condizioni in cui si è nati”

-Secondo lei il sistema industriale sta transitando verso una forma ibrida che unisce componente industriale e il mondo dell’alta tecnologia e del digitale?
Penso che non dovremmo sopravvalutare troppo questo fenomeno. La questione principale che ci dobbiamo porre è: quanto è ampio e rilevante l’effetto della rivoluzione ICT nel sistema produttivo? Credo si possa sostenere che l’effetto dell’innovazione tecnologica a cui abbiamo assistito negli ultimi 30 anni sia abbastanza modesto rispetto a quella che abbiamo osservato nei primi anni del novecento o nel dopoguerra, ad esempio. Una tesi che è confermata dal cambiamento della produttività tra il 1890 e il 1950, drasticamente diverso rispetto al passato, e quello dagli anni 90 a oggi, molto meno rilevante. Negli ultimi trent’anni non abbiamo cambiato profondamente le nostre abitudini, il nostro modo di vivere o di pensare, cosa accaduta invece nel periodo precedentemente analizzato, ma abbiamo migliorato e affinato gli strumenti che già avevamo. Alle sveglie convenzionali si sono sostituite quelle dei telefoni, ai telefoni a cabina o fissi i cellulari. Si sono quindi perfezionate le strutture del passato, ma non si sono realizzate le previsioni ottimiste che si pensavano per questo periodo, pensiamo agli auspici di Clarke e Kubrick per il 2001… Un fatto che è confermato dalle limitate variazioni della produttività. La crescita della produttività è stata infatti molto più lenta negli ultimi decenni rispetto al boom che ha subito nel dopoguerra. La rivoluzione che abbiamo avuto in questi anni è stata minore rispetto al passato, non a caso tutti i principali brevetti e papers di ricerca sono non di innovazione, ma di consolidamento. L’ICT non è ancora maturo, almeno per ora.


-Di fronte alle emergenze che minano la catena globale del valore pensa che l’orientamento dei paesi occidentali faciliterà il reshoring o il friendshoring?
Ci sarà una parziale deglobalizzazione caratterizzata da fenomeni come reshoring e friendshoring, ma ciò non riporterà ai sistemi e alle categorie novecentesche. In termini di flussi di importazioni ed esportazioni c’è stata una riduzione delle esportazioni su PIL, ma si tratta di una piccola modificazione di tale rapporto, ma non così rilevante, come nel 2008 ad esempio, e nemmeno in grado di mettere completamente in discussione la globalizzazione. C’è stato un effetto, anche molto a livello comunicativo, sulle esigenze strategiche da parte degli Stati Uniti, attraverso l’Inflation Reduction Act (di cui aspettiamo la risposta europea), ma non ci sarà un ritorno alle logiche primo novecentesche. Le catene globali del valore si stanno accorciando e ridefinendo, ma non ci saranno né un ritorno massiccio e generale nei territori nazionali delle aziende che hanno delocalizzato (perché sarebbe molto costoso ed infattibile per esse), né un ritorno, improbabile, all’autarchia.


-Stiamo assistendo ad una fase in cui le grandi aziende stanno cannibalizzando le piccole imprese locali?
Si però non si tratta di un fenomeno nuovo, ma di un consolidamento di un processo già avviato in precedenza. Pensiamo alla nascita e allo sviluppo dei supermercati e dei grandi ipermercati. Anche in quel caso il ruolo delle piccole imprese è stato certamente ridimensionato, ma non completamente ridefinito o sostituito, una valutazione che vale anche per i fenomeni a cui stiamo assistendo.
-Secondo lei l’Italia negli ultimi anni ha subito una regressione o una stagnazione del proprio patrimonio produttivo fatto di imprese, corporate e complessi industriali?
Non parlerei di regressione, ma di una fase in cui dalla fine degli anni 90 ad oggi la crescita è stata prossima allo zero. Non siamo tornati indietro, ma non siamo nemmeno cresciuti.


Quali sono stati i peccati capitali dell’economia italiana che hanno favorito questa “paralisi”?
Si tratta di una sequenza di eventi critici che non possiamo trascurare, un insieme di fattori transitori, ma le cui conseguenze permanenti sono la causa di questa condizione. Noi siamo entrati nell’euro impreparati a gestire la concorrenza senza ricorrere all’arma della svalutazione. Abbiamo per alcuni anni provato a mantenere un aumento dei costi della produzione, con un livello di inflazione più alto, rispetto agli altri paesi dell’eurozona, che ci ha fatto perdere la nostra competività, mandando in rosso i conti con l’estero. Tali errori hanno permesso che nel 2008, in piena crisi, l’Italia sia diventata l’obiettivo delle ondate speculative che si sono acuite nel 2011, creando un senso di insicurezza negli investitori che ha ancora di più minato la produttività nazionale. Il primo peccato capitale è stato, quindi, l’esposizione dell’Italia al rischio di attacchi speculativi dopo l’entrata nell’euro. Un peccato acuito a sua volta dalla incapacità di risolvere gli altri problemi storici del nostro paese che io chiamerei peccati capitali del nostro paese: la lentezza della giustizia; l’evasione fiscale; un maggiore livello di corruzione rispetto agli altri paesi europei; eccesso di burocrazia; il crollo demografico; il divario tra Nord e Sud.


Oggi secondo lei sarebbe auspicabile una maggiore pianificazione pubblica? Occorrerebbe una terza via tra privatizzazioni selvagge e statalismo?
Prima di pianificare o intervenire è necessario che lo stato risolva le proprie criticità. Lo Stato dovrebbe avere come obiettivo la risoluzione dei peccati capitali della giustizia, della burocrazia, della pubblica amministrazione cercando di avere una macchina amministrativa funzionante. Non vedo l’esigenza di uno stato pianificatore, anche se forse si potrebbe pensare ad una minima pianificazione in alcuni ambiti strategici. Mentre c’è certamente necessità di una maggiore attenzione riguardo i temi della concorrenza. Però tali operazioni hanno come prerequisito la risoluzione delle criticità della macchina amministrativa di cui abbiamo parlato in precedenza.


Quali sono i suoi riferimenti culturali?
Senza dubbio autori come Joseph A. Schumpeter, John Maynard Keynes e Ugo La Malfa, che leggevo negli anni della mia gioventù mentre i miei coetanei leggevano Marcuse, Marx e Berlinguer. Se dovessi dire un romanzo direi “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, perché è un grande monumento della incompletezza dell’uomo.

TREMONTI: “LA GLOBALIZZAZIONE È STATA UNA UTOPIA”

TREMONTI: “LA GLOBALIZZAZIONE È STATA UNA UTOPIA”

Di Francesco Subiaco


Il sistema portato dalla globalizzazione è la quinta essenza dell’utopia. Senza luogo, senza confini, senza identità. Un paradiso artificiale, razionale e mercatista in cui il primato del mercato prevale su quello della politica, lo strapotere della finanza e delle corporates sui corpi intermedi instaurando un nuovo ordine “immateriale”, fatto di commerci, di scambi, di connessioni. Un ordine nato nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e che vede la sua dissoluzione a partire dal 2016 con le elezioni americane. Ad esso è seguito un nuovo ordine terrestre, non globale, ma internazionale; fatto di commerci, ma anche di conflitti, di catene commerciali, ma anche di nazioni, stati e popoli. La fine di un mondo, ma non la fine del mondo, parafrasando Obama, che viene straordinariamente descritta e analizzata dall’ex ministro e presidente della Commissione Esteri del Senato Giulio Tremonti nel suo ultimo libro: “Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile”(Solferino). Un testo che analizza le piaghe della globalizzazione, quelle della deglobalizzazione e le possibili soluzioni a queste problematiche, conformandosi come la sintesi completa di una analisi politica dalla caduta del Muro di Berlino agli sconvolgimenti attuali. Una analisi fondamentale per comprendere le sfide e le possibilità di un nuovo mondo fatto di frontiere digitali e guerre globali, emergenze planetarie e mutamenti sociali che Tremonti non mostra solamente, ma rivela, scrivendo sul tema parole definitive.

Quali sono le piaghe della globalizzazione?
Le piaghe della globalizzazione sono sette: il disastro ambientale; lo svuotamento della democrazia sversata nella repubblica internazionale del denaro; le società in decomposizione nel vuoto della vita; la spinta verso il transumano; l’apparizione dei giganti della rete; la pandemia; le guerre.
Ma è un numero destinato a salire: inflazione e recessione, crisi finanziarie, carestie, migrazioni, altre guerre. Tutti sconnessi anelli di una stessa catena, perché non è la fine dell’inizio e non è neppure l’inizio della fine: è proprio la fine della globalizzazione. Dopo il 2016 con le nuove elezioni americane abbiamo assistito alla ritirata della globalizzazione che ha portato al ritorno ad un nuovo ordine “internazionale”.

