– Francesco Subiaco

“Essere ammessi nel Monastero significa entrare in una sorta di area protetta, rarefatta e vagamente inquietante. È un impasto di spiritualità, di mistero, di segreti inconfessabili, che alla fine parlano il linguaggio impalpabile ma onnipresente di un potere antico, insieme sacro e spietato”. Così Massimo Franco descrive la sua entrata nella residenza vaticana del papa emerito nel suo ultimo straordinario saggio sugli ultimi 9 anni di “papato ombra” di Benedetto XVI: “Il monastero” (SOLFERINO). Un saggio che indaga e scruta le ombre, le atmosfere e le storie che hanno accompagnato il pontificato ratzingeriano, i suoi protagonisti ed i silenti abitanti del monastero. Un luogo diventato il paradigma di una chiesa in tumulto, di fronte ai cambiamenti rivoluzionari della curia, alle sfide della contemporaneità alle opposte tendenze delle corti dei due papi, che si muovono nell’atmosfera rarefatta delle mura vaticane come dei fantasmi di un’epoca lontana ed anacronistica. Massimo Franco, vaticanista, tra i massimi interpreti del giornalismo italiano, dopo avere reso immortali le ombre del divo, l’esilio di Craxi e gli enigmi del papato bergogliano traccia con il suo ultimo saggio su Benedetto XVI una fenomenologia delle anomalie che sta vivendo la chiesa, in uno scritto che unisce il rigore del giornalista con lo stile dello scrittore, immergendo il lettore in un castello kafkiano, una residenza landolfiana che diventa il subconscio di pietra dei tormenti del cattolicesimo contemporaneo.
Che cos’è il monastero e cosa ci racconta del suo illustre inquilino? E come esso diventa il paradigma di un papato anomalo?
Il Monastero è l’emblema dell’anomalia di questa fase della Chiesa cattolica e del Vaticano. Siamo abituati a pensare che sia Casa Santa Marta, l’albergo dentro le mura vaticane dove abita Francesco. In realtà, quella scelta è figlia delle “dimissioni” di Ratzinger. E l’intero papato è condizionato da quello strappo epocale. Lo stesso uomo del Monastero, Benedetto XVI, oggi papa emerito, simboleggia quell’anomalia. Ha mantenuto il nome che aveva da papa, si definisce “papa emerito”, veste con l’abito bianco e vive dentro il Vaticano. In cima a giardini curati, punteggiati da roseti, altari e cactus e garitte della Gendarmeria. Probabilmente, temeva di ammalarsi come Giovanni Paolo II e di essere condizionato dalla sua cerchia curiale, a cominciare dal segretario di Stato, Tarcisio Bertone, figura controversa. E dunque ha anticipato i tempi. Ma credo che credesse di sopravvivere poco, mentre ormai è stato per più tempo papa emerito che papa: 9 anni contro 8.
Tra i personaggi che abitano la galassia di questo monastero landolfiano, quale la ha colpita di più e perché?
Senz’altro il prefetto della Casa pontificia, monsignor Georg Gaenswein. E’ stato per anni il punto di raccordo, e il simbolo della continuità tra i due pontificati. E alla fine è stato schiacciato da questo doppio ruolo, strategico e insieme oggettivamente ambiguo, per dinamiche di potere che alla lunga non potevano non scaricarsi anche su di lui, al di là della sua volontà e di quella dei cosiddetti “due papi”. Il fatto che oggi rimanga Prefetto ma gli sia impedito di fatto di svolgere il suo lavoro è l’emblema dello scontro sotterraneo tra le “corti parallele” del Monastero e di Casa Santa Marta.
L’emerito del monastero e il regnante di Santa Marta sono due figure archetipiche della chiesa di oggi. Che rapporto intercorre tra i due papi e che differenza c’è con le narrazioni degli opposti schieramenti riguardo i due inquilini pontifici?
Sono due persone molto diverse, consapevoli entrambe del trauma vissuto dalla Chiesa con la rinuncia di Benedetto, e dunque intenzionati a salvaguardare l’unità della Chiesa. Per questo all’inizio Francesco ha chiesto a Benedetto di non essere troppo in disparte, di partecipare alle cerimonie pubbliche, di intervenire. Si disegnava una sorta di “copapato”, con Francesco prosecutore delle riforme che Benedetto non aveva potuto portare a termine. Ma col passare del tempo, quando le riforme sono entrate in affanno, il Monastero è stato percepito dalla cerchia di Bergoglio come un ingombro, e gli interventi di Benedetto come inopportuni. E alla fine tra gli uomini di Bergoglio il Monastero è stato percepito come una sorta di luogo-simbolo di una sorta di contro-potere: quasi un polo antagonista, dietro il quale si muove una potente filiera tradizionalista. E Casa Santa Marta è stata vista da molti dai ratzingeriani come una sorta di enclave che dietro lo schermo della continuità cambiava non solo gli equilibri di potere ma l’approccio dottrinale e riferimenti diplomatici tradizionali della Santa Sede. E questo a dispetto, va ribadito, dell’impegno dei <due papi> (tra virgolette perché di papa ce n’é uno solo) a evitare fratture e scontri interni.
Dalla coesistenza alla rottura apparente, nonostante la popolarità di Bergoglio, Ratzinger in questi anni ha assunto un fascino per alcuni ambienti della cristianità forse superiore a quello che aveva quando era in carica. Come si spiega il successo “postumo” di questo papa di “cristallo”?
