COTTARELLI:”ECCO QUALI SONO I PECCATI CAPITALI DELL’ECONOMIA ITALIANA”

COTTARELLI:”ECCO QUALI SONO I PECCATI CAPITALI DELL’ECONOMIA ITALIANA”

Di Francesco Subiaco


Come mai l’Italia non riesce a crescere? È questa la domanda che avvia l’indagine del professor Carlo Cottarelli e trova risposta nelle pagine del suo libro “I sette peccati capitali dell’economia italiana”(Feltrinelli). Un testo con cui l’autore indaga i sette mali cronici che impediscono la crescita dell’economia italiana: l’evasione fiscale, la corruzione, la troppa burocrazia, la lentezza della giustizia, il crollo demografico, il divario tra Nord e Sud, la difficoltà a convivere con l’euro. Criticità il cui confronto sarà ancora più necessario a seguito delle conseguenze economiche della guerra e della pandemia e dalle innovazioni portate dalla transizione digitale e dall’intelligenza artificiale. Per approfondire questi temi abbiamo intervistato l’autore, che da poco ha pubblicato il suo ultimo “All’inferno e ritorno. Per la nostra rinascita economica e sociale” in cui si mostra l’indirizzo ideale necessario per una rinascita italiana: “la possibilità per tutti di avere un futuro nella vita, indipendentemente dalle condizioni in cui si è nati”

-Secondo lei il sistema industriale sta transitando verso una forma ibrida che unisce componente industriale e il mondo dell’alta tecnologia e del digitale?
Penso che non dovremmo sopravvalutare troppo questo fenomeno. La questione principale che ci dobbiamo porre è: quanto è ampio e rilevante l’effetto della rivoluzione ICT nel sistema produttivo? Credo si possa sostenere che l’effetto dell’innovazione tecnologica a cui abbiamo assistito negli ultimi 30 anni sia abbastanza modesto rispetto a quella che abbiamo osservato nei primi anni del novecento o nel dopoguerra, ad esempio. Una tesi che è confermata dal cambiamento della produttività tra il 1890 e il 1950, drasticamente diverso rispetto al passato, e quello dagli anni 90 a oggi, molto meno rilevante. Negli ultimi trent’anni non abbiamo cambiato profondamente le nostre abitudini, il nostro modo di vivere o di pensare, cosa accaduta invece nel periodo precedentemente analizzato, ma abbiamo migliorato e affinato gli strumenti che già avevamo. Alle sveglie convenzionali si sono sostituite quelle dei telefoni, ai telefoni a cabina o fissi i cellulari. Si sono quindi perfezionate le strutture del passato, ma non si sono realizzate le previsioni ottimiste che si pensavano per questo periodo, pensiamo agli auspici di Clarke e Kubrick per il 2001… Un fatto che è confermato dalle limitate variazioni della produttività. La crescita della produttività è stata infatti molto più lenta negli ultimi decenni rispetto al boom che ha subito nel dopoguerra. La rivoluzione che abbiamo avuto in questi anni è stata minore rispetto al passato, non a caso tutti i principali brevetti e papers di ricerca sono non di innovazione, ma di consolidamento. L’ICT non è ancora maturo, almeno per ora.


-Di fronte alle emergenze che minano la catena globale del valore pensa che l’orientamento dei paesi occidentali faciliterà il reshoring o il friendshoring?
Ci sarà una parziale deglobalizzazione caratterizzata da fenomeni come reshoring e friendshoring, ma ciò non riporterà ai sistemi e alle categorie novecentesche. In termini di flussi di importazioni ed esportazioni c’è stata una riduzione delle esportazioni su PIL, ma si tratta di una piccola modificazione di tale rapporto, ma non così rilevante, come nel 2008 ad esempio, e nemmeno in grado di mettere completamente in discussione la globalizzazione. C’è stato un effetto, anche molto a livello comunicativo, sulle esigenze strategiche da parte degli Stati Uniti, attraverso l’Inflation Reduction Act (di cui aspettiamo la risposta europea), ma non ci sarà un ritorno alle logiche primo novecentesche. Le catene globali del valore si stanno accorciando e ridefinendo, ma non ci saranno né un ritorno massiccio e generale nei territori nazionali delle aziende che hanno delocalizzato (perché sarebbe molto costoso ed infattibile per esse), né un ritorno, improbabile, all’autarchia.