Quali sono state le cause che hanno portato alla ritirata della Globalizzazione?
Appena trent’anni fa gli «illuminati» ci hanno graziosamente comunicato il passaggio dalla vec chia triade Liberté, Égalité, Fraternité alla loro nuova triade: Globalité, Marché, Monnaie.
Ci hanno detto che, finita la storia e via via destinati a finire gli Stati, in un mondo nuovo lubrificato dal magico fluido del denaro saremmo entrati nell’«età dell’oro». E questo grazie alla verificata utopia della globalizzazione. E, guarda caso, utopia vuol dire assenza di luogo -ou-topos, in greco “non luogo” – e dunque è proprio questa l’essenza della globalizzazione.
E in effetti è stata la globalizzazione che, per trent’anni, ha plasmato il mondo e le nostre vite, non solo nel bene, per cui ci si illudeva, ma anche nel male, che oggi viviamo e vediamo.
All’origine c’è un «incidente della storia»: la caduta del muro di Berlino. Ma un incidente subito seguito dalla combinazione tra il mercato e la rete, i due pilastri su cui veniva basandosi un’architettura po- litica mai prima vista nella storia: il mercato sopra e gli Stati sotto, l’economia sopra e i popoli sotto, nazioni senza ricchezza e ricchezza senza nazioni. Ma oggi è proprio la storia, la storia che si diceva essere finita, è proprio la storia che è tornata, con il carico degli interessi arretrati e accompagnata dalla geografia, ridando così vita a quello che per secoli e secoli è stato un «mundus furiosus».

Quale è la principale differenza rispetto al passato?
Certo, in passato ci sono state forti mutazioni. Per esempio quando, scoperta l’America, lo spirare dei venti atlantici squassò il chiuso, secolare ordine dell’Europa. Ma questa volta è diverso, non fosse perché, a differenza dell’altra, questa mutazione non ha occupato lo spazio lungo di due secoli, ma quello breve di un trentennio. Un trentennio in cui la storia, come mai prima, è stata compressa e poi esplosa.

Il transumsnesimo e le “repubbliche digitali” ed che ruolo hanno in questo scenario?
Oggi il transumanesimo è realizzabile come prodotto delle novità epocali intervenute via globalizzazione con i giganti della rete, i gruppi di capitale e potere verticale generati dalla globalizzazione, questi detti anche “Repubbliche digitali”, gruppi ormai divenuti i nuovi soggetti egemoni perché: tendono a sostituire gli Stati e a modificare le vecchie strutture sociali e politiche, con la rete che sostituisce il popolo determinando una gigantesca traslazione dei poteri costituzionali. Un tempo era funzione degli Stati fare le strade, battere moneta, permettere la democrazia. Oggi è lo stesso, ma in altro modo, con le Repubbliche digitali che offrono le autostrade informatiche, battono moneta digitale, permettono infine forme di nuove agorà democratiche; modificano le nostre strutture mentali, spin- gendoci dal vecchio «cogito ergo sum» verso un nuovo e faustiano «digito ergo sum», ver- so un mondo ibrido risultante dalla fusione di internet of humans e internet of things;
pianificano la fabbricazione chimica del nuovo cibo sintetico, che al principio dovrebbe essere “eticamente prodotto” per sfamare i poveri e le vittime delle carestie, ma in prospettiva è destinato a diventare il cibo universale.

Nonostante le divisioni e le mancanze che caratterizzano l’Europa, possiamo dire che con la guerra in Ucraina l’Europa è tornato ad essere quel Mundus Furiosus del suo precedente libro?
“Mundus Furiosus” è stato scritto, infatti, nel 2016, quando si avvertiva la fine della globalizzazione come sistema universale e progressivo che considerava il primato del mercato sugli stati e sui popoli. La cui conseguenza è stato il passaggio ad un mondo internazionale fatto di commerci, ma anche di conflitti. In questo senso è significativa la frase del presidente Obama a seguito della vittoria di Donald Trump che affermava: “non è la fine del mondo, ma la fine del nostro mondo”.


Secondo lei oggi il nuovo scontro tra terra e mare non passa più tra Russia e Usa, ma tra Cina e Usa?
Sui documenti dell’elite anglosassone prima ancora del novecentesco Terra e Mare si evoca la contrapposizione fatta da Tucidide ne “La guerra del Peloponneso”: Atene contro Sparta. Atene, inteso come il fronte delle democrazie e Sparta, invece come quello delle autocrazie. Stati Uniti ed Europa, da una parte contro Cina e Russia dall’altra, che tra loro si contrappongono ricordando il novecentesco potenze terrestri contro potenze marittime. Uno scontro per il dominio marittimo e commerciale, democratico, contro quello terrestre delle autocrazie.

-La guerra in Ucraina ha segnato la fine della globalizzazione?
Non è la guerra che pone fine alla globalizzazione, ma è la fine della globalizzazione che porta alle guerre. È anche così che la guerra in Ucraina ci si presenta come una guerra di tipo nuovo: è la prima guerra di tipo globale. Globale perché non è fatta solo con armi convenzionali, ma anche con armi che sono appunto «globali».

Quale è il vero vantaggio dell’Occidente?
La libertà. Poiché solo la libertà permette lo sviluppo della scienza, dell’innovazione e dell’individuo.

A fine opera lei prefigura gli elementi e le proposte di una proposta alternativa, con elementi innovativi, quali il global legale standard. Quali sono le conclusioni che propone nel testo e le soluzioni possibili?
In un mondo post globale caratterizzato da scambi e commerci internazionali servono delle regole comuni. Il Global legal standard, fu proposto dopo la crisi del 2009, per reagire alla prima crisi della globalizzazione prodotta dai subprime (inventati per creare un contrappeso e una compensazione alle perdite portata dalla delocalizzazione). Tale crisi non era una crisi finanziaria bensì il cortocircuito di un modello politico che era quello della globalizzazione. L’idea alla base del Global Legal Standard era passare dal Free trade al Fair trade. Non è sufficiente che il prezzo sia giusto, perché incrocia domanda ed offerta, ma è necessario che sia giusta anche la produzione di quel bene servizio. Era la bozza scritta dal governo italiano all’ OCSE nel 2009. Sottolineo che all’articolo 4 di tale documento c’era come requisito il rispetto di regole igieniche e ambienta, che mi sembra oggi più che mai attuale e centrale alla luce degli scenari degli ultimi anni.


Può elencarci un’altra proposta?
Un’altra proposta è la De-tax per l’Africa, ovvero se un esercizio commerciale è convenzionato con una rete di volontariato o di solidarietà attiva in Africa, l’Unione Europea rinuncia a una quota della sua IVA sugli acquisti, se questa è destinata a favore dell’Africa. Una proposta, che può essere parte di un piano di governo per sostenere gli stati africani, oppure può fare parte di un disegno europeo o del Piano Mattei, la cui urgenza è necessaria per aiutarli veramente a casa loro.

James Galbraith e l’attualità del “Nuovo stato industriale”

James Galbraith e l’attualità del “Nuovo stato industriale”

Di Francesco Subiaco


“Il nuovo stato industriale” di John Kenneth Galbraith è uno dei testi cardine del novecento americano. Esso infatti non svolse solo una lunga analisi e disamina delle forze e delle mutazioni prodotte dall’affermazione del sistema industriale, ma anche una lente chiara e limpida per comprendere l’evoluzione delle istituzioni sociali che hanno caratterizzato la società americana. Per riflettere sull’attualità di questo testo visionario del 1967 abbiamo intervistato il Professor James Galbraith, studioso, economista ed accademico, la cui visione progressista e istituzionalizza ha ripreso e interpretato le istanze della visione economica del New industrial state, partendo dal ruolo predatorio delle grandi corporate nell’economia americane, e la loro applicazione nel settore militare racchiusa nel saggio “The predator state”.
James K. Galbraith detiene la Lloyd M. Bentsen Jr. Chair in Government/Business Relations presso la Lyndon B. Johnson School of Public Affairs e una cattedra di Government presso l’Università del Texas ad Austin. È stato direttore esecutivo del Joint Economic Committee del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni ’80 e, prima ancora, economista per il House Banking Committee. Ha presieduto il consiglio degli economisti per la pace e la sicurezza dal 1996 al 2016 e dirige il progetto di disuguaglianza dell’Università del Texas . È caporedattore di Structural Change and Economic Dynamics .
Dal 1993 al 1997 Galbraith è stato consulente tecnico capo per la riforma macroeconomica della Commissione per la pianificazione statale della Repubblica popolare cinese. Nel 2010 è stato eletto all’Accademia Nazionale dei Lincei . Nel 2014 è stato co-vincitore del Leontief Prize for Advancing the Frontiers of Economics . Nel 2020 ha ricevuto il Veblen-Commons Award dell’Association for Evolutionary Economics. Ha conseguito lauree presso l’Università di Harvard (AB, magna cum laude), in economia presso l’Università di Yale (MA, M.Phil, Ph.D.) e onori accademici presso università in Ecuador, Francia e Federazione Russa . È un Marshall Scholar; membro a vita del Council on Foreign Relationse la Texas Philosophical Society.