Si spiega con un’ostilità sempre più aperta e pregiudiziale dei cattolici tradizionalisti nei confronti di Francesco e delle sue riforme visionarie, profetiche ma anche caotiche; e con un rigore dottrinale e una finezza teologica di Benedetto che oggi, a torto o a ragione, vengono considerati carenti nel pontificato di Bergoglio. In più, l’essersi defilato e appartato nel Monastero ha fatto dimenticare gli scandali e le tensioni che hanno accompagnato la fine del pontificato di Ratzinger.
Il monastero è il peacemaker del potere Vaticano che riesce a garantire una unità forzata tra il progressismo dei bergogliani e il tradizionalismo dei loro oppositori?
Certamente lo è stato. Il Monastero è stato a lungo l’argine con il quale Benedetto ha frenato e assorbito le spinte contro Francesco provenienti dagli ambienti iper-ortodossi del cattolicesimo. Ha, di fatto, “coperto” questo versante della Chiesa, diffidente e poi ostile nei confronti di Francesco. Nel libro il cardinale Gerhard Muller arriva a sostenere che il Monastero è il luogo “dove vengono curate le persone ferite da Francesco. E sono molte…”: una frase che lascia indovinare le tensioni e gli scontri di questi anni, per quanto diplomatizzati o addirittura rimossi.
Perché nel libro lei definisce, in realtà, più rivoluzionario Benedetto di Francesco?
Perché la rinuncia, o “le dimissioni”, sono state uno strappo ben più epocale e inedito dei presunti strappi di Francesco. Il Monastero è l’emblema di quello che rimane tuttora un tabù: tanto che dopo nove anni non è stata ancora regolata da nessuna norma la rinuncia di un pontefice. E tuttora si parla di “due papi”, con frange minoritarie ma agguerrite che o non riconoscono come valide le dimissioni di Benedetto, o lo accusano di avere lasciato troppo spazio a Francesco e alla sua “rivoluzione”. In realtà, in modo diverso entrambi hanno desacralizzato l’istituzione papale.
Le anomalie portate dal rinuncio di Benedetto XVI e dall’insolita diarchia di questi anni come stanno cambiando per sempre la figura del papa e la condotta della chiesa?
L ’hanno cambiata nel senso di “umanizzare” il papa, con conseguenze molto controverse e ancora oggetto di dibattito e di imbarazzo. Il tema di fondo, mai affrontato pubblicamente, è se la rinuncia di Ratzinger sia un unicum, o un precedente che aprirà la strada ad altre dimissioni papali. La mia impressione, tuttavia, è che nei prossimi anni il tentativo sarà quello di ricostruire una figura papale su presupposti diversi; di rafforzare il governo vaticano; e di riaffermare il ruolo fondamentale di Roma, rispetto alle spinte centrifughe e alla narrativa anti-Curia e anti-italiana che hanno profondamente condizionato l’ultimo Conclave: sebbene gli scandali intorno a Benedetto avessero giustificato certi pregiudizi…
In più occasioni lei ha potuto conoscere ed intervistare il papa emerito, che immagine si è fatto di questo personaggio così particolare, freddo e distaccato durante il pontificato, ma allo stesso tempo umano e cordiale come nel suo incontro con il vignettista Giannelli? Può raccontarci un aneddoto?
In effetti sono rimasto sorpreso dalla sua semplicità, dalla sua fragilità fisica, dall’aura di autorevolezza e di mistero che trasmette, e insieme dalla sua rapidità intellettuale. Non riesce quasi più a articolare le parole, eppure in certo momenti, sforzandosi, si fa capire eccome. L’ha dimostrato quando, nel colloquio che abbiamo avuto con lui insieme col direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, ha voluto dire con chiarezza che il papa è uno solo, disarmando i critici di Francesco. E quando ha visto il nostro vignettista Emilio Giannelli, che gli spiegava di non essere affatto religioso, al contrario di un fratello che era mancato in tempi recenti, Benedetto ha replicato, pronto: “Ha tempo per rimediare”. E’ un aneddoto riportato nel mio libro.
Il terzomondismo bergogliano ha mostrato forse la più grande frattura tra i due papi: l’Europa. Cosa divide i “diarchi” sul tema delle sorti del vecchio mondo e come ciò influenzerà la linea futura della chiesa?
Il Vaticano tende a percepirsi e a presentarsi come un’istituzione che garantisce continuità. E questo avviene anche quando la continuità in realtà si adatta ai nuovi tempi. La mia impressione è che Benedetto sia stato un papa europeo e <italiano>, che voleva cercare di rianimare il cattolicesimo in Occidente; e che credeva e crede nei valori dell’Occidente. Ma l’operazione non è riuscita. Francesco è un americano, flglio di un’America latina che da terra di missione è diventata o ritiene di essere diventata terra missionaria, chiamata a rievangelizzare un’Europa e un Occidente ritenuti scristianizzati e senza futuro. Per questo Bergoglio è stato visto come un papa post-occidentale, che ha puntato molto sul Terzo Mondo; e, in parallelo, sui rapporti con la Russia, per sanare la frattura con la religione ortodossa; e con la Cina, per concordare la nomina dei vescovi e proiettare il cattolicesimo in Asia, dove fatica a penetrare. Ma l’aggressione militare russa all’Ucraina, di fatto assecondata dalla Cina, ha mostrato i limiti e le contraddizioni di questa strategia, impedendo almeno fino all’inizio di maggio al papa di esercitare la sua azione per la pace, nella quale il Vaticano è storicamente maestro. Le sue parole a favore dell’Ucraina sono state chiare e forti. E il fatto che durante due mesi e più di guerra Benedetto non abbia mai parlato dimostra come, se anche esistono delle differenze di giudizio, al Monastero ha prevalso una linea di unità e di ubbidienza a Francesco, per evitare fraintendimenti e speculazioni in una Chiesa cattolica percorsa da tensioni profonde e irrisolte.