
Di Francesco Subiaco
Il mondo non è un palcoscenico, dove gli individui e i popoli inscenano il gioco delle parti, nella pantomima della storia e dei destini umani, ma è un campo di battaglia. Uno scontro aspro in cui le comunità e le nazioni duellano, sui terreni dell’economia, della strategia, della sopravvivenza. Un duello che oggi si può riassumere nella sfida tra le democrazie occidentali e le autocrazie. Una sfida che inizia dall’indomani della guerra fredda, che si è evoluta, nel contrasto per il predominio sul Mediterraneo e sull’Indo Pacifico. Oggi il braccio di ferro tra autocrazie e democrazie euroatlantiche, passa su tre scenari, tre diversi campi di battaglia, il confine orientale, teatro del conflitto tra Russia e Ucraina, il Mediterraneo, e l’Indo Pacifico, dove sull’indipendenza e la libertà di Taiwan passa il destino degli equilibri della scacchiera internazionale. Scenari e campi di battaglia che rappresentano i nuovi confini tra mondo occidentale e suoi partner etico-ideologici e le autocrazie e gli altri Rogue States. Per meglio comprendere le regole del campo di battaglia abbiamo intervistato Fabrizio Luciolli, Presidente del Comitato Atlantico Italiano e dell’Atlantic Treaty Association (2014-2020), è una delle voce più importanti dell’alleanza euroatlantica in Italia.
–In questa fase del conflitto tra Russia Ucraina quali possono essere le strategie e le soluzioni dell’Occidente per contenere le ripercussioni del caro energia?
La strategia più efficace è quella di rimanere coesi, perché le ripercussioni economiche e sociali del conflitto, che non sono diretta conseguenza delle sanzioni come una certa narrazione russa è riuscita a veicolare in Occidente, possono essere superate solo attraverso un’azione solidale delle democrazie occidentali. Ciò è particolarmente vero con riferimento al tema energetico, dove esiste una asimmetria nei prezzi dell’energia all’interno dei diversi paesi dell’Unione Europea. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, questa situazione trova origine nell’insipienza con cui sono state operate le scelte del passato, come la volontà di dire no al nucleare in controtendenza con gli altri paesi europei e la più recente politica di assoggettamento solo ad alcuni fornitori nel settore energetico, nello specifico la Federazione Russa, che hanno portato il nostro paese a scontare, più di altri, il ricatto energetico di Putin. Per tali ragioni le uniche misure che possono mitigare le conseguenze di questo conflitto, prima della cessazione dello stesso, è avere come bussola questo binomio: coesione e solidarietà tra i paesi dell’UE. In tale prospettiva, l’Unione Europea ha attivato numerosi strumenti, ma è necessario organizzarli in maniera ben più coordinata ed efficiente al fine di pervenire a una diversificazione delle fonti, a una integrazione del mercato energetico e un abbattimento dei costi del gas.
–Quanto un ritorno al nucleare potrebbe agevolare una politica nazionale energetica autonoma da altri paesi come è stato con la Russia e la Libia in passato?
La via del nucleare è un percorso da perseguire ma che permetterà di beneficiare dei suoi risultati solo tra dieci, quindici anni, secondo le più recenti previsioni. Nell’immediatezza l’Italia ha già intrapreso la strada della diversificazione delle fonti energetiche e dei relativi fornitori, e si stanno testando in prospettiva anche le potenzialità che possono scaturire dall’utilizzo dell’idrogeno, per esempio ricavato dai rifiuti. Tuttavia, nell’attuale criticità di approvvigionamenti energetici appare ineludibile rafforzare la cooperazione europea, anche creando reti volte alla interconnessione e scambio di flussi energetici in situazioni di emergenza così come già avviene nei paesi scandinavi.
-Come si evolverà il conflitto ucraino con il finire dell’autunno?