Che ruolo ha avuto Il Nuovo Stato Industriale nel lavoro e nel pensiero di tuo padre?
Poiché la domanda si riferisce al titolo del libro di mio padre del 1967, l’ho interpretata come riferita specificamente a quel libro, e non come una domanda generale sul concetto di un nuovo stato industriale.
Il libro di mio padre del 1967 “The New Industrial State” è stato per molti versi il culmine del suo lavoro di economista teorico e dei suoi sforzi per portare l’intera disciplina dell’economia in contatto con il mondo così com’è – un mondo di grandi organizzazioni, di tecnologie complesse e di progettazione. Il suo lavoro immediatamente precedente, The Affluent Society, era in parte una rassegna ed una critica del pensiero economico classico, e in parte un ritratto del panorama sociale della ricchezza del dopoguerra e di un’economia non basata sulla scarsità fondamentale. Il “New Industrial State”, quindi, riguardava le corporazioni industriali, l’istituzione economica americana allora dominante, e i loro sforzi per modellare l’intero universo economico – dalla progettazione alla produzione, dalla finanza al marketing – secondo le loro specifiche.
Mio padre considerava il “Nuovo stato industriale” come la seconda parte di una trilogia, la terza era Economics and the Public Purpose, di cui dei tre libri, era lo sforzo dominante e il libro principale. All’epoca ebbe un formidabile impatto sul pubblico – nella lista dei bestseller del New York Times per oltre un anno – e generò la reazione più feroce tra gli economisti accademici. In seguito, il tempo di mio padre fu occupato dal movimento contro la guerra del Vietnam, dalle campagne politiche nel 1968 (McCarthy) e nel 1972 (McGovern), dai traumi del dipartimento di economia di Harvard, e successivamente negli anni ’70 dal progetto della BBC “L’Età dell’incertezza”. Quindi il “TNIS” ha rappresentato anche un punto di svolta nella sua traiettoria professionale; i suoi scritti sull’economia in seguito furono per lo più più brevi, e in seguito dedicò anche tempo alla narrativa, alle memorie e ad altre forme letterarie.
A differenza di “The Affluent Society” o (soprattutto) “The Great Crash”, 1929, “The New Industrial State” sparì dalla scena a partire dalla fine degli anni ’80, ed era fuori stampa da diversi decenni quando mio padre morì nel 2006. Era contento di lasciarlo andare; Io non lo ero. Mi sono quindi impegnato a riportarlo in stampa, e ci sono riuscito con le edizioni della Princeton University Press e della Library of America.

Pensa che oggi, come il blocco comunista e quello liberaldemocratico, avevano come tendenza di fondo la pianificazione, oggi le big tech occidentali e il big state cinese hanno una tendenza di fondo del loro sistema economico che li accomuna?

Sì e no. I parallelismi tra il capitalismo manageriale e l’industrializzazione statale dell’URSS nelle sue fasi di maggior successo erano governati dal loro scopo comune, che era quello di padroneggiare le complesse tecnologie della produzione industriale avanzata e di pianificare il funzionamento del sistema economico più ampio in modo da garantire una serie di obiettivi sociali: stabilità, piena occupazione, controllo dell’inflazione, stato sociale.
Nella misura in cui “Big Tech” e lo stato cinese hanno uno scopo comune, è l’applicazione delle tecnologie digitali alle comunicazioni, all’informazione, alla sorveglianza e al controllo sociale. Inoltre, “Big Tech” è nel business privato della riduzione dei costi, eliminando gran parte del lavoro umano e irreggimentando il resto, e concentrando la ricchezza di capitale associata alle tecnologie dell’informazione avanzate in poche mani oligarchiche. Gran parte di questo funziona per minare le istituzioni del “nuovo stato industriale”, creando precarietà dove in precedenza la sicurezza era un obiettivo sociale primario. Mentre l’economia cinese ha le sue versioni di “Big Tech”, con alcune delle stesse caratteristiche generali, lo stato cinese ha una serie di obiettivi molto più ampia e conserva in misura maggiore un impegno per la stabilità sociale come parte dei suoi obiettivi fondamentali. Al giorno d’oggi è lo stato più affine allo studio galbraithiano è quello cinese rispetto a quello americano.

Che ruolo ha oggi la finanza rispetto al sistema industriale e se secondo lei figure come quelle dei manager della Silicon Valley dimostrano la fine della gestione collegiale delle imprese?

Una caratteristica fondamentale del sistema industriale nei primi tre decenni del secondo dopoguerra fu il ruolo subordinato della Grande Finanza alla corporazione industriale. La maggior parte delle grandi società americane erano redditizie e finanziavano i loro nuovi progetti in gran parte con gli utili non distribuiti. Questo comportamento è stato fortemente favorito dal codice tributario, che tassava pesantemente gli utili distribuiti ma consentiva ampie detrazioni per gli investimenti. L’attività scientifica aziendale è stata svolta da professionisti stipendiati. Anche le elevate aliquote marginali dell’imposta sul reddito delle persone fisiche hanno tenuto sotto controllo la remunerazione dei dirigenti aziendali. Non è un caso che questa fosse un’epoca di costruzione iconica delle sedi aziendali (lo skyline di Manhattan, in particolare, prima che fosse rovinato dai condomini a molti piani).
Le grandi banche americane erano generalmente limitate nelle loro operazioni, i tassi di interesse erano regolamentati, il finanziamento ipotecario era in gran parte separato dalle banche commerciali e c’era una netta separazione tra banche commerciali e di investimento. Quindi le dimensioni e il potere del settore bancario all’interno degli Stati Uniti erano di gran lunga inferiori a quelli che sono diventati da allora.
La grande finanza iniziò a sfuggire alla regolamentazione con il crollo di Bretton Woods nel 1971, il riciclaggio globale dei petrodollari dopo il 1973, l’uso di alti tassi di interesse per “combattere l’inflazione” a metà e alla fine degli anni ’70 e una spinta concertata per abrogare il New Deal. Questi provvedimenti sono culminati in una sostanziale deregolamentazione del settore finanziario negli anni ’80, ’90 e negli anni 2000, con anche una riduzione dei fondi e del personale delle agenzie di applicazione della regolamentazione.
Il settore tecnologico si separò dalla società industriale negli anni ’80, quando quest’ultima iniziò a fallire a causa degli alti tassi di interesse, del dollaro sopravvalutato e della concorrenza estera. La grande finanza lo ha reso possibile e ha reso possibile alla tecnostruttura delle aziende di tecnologia dell’informazione di catturare le valutazioni del capitale delle loro tecnologie. Ha trasformato i laboratori aziendali in iniziative speculative, estremamente ben pagate ma estremamente instabili. Ne ho scritto in due libri: “Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future” (1989) e “Created Unequal” (1998).
L’ampio contrasto che vorrei tracciare con l’era della società industriale è che, in quell’epoca, c’erano criteri ragionevoli su ciò che avrebbe costituito un buon investimento. Non perfetto, ma ragionevole. Il design, l’invenzione, l’ingegneria e il marketing giocavano un ruolo, c’erano incertezze in ogni funzione, ma la qualità dei team che svolgevano ogni attività poteva, in modo ragionevole, essere valutata da coloro che prendevano le decisioni per fornire finanziamenti. Nell’era post-industriale, le decisioni vengono prese dagli analisti finanziari – dagli operatori di Wall Street – che mancano di capacità indipendenti, sono vulnerabili all’hype e alle frodi e spesso possono essere loro stessi complici delle frodi. Gli ingegneri finanziari non sono veri ingegneri, ovviamente.
Il risultato non sorprendente furono ondate di speculazioni finanziarie: risparmi e prestiti, Internet, il boom dei mutui subprime. Ognuno ha portato a un incidente nel giro di un decennio. Senza regolatori aggressivi, indipendenti e competenti, sostenuti dalle forze dell’ordine, i problemi continuano a ripresentarsi. I risparmi e i prestiti erano massicciamente fraudolenti. Molte società del digitale negli anni ’90 erano basate su modelli di business ridicoli. L’intero settore dei mutui subprime, insieme ai rating e alle cartolarizzazioni, avevano una impostazione fallace.
Siamo ormai entrati nella prossima ondata di questo tipo di attività. Nel caso più recente, abbiamo ad esempio broker di criptovalute, che hanno esasperato le pericolosità del sistema finanziario rispetto ai già disastrosi precedenti che avevamo potuto osservare. Diventa abbastanza chiaro che il sistema, così com’è, manca di controlli sia interni che esterni. È improbabile che tali controlli possano essere ripristinati, anche se la classe politica si muove in questo orizzonte.

