– Francesco Latilla
Gianmarco Aimi, tra le giovani firme più interessanti del giornalismo nostrano, è lo sguardo che fortunatamente ancora esiste in questo campo. Una penna che non si accontenta del semplice chiacchiericcio in forma d’intervista ma invece tenta di riportare alla luce la galassia interna a determinate figure strane e dalle mille contraddizioni che rispondono al sacro nome di “artisti”. Aimi si tuffa nelle storie da raccontare con la cultura e il modo di intendere l’intervista come nel passato, partendo dalla concezione di mestiere che è alla base di un lavoro artigianale come quello del giornalista, ma con uno sguardo verso il futuro e a volte anticipando i tempi. Dopo la collaborazione con Il Fatto Quotidiano arriva a scrivere per Rolling Stone e Mow. In questo nostro dialogo abbiamo cercato di cogliere gli aspetti fondamentali di una sana intervista e cosa davvero significa oggi essere un giornalista.
Perché qualcuno dovrebbe voler diventare un giornalista al giorno d’oggi?
Questa è una bella domanda. Parto col dire che sconsiglierei a tutti di fare il giornalista se non ci credono davvero, se non pensano che questo possa essere il loro lavoro, anche perché a volte diviene una missione personale. Non si tratta soltanto di un lavoro, preferisco la definizione di “mestiere” come si usava un tempo chiamare gli antichi mestieri e quindi sono legato ad una visione artigianale. Oggi tutti provano a mascherarsi da giornalista, anche coloro che in realtà non vogliono fare questo nella vita ed infatti la macchina del giornalismo la trovo ingolfata di tantissima gente e questo è dovuto anche al fatto che le testate pagano sempre meno e tutti ci provano, anche per farsi conoscere. C’è anche chi svolge un altro lavoro nella vita e per passione si dedica alla scrittura giornalistica. Diciamo che i veri giornalisti sono coloro che cercano di andare oltre lo scrivere semplicemente per esserci, per apparire, insomma si tratta più di un lavoro di ricerca che tenta di fornire diverse chiavi di lettura al pubblico. È un lavoro che non ha a che fare col marketing e lo sconsiglio perché oggi è abbastanza difficile riuscire ad avere una retribuzione che possa mantenere te ed una eventuale famiglia ma dall’altro lato per me si tratta del lavoro più bello del mondo.
Scrivi per testate importanti e hai intervistato personalità influenti e diverse tra loro. Qual è stata l’intervista che più ti ha reso soddisfatto?
Sicuramente quella a Piergiorgio Bellocchio per “L’inchiesta” che risale ad alcuni anni fa. Prendo questa come riferimento perché trovo che ci sia proprio tutto ciò che io desidero da un’intervista ossia un personaggio da (ri)scoprire, una figura non appartenente al mainstream e che magari è stato accantonato per tanti motivi. Poi facendola dal vivo ed essendo entrambi piacentini ho potuto scavare meglio proprio perché ci siamo trovati su una stessa linea d’onda. Infine, dato che si tratta di una delle prime interviste svolte in uno stile approfondito, senza tener conto del numero di battute, riportando il dialogo come un flusso di coscienza tra me e lui, è sicuramente quella che ricordo con più affetto.
Cosa ricerchi attraverso un’intervista?
Ad un certo punto della mia vita mi sono trovato senza lavoro perché ha chiuso la radio per cui lavoravo e si è interrotta la mia collaborazione con “Il Fatto Quotidiano”. Siccome era tanto forte la mia voglia di tornare nel giornalismo ho incontrato dei personaggi e partendo da semplici chiacchierate sono venute fuori delle nuove interviste. Per cui mi sono accorto che non si diventa artisti per caso o perché lo si vuole ma invece lo si è a causa di vite particolari, di scelte che sono state fatte prima di creare un’opera e quindi la mia ambizione sta nel tirare fuori dalla loro memoria la genesi della loro creatività e delle relative opere. Cerco di scavare nella personalità dell’intervistato, artisti per la maggior parte, per tirare fuori quel che davvero sono queste figure da un punto di vista personale. Un tempo si cercava di fare delle interviste per mostrare qualcosa di originale della figura in questione studiandola a fondo prima di tutto, sia la vita che le opere. Oggi si è perso un po’ questo modo di concepire le interviste, forse per il fatto che ormai tutto deve essere veloce e pronto per il giorno dopo o addirittura un’ora dopo. Per quanto mi riguarda posso dire di aver recuperato lo spirito del passato e quindi di valorizzare l’intervista come genere giornalistico.