L’arrivo dell’inverno e delle rigidità dettate dalle condizioni meteorologiche, condizioneranno le dinamiche del conflitto e potrebbero schiudere delle opportunità per un’azione diplomatica che è auspicabile vengano colte. Ad una fase in cui si vanno ridefinendo i rapporti di forza e nella quale Kyiv sta guadagnando terreno, potrebbe far seguito un rallentamento dei combattimenti che nei prossimi mesi avverranno su terreni fangosi, con frequenti piogge e che impediranno un agevole spostamento di mezzi corazzati. Una condizione che penalizzerà le manovre offensive da parte russa e che sarà aggravata dai congelamenti dei mesi invernali. Da parte russa, inoltre, la cosidetta “mobilitazione parziale” richiederà tempo, non solo per il reclutamento forzato di personale militare ma anche per dotarlo di un addestramento basico e successivo dispiegamento al fronte. Giovani riluttanti che, dalle immagini pervenute, appaiono equipaggiati con materiali obsoleti se non talora anacronistici e che si troveranno ad operare su terreni ghiacciati, in cui l’addestramento ricevuto in questi anni dalle forze armate ucraine farà la differenza.
–Come valuta la strategia della Russia durante questi mesi?
Putin ha fallito su tutti i fronti: sia sul piano strategico e militare, che su quello politico, diplomatico, economico e sociale. Fino al 23 febbraio scorso, Putin era riconosciuto dalla comunità internazionale come un leader affermato e un politico scaltro. Con il lancio della criminale “operazione speciale” d’invasione non provocata dell’Ucraina, Putin ha dimostrato di non saper capitalizzare il proprio prestigio internazionale sotto il profilo politico, diplomatico e negoziale, perseguendo una strategia fallimentare che in pochi mesi ha devastato oltre l’Ucraina, il suo stesso paese, che è stato impoverito da decine e decine di migliaia di morti. Una strategia che dalla “denazificazione” dell’Ucraina si è oggi palesata come una guerra all’Occidente condotta con una campagna militare criminale, che si va caratterizzando sempre più con azioni di carattere pressoché terroristico, quali il lancio indiscriminato di droni kamikaze sulle popolazioni civili delle città, piuttosto che volte a evocare il terrore dell’uso dell’arma nucleare. Una strategia che ha compattato l’Occidente, non più solo geograficamente ma valorialmente inteso, e che ha avuto come più evidente conseguenza la storica richiesta di adesione alla NATO di Finlandia e Svezia.
Una strategia a cui fa riscontro il fallimento della campagna militare di aggressione all’Ucraina, testimoniata dai diversi cambi di guida e condotta delle operazioni russe sul terreno. A ciò ha fatto riscontro la compattezza dell’Occidente nel sostenere le richieste di aiuti militari e non di Kyiv secondo un principio di cooperazione internazionale in linea con quanto sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite per la legittima difesa del proprio Paese e dei suoi cittadini. Un principio che in queste settimane paesi come Spagna, Francia ed Olanda stanno inverando con l’invio di mezzi volti a dare una maggiore protezione dello spazio aereo dalla minaccia dei droni di produzione iraniana lanciati da Mosca.
Sotto il profilo economico, l’impatto dell’azione di Putin sulla fragile e modesta economia russa appare altrettanto disastroso. Le riserve che prima del conflitto ammontavano a circa 600 miliardi di dollari già pochi mesi dopo il lancio dell’”operazione speciale” erano ridotte a 22 miliardi e sono attualmente stimate pari a 2,2 miliardi. Ciò nonostante, l’aumento spropositato del prezzo con il quale per tutto il 2022 i paesi occidentali hanno continuato ad acquistare il gas russo, anche in quantità superiori al fine di salvaguardare gli stoccaggi. Pertanto, considerato che dal 2023 ci sarà un generale affrancamento occidentale dalle risorse energetiche russe e non avendo la Federazione Russa un’economia diversificata, è verosimile prevederne il collasso economico. Sta all’Occidente e a paesi come Italia e Germania, mantenere un atteggiamento fermo e coerente, senza tentennamenti, per accelerare la presa di consapevolezza e la necessità da parte russa di cessare le ostilità belliche e sedersi a un tavolo negoziale. Una seria e credibile iniziativa che, soprattutto da parte europea, dovrebbe riflettere in prospettiva sul futuro della Federazione Russa.