Circa sessant’anni dopo, quanto è attuale la visione dell’economia e del sistema economico americano proposta da John K. Galbraith nel suo “Il nuovo stato industriale”?

Come visione dell’economia americana, il ritratto di mio padre del ruolo dominante delle grandi corporazioni industriali è stato superato dagli eventi. La General Motors è fallita alcuni anni fa. General Electric si sta scomponendo in tre società specializzate, nessuna delle quali legata al core business degli elettrodomestici. Molte altre grandi aziende di quell’epoca non esistono più. Invece la finanza ha recuperato il suo ruolo centrale nell’economia americana, insieme ai settori tecnologico e sanitario e militare-industriale. Questa è una situazione squilibrata e instabile.
Tuttavia, esistono ancora aziende del tipo descritto da mio padre: grandi aziende avanzate, ingegneristiche e manifatturiere. Rimangono dominanti in Germania, Giappone, Corea, Cina e probabilmente anche nella Federazione Russa. In tutti questi paesi, mio padre ha goduto di un’influenza diretta o indiretta e la sua eredità intellettuale è ancora riconosciuta. Naturalmente si possono vedere le conseguenze nei modelli del commercio mondiale e nell’equilibrio della forza manifatturiera.

Pensa che oggi siamo passati da una tecnostruttura industriale a una tecnostruttura digitale e high tech? Il ruolo, un tempo del circuito industriale, è stato assunto oggi da big tech e corporate legate ai social network?

Come prevedevo già nel 1989 in un libro intitolato “Balancing Acts: Technology, Finance and the American Future” – che all’epoca fece poco successo – il settore tecnologico e quello finanziario sono oggi i poli dominanti del sistema economico americano. È lì che si concentrano ricchezza e potere, a parte (di nuovo) le imprese aerospaziali e militare-industriali. Tuttavia, la concentrazione è così estrema che solo una piccolissima parte della popolazione e della superficie del Paese si trova nell’orbita diretta di questi settori. Alcuni anni fa abbiamo calcolato che nel boom tecnologico della fine degli anni ’90, la metà dell’aumento della disparità di reddito misurata tra le 3150 contee degli Stati Uniti era dovuta all’aumento del reddito in sole cinque contee: New York, New York (Manhattan); tre contee nel nord della California (Silicon Valley); e King County Washington, che è Seattle, che è Microsoft. Da allora c’è stata una certa diffusione della ricchezza, ma non così tanto estesa da essere rilevante. La maggior parte del paese vive con l’occupazione nel settore dei servizi. E nel settore immobiliare e dell’edilizia residenziale, che sono sempre stati una parte importante dell’economia americana, i costi delle abitazioni sono ora stimati in oltre il 30% dell’indice dei prezzi al consumo.

Il ruolo del proletariato e della forza lavoro in questo “Nuovo stato digitale” è oggi svolto dal capitale e dai mezzi tecnici che sostituiscono il peso sociale della forza lavoro?
Penso di no. I mezzi tecnici sono cresciuti per esercitare un ampio grado di controllo sulla forza lavoro, in particolare (ad esempio) nella distribuzione di merci (Amazon, Wal-Mart) e nei trasporti (Uber, Lyft) e così via. Ma la forza lavoro in sé è ancora vasta e praticamente tutti i nuovi posti di lavoro negli ultimi decenni sono stati nel settore dei servizi. Quello che sta accadendo ora – dal 2000, più dal 2008 e ancora di più dalla pandemia – è stato un ritiro di un certo numero di persone dalla forza lavoro attiva. Un discreto numero è andato in pensione, spesso alla prima età della previdenza sociale, che è di 62 anni; altri erano lavoratori supplementari nelle loro famiglie che decisero che il lavoro (e le spese associate) non valevano la pena. Questo è il motivo per cui il tasso di disoccupazione è così basso: cattura solo coloro che sono in cerca di lavoro. In termini di “peso sociale” – questa è una grande difficoltà della forza lavoro oggi. I lavoratori dei servizi hanno scarso potere contrattuale ed è molto difficile per loro trovare ed esercitare una voce politica comune.

Quanto sono attuali le critiche che fa nel suo “The predator state” delle amministrazioni GOP e cosa è cambiato in meglio o in peggio negli ultimi anni?

“The Predator State” è stato scritto durante un’amministrazione (Bush-Cheney) particolarmente aggressiva nell’erodere le assicurazioni sociali al fine di arricchire gli interessi commerciali e industriali, e in un momento in cui la bandiera rossa dei deficit di bilancio (ha creato in parte da ampi tagli fiscali) è stata agitata per promuovere la privatizzazione dei programmi pubblici. È stato anche il momento della deregolamentazione e depenalizzazione della finanza che ha portato a massicce frodi finanziarie; la crisi del 2007-2009 ne è stata la conseguenza. Queste tendenze non sono scomparse, anche se penso che le minacce alla Social Security, Medicare e Medicaid potrebbero non essere così gravi come prima, e i deficit della pandemia hanno mostrato chiaramente quanto si potrebbe fare per sostenere le entrate pubbliche senza danneggiare il credito del governo. Forse l’elemento più aggressivo dello stato predatore al momento è il complesso militare-industriale.

Cosa ne pensa del ruolo delle grandi aziende durante la pandemia e la crisi internazionale?

Durante la pandemia, ingenti prestiti e sovvenzioni sono andati a sostenere la struttura allora esistente del business americano, comprese le compagnie aeree, il settore dell’ospitalità e molto altro che non verrà riportato ai precedenti livelli di attività. È difficile immaginare cosa si sarebbe potuto fare altrimenti nell’emergenza, ma ora che l’emergenza immediata è passata, i cambiamenti strutturali operati dalla pandemia si svilupperanno nel tempo. La transizione più ampia, che potrebbe essere verso un settore degli investimenti focalizzato su risorse (sempre più scarse e costose), in particolare l’energia e comprese le rinnovabili, e lontano dai settori legacy (sempre più non redditizi), sarà dolorosa, indipendentemente da come verrà gestita.
La guerra in Ucraina è una miniera d’oro per le grandi aziende militari-industriali, che continueranno a trarre profitto dagli ordini di sostituzione per le scorte di munizioni esaurite per molti anni dopo la fine della guerra. Penso che la maggior parte dei contratti concessi dal febbraio 2022 non avrà alcun effetto sulla situazione sul campo, perché i tassi di produzione sono troppo bassi e i tassi di utilizzo sono troppo alti per essere compensati da una nuova produzione finché durano i combattimenti. Forse la lezione chiave dell’attuale guerra sarà l’inutilità delle attuali strutture del potere militare statunitense, ma ci sono ancora pochi segnali che questa lezione sia stata appresa.

Quali sono i suoi riferimenti culturali?

Una grande domanda! Tra gli economisti, Thorstein Veblen e John Maynard Keynes sono stati fondamentali nella mia formazione, sebbene io sia diventato più istituzionalista ed evoluzionista nel corso degli anni, e meno keynesiano nel senso comune del termine. Veblen è sempre un piacere rileggerlo. Il mio apprezzamento per Keynes si basa soprattutto sulla sua comprensione del ruolo della psicologia sociale nel più ampio schema della vita economica, e sono orgoglioso di un saggio che ho scritto molti anni fa sull’ispirazione che ha tratto da Einstein. Non sono un gran lettore di testi filosofici, ma allo stesso tempo sono molto attratto dalla comprensione della tradizione pragmatista; suppongo che questo abbia un collegamento con la mia prima carriera nello staff del Congresso. In letteratura, i miei gusti vanno maggiormente verso gli autori dell’età dell’argento sovietica, come Bulgakov per molti anni, Krzhizhanovsky e Tynyanov più recentemente; ciò è dovuto, credo, alla loro combinazione di sensibilità allegorica con un apprezzamento dell’assurdità della vita moderna. Il mio autore italiano preferito, veneziano nello specifico, è ovviamente Casanova. Finora ho letto circa 2.500 pagine dell’edizione in tre volumi LeBorgne/Igalens di “Histoire de ma Vie”, e non c’è una frase che non sia indimenticabile o che sia semplicemente superflua in nessuna di esse.