Spesso i personaggi da te intervistati sono degli irregolari, dei politicamente scorretti come il già citato Massimo Fini ma anche Morgan, Isabella Santacroce, Stefano Bonaga, Enrico Ruggeri, Giovanni Lindo Ferretti. In un’era stracolma di presunti buoni, quanto serve invece essere dalla parte sbagliata?
Credo sia fondamentale per riuscire a ragionare bene. Anni fa mi sono accorto che leggere i giornali o le testate online che la pensavano come me, seguire soltanto i personaggi che erano del mio mondo non mi dava più nulla e allora ho cominciato a cercare figure che potevano pensarla diversamente da me e con i quali potevo anche trovarmi in disaccordo e devo dire che tutto ciò mi ha arricchito. Ho cercato personaggi scorretti, controversi, controcorrente che dessero a me e soprattutto al lettore delle chiavi di lettura originali sul mondo e credo sia stata una grossa crescita dal mio punto di vista. MI hanno anche portato molta fortuna facendomi ritornare nel giornalismo. Insomma, posso dire che uscire dai soliti schemi ha pagato sia per un mio interesse personale, tornare a divertirmi con quello che era il mio lavoro primario, e anche per i lettori che sono rimasti stupiti ed hanno apprezzato il mio modo di introdursi nelle storie. La mia ricerca è nel riscoprire coloro che sono usciti dal grande mercato oppure portare alla luce qualcuno di nuovo, anticipando i tempi, come la filosofa Ilaria Gasparri la cui intervista è stata la più letta di Rolling Stone per vari giorni o Mattia Tarantino, un poeta giovanissimo che ho paragonato a Rimbaud. Il contemporaneo è importante per me però sento che è già troppo abusato da chi giornalmente fa un lavoro standard.
Quali sono i lampi di genio che possono venir fuori dal dialogo con uno di questi personaggi?
Guarda, io in realtà non li definirei neanche personaggi perché altrimenti li confonderei con quelli televisivi che puntano solo all’immagine. Invece li chiamo per quello che sono, artisti. Dialogando con loro ti accorgi che non riuscirai mai a delineare un vero profilo, sono come un fiume che scorre, li incontri un giorno e credi che in trentamila battute riesci a coglierne tutte le sfumature ma poi li ritrovi l’anno dopo e cambiano tutto. Sono in completa trasformazione, certe volte non sono neanche d’accordo con quanto hanno detto qualche mese prima addirittura. Per quanto riguarda Morgan, credo sia uno degli artisti più originali non solo dal punto di vista musicale ma anche perché ad ogni domanda di qualunque argomento riesce a spiazzati per la sua cultura, infatti penso anche che sia molto sottovalutato. Devo dire che gli artisti veri sono persone scoperte, perché si spogliano completamente a differenza delle star televisive e non hanno paura di raccontare determinati passaggi della loro vita. Citando Aurelio Picca, un grande scrittore che ho intervistato, è come se gli artisti avessero una ferita che tutti possono vedere ma che li nobilita e non li rende fragili ma più veri.
Un tuo ricordo di Antonio Pennacchi?
Quando ho saputo della sua scomparsa mi sono davvero commosso perché l’intervista che gli feci fu molto particolare. Nel lavoro del giornalista servono tanti fattori tra cui l’intuito nel capire quando scrivere di una determina cosa o di una persona. Non appena venni a sapere che sarebbe uscito il suo nuovo libro “La strada del mare” proposi un’intervista e il suo ufficio stampa non mi fece sapere nulla e non so perché. Allora sono andato sulle pagine bianche, ho trovato il numero del telefono di casa sua e l’ho chiamato. Di questa storia mi ha stupito il fatto che ho sentito di dovergli fare quell’intervista e dopo un mese è scomparso e quello che mi ha toccato di più è che lui dopo tanti anni di successi nella letteratura, dopo il Premio Strega, sognava ancora di notte i suoi compagni di fabbrica. In fondo è rimasto fino alla fine quell’operaio lì, incazzato.