-Stiamo assistendo ad una fase in cui le grandi aziende stanno cannibalizzando le piccole imprese locali?
Si però non si tratta di un fenomeno nuovo, ma di un consolidamento di un processo già avviato in precedenza. Pensiamo alla nascita e allo sviluppo dei supermercati e dei grandi ipermercati. Anche in quel caso il ruolo delle piccole imprese è stato certamente ridimensionato, ma non completamente ridefinito o sostituito, una valutazione che vale anche per i fenomeni a cui stiamo assistendo.
-Secondo lei l’Italia negli ultimi anni ha subito una regressione o una stagnazione del proprio patrimonio produttivo fatto di imprese, corporate e complessi industriali?
Non parlerei di regressione, ma di una fase in cui dalla fine degli anni 90 ad oggi la crescita è stata prossima allo zero. Non siamo tornati indietro, ma non siamo nemmeno cresciuti.


Quali sono stati i peccati capitali dell’economia italiana che hanno favorito questa “paralisi”?
Si tratta di una sequenza di eventi critici che non possiamo trascurare, un insieme di fattori transitori, ma le cui conseguenze permanenti sono la causa di questa condizione. Noi siamo entrati nell’euro impreparati a gestire la concorrenza senza ricorrere all’arma della svalutazione. Abbiamo per alcuni anni provato a mantenere un aumento dei costi della produzione, con un livello di inflazione più alto, rispetto agli altri paesi dell’eurozona, che ci ha fatto perdere la nostra competività, mandando in rosso i conti con l’estero. Tali errori hanno permesso che nel 2008, in piena crisi, l’Italia sia diventata l’obiettivo delle ondate speculative che si sono acuite nel 2011, creando un senso di insicurezza negli investitori che ha ancora di più minato la produttività nazionale. Il primo peccato capitale è stato, quindi, l’esposizione dell’Italia al rischio di attacchi speculativi dopo l’entrata nell’euro. Un peccato acuito a sua volta dalla incapacità di risolvere gli altri problemi storici del nostro paese che io chiamerei peccati capitali del nostro paese: la lentezza della giustizia; l’evasione fiscale; un maggiore livello di corruzione rispetto agli altri paesi europei; eccesso di burocrazia; il crollo demografico; il divario tra Nord e Sud.


Oggi secondo lei sarebbe auspicabile una maggiore pianificazione pubblica? Occorrerebbe una terza via tra privatizzazioni selvagge e statalismo?
Prima di pianificare o intervenire è necessario che lo stato risolva le proprie criticità. Lo Stato dovrebbe avere come obiettivo la risoluzione dei peccati capitali della giustizia, della burocrazia, della pubblica amministrazione cercando di avere una macchina amministrativa funzionante. Non vedo l’esigenza di uno stato pianificatore, anche se forse si potrebbe pensare ad una minima pianificazione in alcuni ambiti strategici. Mentre c’è certamente necessità di una maggiore attenzione riguardo i temi della concorrenza. Però tali operazioni hanno come prerequisito la risoluzione delle criticità della macchina amministrativa di cui abbiamo parlato in precedenza.


Quali sono i suoi riferimenti culturali?
Senza dubbio autori come Joseph A. Schumpeter, John Maynard Keynes e Ugo La Malfa, che leggevo negli anni della mia gioventù mentre i miei coetanei leggevano Marcuse, Marx e Berlinguer. Se dovessi dire un romanzo direi “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, perché è un grande monumento della incompletezza dell’uomo.

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