RIGHINI (FDI): LAZIO FONDAMENTALE SNODO PER SCELTE STRATEGICHE DELLA NAZIONE

RIGHINI (FDI): LAZIO FONDAMENTALE SNODO PER SCELTE STRATEGICHE DELLA NAZIONE

Di Francesco Subiaco

Per i conservatori di Fratelli d’Italia le elezioni regionali non sono solo la prova per confermare e corroborare il loro consenso in una regione storicamente complessa come il Lazio, ma sono soprattutto l’occasione per dimostrare che Fratelli d’Italia, come la Lega ha testimoniato nel Nord Italia, non è solo una forza politica capace di esprimere una vocazione maggioritaria a livello nazionale, ma soprattutto che essa è una forza politica capace di incarnare uomini delle istituzioni, grandi amministratori capaci di rappresentare tutti i cittadini della propria Regione e proporre una classe di futuri governatori e amministratori locali per riqualificare i propri territori. Una vocazione istituzionale che è il nocciolo duro dell’ultimo intervento del consigliere regionale Giancarlo Righini ad un incontro con i candidati a Grottaferrata in piena campagna elettorale, confermando la volontà di proporre Fratelli d’Italia non solo come il partito della destra italiana, ma soprattutto come il partito degli italiani. Per meglio comprendere la proposta elettorale di Giancarlo Righini lo abbiamo intervistato per la nostra testata.
Entrato nel 2013 in Consiglio Regionale del Lazio, risultando il più votato di FdI nel collegio di Roma e Provincia, Giancarlo Righini fu anche il primo consigliere regionale del partito di Giorgia Meloni su tutto il territorio nazionale, un rappresentante ideale della nuova volontà di FDI di essere sia un partito istituzionale e laico sia una forza popolare ed identitaria.


Quali saranno le principali priorità dell’azione di una eventuale giunta di centrodestra alla guida della Regione Lazio?
La sanità sarà certamente la prima di tante emergenze che saremo chiamati ad affrontare. E intollerabile vedere le file ai pronto soccorso, i pazienti parcheggiati in barella nelle corsie, molto spesso sulla stessa barella dellambulanza che li ha trasportati, generando il fenomeno del fermo ambulanza che determina ulteiori ritardi e disagi nel servizio. Agiremo subito sulle liste di attesa, oggi infinite sia per la diagnostica che per alcuni interventi chirurgici, centralizzando il sistema delle prenotazioni, integrando i posti letto, sia pubblici che convenzionati, avvalendoci delle moderne tecnologie, così come sono in uso in altre regioni. Nel medio e lungo termine ci poniamo gli obiettivi di costruire la sanità territoriale, sviluppare le cure domiciliari, avviare una stagione di programmazione sia per il potenziamento e lefficentamento delle strutture, sia per la valorizzazione del personale, vero grande patrimonio del sistema. Il Pd sarà ricordato per la chiusura degli ospedali ed il taglio dei posti letto. Con Francesco Rocca intendiamo varare una stagione fatta di reparti e ospedali che si aprono. In particolare dedicheremo attenzione allintegrazione socio-sanitaria, alla presa in carico dei fragili, disabili e anziani specialmente, verso cui va diffusa una nuova cultura dell’accessibilità. Quindi le cure oncologiche, con un nuovo piano oncologico regionale, le malattie rare, il disagio mentale e psicologico in rapida crescita, soprattutto tra i giovani, dopo la fase più acuta della pandemia, e restando sempre sul mondo giovanile, un tema che mi sta particolarmente a cuore è la realizzazione di un centro di eccellenza per I disturbi alimentari”.
Durante la campagna elettorale ha puntato il focus sulla necessità di tutelare la piccola e media impresa e di contrastare l’immobilismo della burocrazia regionale. In che modo si possono raggiungere questi due obiettivi?
Il mondo produttivo chiede prima di tutto fiducia e semplificazione burocratica. Efficace a tal proposito è il motto con cui Giorgia Meloni ha definito lapproccio dei conservatori alle politiche di sviluppo: non disturbare chi vuole fare. E la filosofia che applicheremo anche nel Lazio. Attrarre investimenti, agendo in varie direzioni: potenziare ed efficentare la dotazione infrastrutturale regionale in primo luogo. La Roma-Latina, la Orte-Civitavecchia e la Cisterna-Valmontone per citare le opere viarie, a cui vanno aggiunti ingenti investimenti sul versante ferroviario, sia per le tratte pendolari che per quelle ad alta capacità, insieme al completamento dellanello di Roma. Ma per determinare condizioni favorevoli per la crescita è necessario lavorare sui distretti industriali, collegando più e meglio le politiche di formazione, su cui ci sono molti fondi europei da investire, alle reali esigenze del mondo produttivo. Non da sottovalutare infine il turismo e l’agricoltura, come settori economici dalle grandi potenzialità espansive, così come un occhio particolare riserveremo alla cosiddetta economia blu. La cabina di regia del mare, contenuta nel programma di Francesco Rocca guarda proprio alla valorizzazione del mare come risorsa, ambientale, turistica ma soprattutto produttiva.
Dal 2013 lei riveste il ruolo di consigliere regionale, quali sono stati i traguardi più importanti che Fratelli d’Italia ha raggiunto in questi anni e quali gli obiettivi principali che vi riproponete per questa tornata elettorale?
L’affermazione di Fratelli dItalia sta nella coerenza e nella serietà di Giorgia Meloni. Dopo 10 anni abbiamo costruito una forza capace di innovare la politica, oltre i vecchi schematismi. Se pur restando ben radicati nel solco della tradizione della destra politica italiana, FdI oggi si rivolge a tutti gli elettori, come il partito a difesa degli italiani, che ha iscritto nel suo DNA il patriottismo e linteresse nazionale. Dopo avere ottenuto la fiducia per governare l’Italia, intendiamo conseguire il consenso anche per guidare gli enti locali, a partire dalla Regione Lazio, strategico snodo per le scelte di tutta la Nazione.
In un suo intervento ad un incontro con gli elettori ha sottolineato la necessità di salvaguardare l’importanza di Roma capitale ma allo stesso tempo guardare ad un nuovo sviluppo per i territori. Da dove ripartire per valorizzare la provincia?
Il Pd ed il Movimento Cinque Stelle su Roma hanno registrato uno dei più grandi fallimenti della loro azione politica, interpretando il governo del territorio come se Roma dovesse utilizzare le sue province come una discarica: a volte di rifiuti, a volte di persone, spesso di responsabilità. Così facendo non hanno risolto alcun problema capitolino, aggravandone molti in provincia. Serve una visione diversa. A Roma vanno affidati poteri di rango costituzionale come si addice ad una grande capitale mondiale, mentre alle province va ridato un assetto istituzionale dignitoso, dopo la rovinosa riforma Delrio, restituendo ai cittadini il potere di scegliersi i propri rappresentanti di governo.
Perché la candidatura del presidente Rocca potrebbe risollevare il Lazio dopo l’immobilismo di questi anni?
L’Avv. Francesco Rocca è la persona giusta per risollevare il Lazio. Le sue riconosciute grandi capacità manageriali, soprattutto nel campo della sanità, lesperienza diplomatica e di rapporti ad altissimo livello internazionale, il profilo dalle spiccate sensibilità sociali, parlano di una personalità competente e capace di agire, sia nellimmediato che nel fronteggiare grandi crisi sociali, sanitarie ed umanitarie.
Quali sono stati i grandi errori del centrosinistra e quali potrebbero essere le soluzioni per superare queste criticità?
Credo che il fallimento del Pd e del Movimento Cinque Stelle, in particolare in questa regione, sia stata lassuefazione al potere. Ossia pensare che gestire fosse la stessa cosa di governare. Lo hanno pensato a tal punto da sostituire il primo concetto con il secondo, a volte utilizzando anche dei metodi molto poco ortodossi. Così facendo hanno fatto abdicare la politica, finita in secondo piano rispetto ai più o meno legittimi interessi di parte. Fratelli dItalia ha dimostrato sin dalla sua nascita di avere gli anticorpi nei confronti di un certo conformismo, preferendo la politica alle varie scorciatoie che a volte le circostanzepresentano per arrivare al potere.
Quali sono i riferimenti culturali di Giancarlo Righini?
Senza dubbio quelli della destra conservatrice e del patriottismo, interpretati storicamente da figure come D’Annunzio, Prezzolini e gli eroi del Risorgimento. Avvicinandoci all’attualità, credo che vi siano stati protagonisti che hanno incarnato i valori di libertà e di identità europea, come Papa Wojtyla e Jan Palach, che andrebbero iscritti in un pantheon comune. Alzando lo sguardo a livello globale, Gandhi e Nelson Mandela, si stagliano come giganti del pensiero che diventa azione. Passando alleconomia credo che i fatti dimostrino limportanza delle teorie interventiste di Keynes.

Polini: “L’economia circolare non deve essere solo una sfida ma una opportunità”

Polini: “L’economia circolare non deve essere solo una sfida ma una opportunità”

Di Francesco Subiaco

Per Michele Polini, funzionario del Partito Repubblicano Italiano e candidato con la lista civica D’Amato Presidente alle Regionali del 12 e 13 febbraio, non si può pensare l’azione politica se non si considera la centralità della parola “sostenibilità”. Un termine che non vuol dire solo ridurre l’impronta climatica all’interno dei processi produttivi del nostro tessuto economico e sociale, ma vuol dire soprattutto pensare l’azione politica guardando alla simultaneità degli agenti sociali. Sapendo coniugare concorrenza e libertà d’impresa con la tutela della piccola e media imprenditoria locale, lo sviluppo economico e l’economia circolare, le sfide del PNRR e gli obiettivi del rispetto dell’ambiente. Sostenibilità, imprese, futuro su questi temi, per il candidato repubblicano, si deve giocare la partita per la Regione Lazio, per coniugare le tradizioni del territorio e una voglia di innovazione che vuole restituire al Lazio un respiro europeo. Per meglio comprendere le idee del candidato Michele Polini lo abbiamo intervistato per la nostra testata.