Sotto il profilo sociale, la campagna militare e la recente “mobilitazione parziale” non solo ha distrutto le prospettive delle nuove generazioni russe ma ha comportato la fuga dal paese di circa un milione delle migliori menti del paese.
–Putin ha quindi commesso l’errore di portare nel conflitto anche la società civile russa?
All’inizio dell’aggressione all’Ucraina lo stato maggiore russo era riuscito a tenere fuori dalle conseguenze del conflitto la società civile e, in particolare, le élites di Mosca e San Pietroburgo. L’attuale “mobilitazione” ha rivelato alla società civile russa il carattere di “guerra” all’Occidente e non più di “operazione speciale” regionale, minando quella compattezza nazionale russa che aveva caratterizzato le prime fasi del conflitto. Le ripercussioni economiche della guerra e delle sanzioni, il reclutamento forzato dei giovani hanno fatto venir meno l’unità del fronte interno a più livelli. Le minacce del possibile utilizzo di armi nucleari tattiche e le rappresaglie russe condotte all’indomani del crollo del ponte di Kerch con il lancio indiscriminato di 84 missili su obiettivi ucraini civili, non sono state accolte favorevolmente dallo stato maggiore russo, anche in ragione della scarsità di materiale militare che non è più in grado di riassortire. Si stima che alla Federazione Russa occorrerebbero circa 5 anni per ricostituire la forza terrestre dei tank e gli altri materiali militari andati distrutti in questi mesi di guerra.
Evocare la minaccia nucleare così come il lancio terroristico da parte russa di missili e droni su obiettivi civili ucraini rappresentano un evidente segnale d’impotenza da parte russa, che cela, tuttavia, un indice di pericolosità, piuttosto che delle opportunità che non vanno entrambe sottovalutate.
Una strategia del terrore che si scontra contro la cooperazione internazionale dei paesi occidentali che grazie ad una compattezza ed unità comune forse riusciranno a trascinare Putin sul tavolo delle trattative per mettere fine a questa guerra. Per fortuna in questi giorni si vede qualche spiraglio …
–Può spiegarsi meglio?
La strategia del terrore, evocata con la minaccia nucleare piuttosto che con il lancio di missili e droni, a fronte di una compattezza occidentale e resistenza ucraina, dischiude altresì degli spiragli di dialogo che potrebbero far presagire ad un rilancio di un tavolo negoziale. Recenti dichiarazioni da parte russa affermano, per la prima volta, che una soluzione diplomatica è possibile a patto che sia salvaguardata la sicurezza della Federazione Russa.
–L’Occidente secondo lei saprà rispondere di fronte a questi segnali?
Confido che l’Occidente sappia prefigurare uno scenario post-bellico non solo per ciò che attiene la necessaria ricostruzione dell’Ucraina, politica economica, sociale e di sicurezza, ma anche per ciò che riguarda il futuro delle relazioni con la Federazione Russa. Prospettiva, quest’ultima, che attualmente manca e che è quanto mai necessario sviluppare e favorire, anche per evitare a Mosca derive ancor più oltranziste. Se analizziamo le ultimi dichiarazioni di Putin e ascoltiamo attentamente le parole del suo discorso postreferendario, emerge quanto a Mosca stia assumendo maggior peso la componente nazionalistica che durante le più recenti fasi del conflitto ha attaccato le istituzioni militari russe, salvo la presidenza, reclamando una maggiore uso della violenza militare e con ciò acquisendo un crescente credito popolare e presso lo stesso Putin. Nell’attuale critica fase del conflitto, con una Federazione Russa in crisi e un inverno che potrebbe mitigare le crudeltà del conflitto, l’Occidente diversamente in difficoltà sarà in grado di mantenere una posizione coesa ed esprimere una leadership in grado di confrontarsi con Mosca e interdire i rischi di una potenziale deriva oltranzista?
–Come giudica il ruolo di Erdogan nella scacchiera globale?
