– Francesco Subiaco
Il paesaggio onnipotente greco abbaglia l’uomo come una sfavillante fondale, in cui si inscena le commedia dell’eterno, dove il capocomico, Dioniso, in ogni squarcio, in ogni lampo sembra alludere al mito, al passato epico e divo del suo popolo, agli sprazzi folli della tragedia, della rivolta, degli eroi. È una Grecia iniziatica, mistica, eroica, quella raccontata da Nikos Kazantzakis nel suo “La mia Grecia” (CROCETTI). Una raccolta di scritti di viaggio in cui l’autore del monumentale sequel dell’Odissea, racconta ed eterna il paesaggio del Peloponneso durante il suo gran tour dei luoghi primigeni della civiltà ellenica. Da Micene a Sparta, dal fascino di Elena alle Olimpiadi, il viaggio di Kazantzakis, commissionatogli dal giornale greco “Kathimerinì”, racconta al lettore una Grecia unica, misterica e areteica, aristocratica e popolare, in cui le braci della tradizione e del passato ardono e infiammano ancora il presente. Un viaggio tra i luoghi nativi dell’occidente in cui l’autore desidera una nuova Grecia, capace di raccogliere le ambizioni del passato, di essere degna dei suoi antenati. Una Grecia non di custodi o guardiani, ma di fondatori, di avventurieri, di eroi. Capaci di considerare il loro passato non una eredità, ma una linfa vitale per una nuova resurrezione ellenica, in cui i suoi cimeli attici sanguinino ancora, poiché l’unico modo di venerare una tradizione è viverla. Mentre si aggira tra le rovine spartane, i ruderi micenei e i fantasmi dei Dori, Kazantzakis scrive un rapporto su quel mondo contadino, popolare e perduto, arcaico e paesano, eterno e crudele, che vuole conservare. Salvando le parole del vecchio greco demotico, in cui si annidano ancora termini omerici, ricordi mitici, significati lontani che nei suoi viaggi raccoglie, fa resuscitare e mette nei suoi testi. Una immersione in un mondo lontano, ciclico, che vive in sintesi con le stagioni, poiché sa ancora respirare gli echi dei passati perduti, senza rimpiangerli, e capace di una disperata vitalità che non vede il significato della vita nel denaro, nella morale, nella bellezza fine a sé stessa, ma nella lotta. La lotta che l’uomo compie ogni giorno contro il proprio destino, trasformando quella mera sopravvivenza in un rito, in un segreto. In questo ritorno all’eterno Kazantzakis riscopre le radici dell’uomo, il vero compito dell’arte, in relazione al mondo classico. Il suo non è un classicismo d’imitazione, una estetizzazione dell’epoca antica, ma una resurrezione del sangue, delle inquietudini e delle tragedie che si nascondono nelle prigioni di marmo e di bronzo degli artisti dai nomi sconosciuti di quel passato arcaico, che vedevano nello stile l’armonia e nell’arte un legame carnale e indissolubile con la vita, con la lotta, con la tragedia. Un viaggio fatto di incontri illustri di conversazioni impossibili, dai sogni del filosofo bizantino Pletone, alle ombre di Costantino Paleologo, attraversando i silenzi dei monasteri, i templi arsi dai tramonti, i mercati popolari, le bettole goffe e amichevole dell’entroterra popolare. Mostrando quanto artista sia chi ancora vede nel mito il linguaggio segreto dell’eterno.