Quali sono per lei gli obiettivi fondamentali che dovrebbe avere la futura giunta regionale?
Ci sono molte tematiche contenute nel programma di Alessio D’Amato che abbiamo condiviso nel momento in cui abbiamo scelto di essere candidati nella Lista Civica per D’Amato Presidente come Partito Repubblicano Italiano. La futura giunta regionale dovrebbe avere la massima attenzione allo sviluppo ed all’attuazione, la così detta messa a terra, dei progetti finanziati dal PNRR. Ora più che mai la futura giunta regionale dovrà lavorare in maniera attenta e sinergica con le amministrazioni locali ed in particolare con l’amministrazione di Roma Capitale, per utilizzare appieno ed al meglio le risorse provenienti dal PNRR, che sono una grande opportunità di cambiamento e sviluppo della nostra regione e della Capitale, che può diventare guida per tutto il Paese e per l’Europa intera. Come è già successo durante l’emergenza pandemica, dove grazie all’azione di Zingaretti, Presidente della Regione, ma soprattutto grazie all’azione pensata ed attuata con competenza, professionalità, efficienza ed efficacia da Alessio D’Amato, la Regione Lazio ha potuto limitare al massimo i danni del covid 19 ed essere nel contempo regione presa a modello in Italia ed in Europa per il sistema di vaccinazioni, di prenotazione e contenimento dell’emergenza pandemica. È indispensabile che l’occasione offerta dal PNRR non vada dispersa e possa essere una vera occasione utilizzata al meglio per pensare ad una Regione moderna che guardi al futuro.

Quanto sarà importante l’attenzione per le piccole e medie imprese nell’azione della candidatura del presidente D’Amato?
Le piccole e medie imprese rappresentano nel tessuto economico nazionale una solida realtà, propria della cultura e tradizione italiana, che ha garantito anche in momenti difficili condizioni economiche e sociali di stabilità e di sicurezza, occupazione ed economia, fondamentali durante le crisi finanziarie e durante la pandemia covid 19 ed anche ora che viviamo gli effetti della guerra in Ucraina. Il Presidente D’Amato ha pensato ad un programma che punti oltre che al reddito di formazione, che mira alla formazione mirata per i giovani in cerca di prima occupazione, al rilancio della nostra economia basata su tre direttrici: innovazione, ricerca e sviluppo. Le misure pensate sono quelle di incentivi per promuovere gli investimenti nelle tecnologie digitali e green; una nuova rete di servizi informativi e di assistenza per le aziende; un programma di formazione 4.0 pe la diffusione di nuove competenze; il rafforzamento della sinergia tra impresa e ricerca, con progetti innovativi come “Rome Technopole” e “10Kmdi scienza”.

Perché ha scelto di candidarsi e quali saranno le principali battaglie che l’unione romana vuole portare avanti per questa tornata elettorale?
La scelta di candidarmi nasce dall’aver individuato in Alessio D’Amato le qualità e le competenze utili e necessarie affinchè il Lazio possa essere una Regione moderna che guardi al futuro.
La scelta passa anche per una ragione prettamente politica, ovvero quella di dare esatta identificabilità alla presenza del Partito Repubblicano Italiano nella competizione elettorale, essendo io il Segretario Politico dell’Unione Romana ed il Coordinatore del Lazio, nonché componente della Direzione Nazionale del Partito. La mia candidatura rappresenta pertanto un impegno diretto e politicamente qualificato del PRI, utile a consentire agli amici repubblicani l’individuabilità della nostra partecipazione.
La mia azione punta su tre punti in particolare:
1) potenziamento della raccolta differenziata (in particolare a Roma) e creazione di Impianti di trattamento e riciclaggio di rifiuti, secondo i principi dell’economia circolare ed in attuazione di uno dei pilastri del PNRR legati alla transizione ecologica, con l’intento di utilizzare al meglio le opportunità e gli strumenti offerti dal PNRR;
2) rafforzamento e integrazione del sistema viario e del trasporto pubblico regionale: da attuarsi con una razionalizzazione dei sistemi di trasporto, volto a portare una migliore fruizione della rete dei trasporti pubblici regionali e che favorisca una maggiore capacità dei sistemi di trasporto pubblico di offrire opportunità di movimento che abbiano il più possibile minor impatto sull’ambiente e sulla qualità di vita dei cittadini;
3) creazione di circuiti culturali, artistici, turistici, enogastronomici volti a valorizzare le realtà e le bellezze del Lazio, con attenzione alla storia, cultura e tradizioni locali, per favorire sviluppo economico, opportunità lavorative per i giovani e per consolidare le attività esistenti senza che siano disperse. Questo valorizzando e qualificando al massimo l’offerta culturale ed artistica della Capitale, inserendo circuiti turistici, culturali e tradizionali delle altre provincie del Lazio, al fine di avere un’offerta il più ampia e variegata possibile (mare montagna, collina, art, cultura, storia, tradizioni, etc.) ed unica al mondo.

Quali sono i riferimenti culturali di Michele Polini?
I miei riferimenti culturali sono quelli del libero pensiero, di una visione laica della società, dove l’uomo è parte integrante di un sistema naturale, di cui deve rispettarne principi e valori e vivere in equilibrio con esso. Ritengo che occorra pensare ad una società che veda tornare al centro dell’attenzione l’essere umano, questo è per me fondamentale. In questo il pensiero mazziniano di rispetto e di considerazione dell’uomo quale elemento fondamentale della società, della sua realizzazione in una società di eguali e dove tutti hanno diritto ad avere la stessa dignità di uomini, rispettando le diversità altrui, trovo sia la chiave di lettura di una visione attualissima. Il pensiero repubblicano riesce a cogliere lo spirito mazziniano e sintetizzarlo in una declinazione politica di grande attualità, per questo ritengo che il Partito Repubblicano Italiano, di cui mi onoro di fare parte, rappresenta una grande opportunità di valori e principi, ma soprattutto di grande ispirazione per la politica nazionale, in questo momento dove la politica sembra aver perso definitivamente la propria funzione ed il rapporto con i cittadini.

Quanto è importante per lei il tema del green e dell’economia circolare per una nuova gestione della regione Lazio?
Ritengo la tematica prioritaria e di assoluto interesse per immaginare una regione che possa guardare al futuro e al benessere dei propri cittadini. Le diverse risorse messe a disposizione dal PNRR offrono occasioni importanti per la realizzazione di un adeguato piano regionale che veda tra i suoi interventi prioritari ed immediati la realizzazione di impianti di trattamento, rigenerazione e riciclaggio dei rifiuti, realizzati secondo i principi dell’economia circolare. La creazione di impianti specifici di trattamento consentirebbe l’immissione nel sistema produttivo delle così dette “materie prime seconde”, risultanti dal trattamento di particolari categorie di rifiuti ed in alcuni casi consentirebbe la cogenerazione di energia, con vantaggio di riduzione delle dispersioni inquinanti (percolati ed altro) ed il ricorso ad una fonte energetica alternativa. L’attuazione di adeguate politiche che realizzino la transizione ecologica, uno dei pilastri del PNRR, passano anche attraverso la realizzazione delle Comunità Energetiche Rinnovabili, che rappresentano un utile risorsa per limitare l’accesso alle fonti energetiche di produzione da idrocarburi e gas, e veda invece il ricorso alle fonti rinnovabili, puntando sempre di più ad un efficientamento energetico, ad un più consapevole utilizzo delle risorse naturali esauribili e ad un ricorso sempre più importante a fonti alternative (pannelli solari, ……..).