L’analisi dell’azione della Turchia in questi e nei prossimi mesi non può essere disgiunta dalle preoccupazioni di Erdogan per le elezioni presidenziali del 2023. È verosimile attendersi una politica a carattere intermittente, così come sta avvenendo sul processo di ratifica dell’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO e sugli ultimi dossier, ricercando soprattutto il sostegno degli Stati Uniti per risollevare la lira turca vittima di una pesante inflazione e vedere garantita la solidità del confine orientale, in chiave anti PKK. E’, pertanto, nella chiave elettorale che andranno ponderate le azioni, anche di negoziato e visibilità internazionale, che verranno adottate da Erdogan nei prossimi mesi.
–Sta nascendo una nuova guerra fredda tra Autocrazie e democrazie occidentali?
Non credo si vada cementando un fronte delle autocrazie in quanto oggi più che mai il ruolo della Cina è preponderante e a lungo termine assorbirà nella sua orbita le altre, prima fra tutte la Russia che uscirà dissanguata dal conflitto con l’Ucraina. La vera sfida globale dell’Occidente è e rimane la Cina. Tuttavia, la sfida con Pechino oggi passa per Kyiv. Mi spiego meglio, in queste ore sta circolando un documento chiamato Kyiv Security Compact, dell’ex segretario generale della Nato Rasmussen e da alcuni paesi Nato, che vorrebbero un agreement, per rafforzare in maniera codificata il rapporto stabilito con l’Ucraina. Una relazione che sia più forte del memorandum di Bucarest del 1994, che annunciava delle garanzie di sicurezza da parte della Russia all’Ucraina in cambio della cessione delle armi nucleari dislocate sul suo territorio (uno di quei tredici trattati e accordi internazionali, violati da Putin con l’aggressione del 24 febbraio), e che possa garantire la stabilità del confine orientale attraverso un accordo più solido e più forte, che non rappresentanti la membership Nato dell’Ucraina, ma ne garantisca la propria sicurezza e capacità di difendersi. La strutturazione del rapporto con l’Ucraina ed una sua futura stabilità, permetterebbe alla comunità euro-atlantica di dedicare maggiore attenzione e risorse alla regione indo-pacifica ed alla sfida rappresentata dalla Cina, rafforzando i partenariati con paesi like-minded dell’area. In tale prospettiva, può prefigurarsi una polarizzazione del mondo ma non più delimitata da confini territoriali o geografici, ma da valori di libertà e del rispetto delle regole del diritto. Valori che hanno condotto paesi della regione dell’Indo-Pacifico a partecipare, lo scorso giugno, al vertice NATO di Madrid.
–Di fronte a questa polarizzazione quanto la partita tra queste diverse potenze si gioca su Taiwan?
Taiwan costituisce un faro di democrazia nella regione dell’Indo-Pacifico e ha per l’Occidente una valenza strategica di estrema rilevanza allorquando si consideri che Taipei detiene il 66% della produzione tecnologica del mercato mondiale dei microchip e che quel piccolo stretto vede transitare annualmente il 50% dei container che arrivano in Europa e negli Stati Uniti.
–Quale dovrebbe essere la bussola del futuro governo Meloni?
Quale presidente del Comitato Atlantico Italiano ho particolarmente apprezzato le dichiarazioni dell’On. Meloni laddove ha inequivocabilmente collocato l’Italia nel solco europeo ed atlantico tracciato dai padri fondatori della Repubblica, i quali ritennero che l’Italia potesse perseguire più efficacemente i propri interessi nazionali attraverso una partecipazione attiva in seno alle organizzazioni euro-atlantiche. Oggi, in particolare, è attraverso un rinnovato rapporto transatlantico e un ancor più incisivo ruolo nella NATO che l’Italia potrà bilanciare talune velleità carolingie di una Europa post-Brexit. Nell’attuale fase di ricerca di una nuova stabilità del sistema internazionale, l’Italia può costituire il perno insostituibile di una rinnovata comunità euro-atlantica che affronti le sfide del futuro, Cina in primis, con un approccio globale bilanciato anche sulla regione del Mediterraneo allargato, ove l’Italia si proietta con 8.000 chilometri di coste, da sviluppare per intercettare i traffici commerciali destinati all’Europa. Una centralità strategica e commerciale dell’Italia che confido il prossimo governo saprà perseguire.