L’IMPERO COLPISCE ANCORA. TIQQUN E L’ANATOMIA DELLA GUERRA CIVILE

L’IMPERO COLPISCE ANCORA. TIQQUN E L’ANATOMIA DELLA GUERRA CIVILE



Tiqqun è il nome di uno dei più interessanti progetti collettivi della tradizione filosofica politica italiana. Nato nel 2001 come una testata collettiva, anonima di matrice anarchica, situazionista e rivoluzionaria tale testata italo francese si pone come un laboratorio sperimentale di decostruzione del mondo neocapitalista, un pulsante di autodistruzione del mondo della sorveglianza che mischia Carl Schmitt e Hegel, Foucault e Marx, Bakunin e Hobbes, il cui prodotto più interessante è “Introduzione alla guerra civile”(GOG EDIZIONI) da poco pubblicato dalla casa editrice romana di Lorenzo Vitelli. Un testo complesso e rivoltoso, che non vuole solo diagnosticare da un punto estremo la società capitalistica, ma portarla al collasso e all’implosione. Strutturato come un trattato teologico politico del medioevo biopolitico, l’introduzione è un testo dinamitardo e fulminante che configura nelle sue numerose pagine un glossario, un arsenale di rivolta contro il mondo moderno. Le teorizzazioni di Tiqqun aldilà di una adesione ai principi professati sono dei diamanti concettuali, che analizzano le contraddizioni delle forme politiche realizzando una storia segreta del potere e della società nelle loro ipertrofiche confusioni.
In principio non è il verbo o il corpo, ma la forma di vita. La forma di vita, non è l’individuo, il corpo, la vita, è la polarizzazione intima della vita stessa, non ciò che si è, ma come si è ciò che si è. Forma di vita è la prima parola da tenere a mente. Tale concetto però non riguarda i predicati che si sussumono all’uomo, (nazionalità, etnia, genere, ruolo sociale, appartenenza religiosa) bensì la sua inclinazione più profonda, la cui natura è il bersaglio del Bloom. Il Bloom è, l’indole, l’umore, lo stato di agitazione che riguarda l’uomo alienato dalla società capitalistica che tende inevitabilmente verso il nulla. È l’anestesia di ogni forma di vitalità dell’uomo della end of history. Disinnescato da ogni emozione, da ogni vera inclinazione, tale creatura vive come un (ni)ente del mondo del nichilismo realista capitalista cullandosi tra l’assenza di gusto ed il gusto dell’assenza. Assenza del sacro, di radici, di pulsioni, di conflittualità, come in un acquario macchinico in cui il tempo e l’esistenza sono affogati dalla pubblicità e dalle inibizioni. Bloom è la seconda parola da tenere a mente. Ora la forma di vita il cui stato d’animo ed umore caratterizzante è il Bloom è ostaggio della rete della comunicazione, dell’acquario del consumismo, delle catene dell’alienazione neocapitalista a livello spirituale ed esistenziale, mentre a livello politico, o meglio biopolitico è imprigionata dal potere della società della sorveglianza, che si realizza come società totalitaria, in cui lo stato e la pervasività del potere si confondono in una struttura di panopticon diffuso in cui tutti sono sorvegliati e sorveglianti. La congiunzione di questa cappa “spirituale” la cui massima rappresentazione è lo “spettacolo”, con il potere biopolitico dello stato di polizia permanente è “l’impero”. L’Impero è la forma in cui si è costituita la società capitalista moderna. Servendosi dell’apparato spettacolare e di quello biopolitico, esso è dissolto nelle sue manifestazioni; è ovunque, perché non è in nessun luogo. Appare solo laddove l’ordine imperiale viene contestato, per ristabilire una normalità la cui cifra ideologica è l’indifferenza. Impero è la terza parola della Trinità di Tiqqun. Ora le forme di vita hanno una natura che le orienta al conflitto, alla guerra civile; lo scontro tra forme di vita, aldilà dei vari predicati che ad esse sono collegate, è intrinseco nella esperienza umana diventando il principio fondante della coesistenza di esse. Lo scontro ed il conflitto è l’assunto fondante della politicità delle forme di vita per Tiqqun, le quale si uniscono per affinità di inclinazioni in comunità, le quali sono perennemente orientate allo scontro. La società capitalistica, il cui garante è l’impero, per mantenere il primato del mercato, che disintegra la comunità in atomi che proiettano le loro pulsioni alla guerra civile nel mercato, come estensione del dominio della lotta, in realtà si nutre di surrogati per entità che sono alienate e disinibite. Non potendo continuare una dialettica conflittuale le forme di vita surrogano la loro indole alla guerra civile in guerre di predicati, simulazioni e surrogazioni della guerra civile, che si traducono in conflitti su temi come la differenza etnica, di genere, d’orientamento, di appartenenza religiosa. Conflitti che frammentano ancora di più il tessuto sociale e allo stesso tempo scaricano le forze sociali da ogni forma di emancipazione per Tiqqun, non contestando o difendendo la società capitalistica e l’impero ma proiettando verso di essa scontentezza e indifferenza. Per tale ragione l’impero si configura come degenerazione finale della modernità che da stato liberale a stato totalitario a stato sociale, realizza una forma di governo in cui la società è statalizzata e lo stato è socializzato, configurandosi come una struttura ibrida tra una integrazione di asset orizzontali ed un potere diffuso ed immateriale. Da qui il dissolvimento di ogni forma di sovranità personale, di limite geografico politico, privilegiando invece una struttura dematerializzata e transnazionale. Senza confini, senza leggi, in cui governano norme e predicati per frammentare e condensare il reale. Un Moloch fluttuante che non elimina le differenze, ma le sradica e disinnesca trasformandole in simulacri. Una forma di egemonia planetaria e immateriale che si invera nel reale solo dissolvendo ed annichilendo ogni forma di differenza sostanziale, ogni impeto conflittuale, ogni vera manifestazione di radicamenti e legami e che quindi vede nel disarmo nella decostruzione il linguaggio principale della sua espansione. Una espansione impersonale la cui cinghia di distribuzione è la tecnostruttura del sistema capitalista e che in questa definizione trova la sua massima spiegazione: impersonale, diffusa, totalitaria, pianificatrice, dogmatica. L’impero per Tiqqun non è infatti il capitalista o il dittatore o il manager, che in questa fase non sono altro che proiezioni cinematografiche di questo potere, simulacri irreali di sublimazioni collettive; in realtà l’impero va concepito come un ambiente ostile che aliena e condiziona l’agire umano. Tiqqun quindi si pone come il media sperimentale di una insurrezione totale contro tale ambiente che non vuole correggere ma spingere al collasso. Un manuale di guerriglia intellettuale che si pone come il bottone del giorno del giudizio della società della sorveglianza e che lancia la sua sfida per la rivolta del partito rivoluzionario contro l’impero. Una teorizzazione infruttuosa per quanto interessante che mostra come l’impero colpirà ancora…

Sossio Giametta, intervista ad un Mago del Sud

Sossio Giametta, intervista ad un Mago del Sud

Di Francesco Subiaco


Per Sossio Giametta la filosofia è la terapia dell’essere umano, un farmaco capace di portare ordine e dare un senso ai grandi dubbi che tormentano l’umanità senza scadere né nelle religioni delle illusioni né nelle illusioni delle religioni, attraverso domande che decostruiscono i miti dell’antropocentrismo, delle utopie dei totalitarismi, delle finzioni sulle sorti magnifiche e progressive dell’umanità, e che sono il vero bagaglio del filosofo. Per tali motivazioni Sossio Giametta è un vero filosofo e non uno storico o un pedante divulgatore del pensiero, poiché con il suo percorso intellettuale ha prodotto un corpus filosofico capace di sfidare i pregiudizi del tempo, di affrontare i temi del presente con il metro dell’eterno, di non essere solo l’ombra dei pregiudizi del tempo, ma una voce dei grandi turbamenti dell’individuo, che non solo risolve, ma vive, affronta e rilegge in modo unico nei suoi testi. Un’opera che lo pone come l’ultimo vero maestro del sospetto della nostra epoca. Un maestro capace di delineare il nucleo di una idea filosofica in grado di rispondere al più urgente tema della filosofia contemporanea: “come si può pensare il mondo dopo il cristianesimo?”. Questa domanda trova risposta nella filosofia dell’ “essenzialismo-organicismo”, una visione argomentata già nella Trilogia dell’essenzialismo” (composta dal Bue squartato, L’oro prezioso dell’essere e Cortocircuiti) e nello splendido Codicillo, in cui declina i massimi problemi del pensiero in minimi spazi ed in cui si ritrovano le idee e le scoperte che poi verranno riprese e sviluppate nel Caleidoscopio, nei commentari filosofici dell’opera di Nietzsche e nei suoi ultimi scritti. Scritti che affrontano la filosofia dei grandi maestri del sospetto della storia, come Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche nel piccolo, ma densissimo, “La filosofia di Spinoza e il duello con Schopenhauer e Nietzsche” (Bollati Boringhieri) dove Giametta confronta la filosofia del massimo filosofo con gli affondi del dinamitardo Nietzsche e del pessimista Schopenhauer, la cui filosofia non solo ha decostruito il mito antropocentrico e cristiano ma ha formulato l’idea di una filosofia capace di andare oltre il fanatismo e gli antidoti delle illusioni cristianesimo. Una filosofia che si fa racconto e narrazione nel romanzo più riuscito di Giametta, “La gita di Ognissanti”(Olio officina), in cui l’autore, critico del 68 e le illusioni della modernità, demolisce i tabù e le chiusure di un establishment intellettuale di stampo marxistico e dell’inquinamento ideologico con cui il comunismo ha contaminato la cultura e in cui è presente, inoltre, una interessante stroncatura di Pasolini. Opere in cui Sossio Giametta si mostra come un vero Mago del sud, (come suggerisce il titolo dell’omonima antologia critica sul filosofo frattese curata da Marco Lanterna), che ha ripagato bene i suoi maestri, Spinoza, Croce, Bruno e Colli, non rimanendone solo un allievo, bensì diventando a sua volta un maestro. Il maestro di una grande filosofia capace di ripensare la modernità in modo unico come un vero filosofo, forse l’ultimo, ovvero “come persone che compiono sforzi estremi per sperimentare fino a che altezza l’uomo possa elevarsi”. E con il pensiero di Giametta ci si innalza oltre le vette.


In Caleidoscopio filosofico hai detto che la storia umana è divisa in tre fasi di cui la prima aristocratica-elitaria-pagana e la seconda cristiana-democratica. Quale sarà la terza fase della storia e perché il panteismo sarà la filosofia fondante di questo terzo evo?
Dopo paganesimo e cristianesimo, il secondo in contrapposizione al primo come tesi e antitesi, segue levo moderno come sintesi, letà della secolarizzazione e per conseguenza del panteismo, soprattutto ad opera di Spinoza. Segue necessariamente, perché la religione, cioè il vincolo dellindividuo con la natura (la specie e il mondo), permane.

Oggi in preda ad una nuova “rivoluzione culturale” si giudicano i filosofi e gli scrittori in base alle lenti del politically correct. Che ne pensi di questo nuovo tribunale ideologico?
Giudicare i filosofi e gli scrittori con giudizi che non siano filosofici e letterari, come sono quelli politici, è sbagliato. La filosofia è la ricerca della verità e quindi il giudizio filosofico è quello che stabilisce che valore ha un certo filosofo, cioè la sua filosofia, in relazione alla ricerca della verità: se lha fatta progredire o se ha imboccato vie sbagliate.

Come può secondo te la filosofia confrontarsi con la complessità della tecnica e del mondo digitale. L’intelligenza artificiale e la “virtualizzazione” del mondo come cambieranno a tuo avviso il rapporto del filosofo con il mondo e il pensiero?
la filosofia si è sempre confrontata con la vita e il mondo, le cose più complesse in assoluto. si confronterà anche con la tecnica e il mondo digitale, come di ogni altra cosa che ne fa parte. quanto a come lintelligenza artificiale e la virtualizzazione del mondo cambieranno il rapporto del filosofo con il mondo e il pensiero, wait and see.

Perché definisci Spinoza il filosofo, Schopenhauer un mezzo filosofo e mezzo moralista e Nietzsche soltanto un moralista?
Spinoza è certamente il filosofo, ma il filosofo che ha fatto la rivoluzione più importante dopo quella di Gesù Cristo, in senso inverso, sostituendo il cristianesimo con il panteismo. Non ho definito Schopenhauer un mezzo filosofo e mezzo moralista e Nietzsche soltanto un moralista. Schopenhauer è un (grande) filosofo e in più un grande moralista e un grande artista (stilista). Nietzsche è un grande moralista, ma anche filosofo, poeta, psicologo, critico della civiltà (kulturkritiker) e genio religioso, come tale co-fondatore della religione laica.

Che cos’è per te la filosofia e quale dovrebbe essere la missione del filosofo?
La filosofia potrebbe non esistere come disciplina particolare, perché è una riflessione sulla vita e sulla natura aperta a tutti.

Una volta hai detto che ci sono tanti professori di filosofia e pochi filosofi. Come mai siamo diventati nell’ambito filosofico dei “guardiani” del pensiero e non abbiamo più coraggio di essere filosofi?
Per Pitagora, inventore del termine filosofo, il filosofo è chi osserva e studia la natura, le cose, non in primo luogo i concetti. Solo che il filosofo è anche chi si dedica a quuesto studio e non ignora i risultati dei filosofi precedenti.

Nel novecento Kojeve e Strauss si confrontarono a lungo sul rapporto tra filosofia e potere, nel lungo epistolario “Sulla tirannide”. Secondo te che rapporto ci deve essere tra il filosofo e il potere e verso quale posizione propendi?
Sono per lassoluta libertà della ricerca filosofica, per lassoluta libertà di pensiero, indipendente da qualsiasi autorità, da ogni potere, soprattutto quello religioso e politico.

Longanesi diceva che cultura è tutto quello che non ti dà l’università. Credi che la filosofia sia incompatibile con l’accademismo?
Sì. La vera filosofia è vocazione e non professione. Può però anche diventarlo, fermo restando che la vocazione deve sempre precedere la professione. Non si sceglie la fillosofia, ma se ne è scelti, in genere con grande sorpresa. Philosophus nascitur. Schopenhauer ha scritto un saggio significativo contro la filosofia delle università.

Che legame c’è tra il Giametta filosofo e quello romanziere? E come nasce la Gita di Ognissanti?
Giuseppe (Peppo) Pontiggia diceva che i miei saggi sono scritti con tensione narrativa. Io aggiungo che la mia narrativa è scritta con tensione moralfilosofica. In essa, narrazione e pensiero non sono sovrapposti o giustapposti, nascono intimamente intrecciati, anzi fusi, cioè i racconti sono veri racconti, non contes philosophiques che vogliono dimostrare una tesi filosofica. La Capria diceva che ero un centauro. E in effetti ho scritto Tre centauri. La gita dOgnissanti nasce come le altre narrazioni: da ispirazione, esperienza e pensiero. Vi stronco Pasolini, non il 68 e il movimento della contestazione, che giudico in parte positivamente, in parte negativamente. Pasolini, non negoche fosse anche artista, nel cinema e nella letteratura, forse anche nella poesia dialettale, che però non conosco. Il primo dei due romanzi è valido, come i due film romaneschi. Sono ispirati dalla gioventù perduta delle periferie romane. Il secondo romanzo ha un inizio bello e originale, travolgente, ma ilresto è maniera. Pasolini era più un effettista che un artista e aveva la presunzione di esprimere con singoli film intere civiltà: araba, greca, cristiana, inglese, eccetera. Quanto alla critica sociale, ha detto in forma popolare ciò che era stato detto seriamente quasi un secolo prima. Ha approfittato del successo per esprimere in più modi e con vari pretesti la sua depravazione, che non consiste nella sua omosessualità, ma nel modo di viverla e di obbrobriosamente sbandierarla.

Nel tuo romanzo “La gita di Ognissanti” compi una netta stroncatura di Pasolini e del 68. Quali critiche muovi verso questo autore e il movimento della contestazione?
Ho cominciato con Croce, ho continuato con Goethe, poi con Nietzsche e Schopenhauer, su cui ho lavorato di più; poi ancora ho aggiunto Giordano Bruno.


-Hai ancora dei sogni?
Veder pubblicati i libri già sotto contratto e ripubblicato qualcun altro.

Quali sono stati i grandi incontri della tua vita e perché?
Umanamente, soprattutto Marco Lanterna e Giuseppe Girgenti, due persone più miracolose che straordinarie, oltre che due eccellenti scrittori.

Roger Scruton superata la soglia dei settant’anni ha detto di aver compreso che il vero senso della vita è la gratitudine. A pochi anni dalla soglia dei 90 anni che cosa hai imparato e quale è il senso della vita umana per te?
Il senso della vita delluomo è la lotta per affermarsi e sopravvivere e per ricambiare il bene ricevuto dalla vita e dagli uomini del passato. La nostra origine è divina, ma siamo immersi nella vicissitudine delle condizioni di esistenza, fin troppo spesso infernali.

Quale è l’opera che hai scritto in cui ti rispecchi e perché?
Ritengo i Grandi problemi risolti in piccoli spazi (Bompiani 2017) il mio miglior libro di filosofia, perché vi ho risolto problemi millenari in tre, quattro o cinque pagine. Il mio pezzo migliore è lultimo, quello su Gesù Cristo. Dimostra come un uomo può diventare Gesù Cristocon un percorso laico.

In Senecione hai stroncato duramente il filosofo Blaise Pascal. Perché questa stroncatura?
Lo spiego in un libro che spero esca questanno. In unepoca in cui si lottava contro la religione e infierivano le guerre di religione, si è ributtato, per lincapacità di sopportare il mondo senza un Dio personale, cioè per viltà, nella religione invece di combatterla, come facevano, a rischio della vita e del carcere, migliaia di cosiddetti eretici.

La visibilità quanto può essere pericolosa per un filosofo?
Dipende dal filosofo,dalla sua filosofia, dall’epoca e dalle circostanze.

-Hai in programma nuove opere?
Due libri nuovi, uno su Schopenhauer e uno su Pascal, e delle ripubblicazioni.

Che opinione hai della scena politica attuale?
Più o meno disastrosa. Ma non voglio perdere la speranza.Ci sono forze positive in atto. Speriamo tutti.