– FRANCESCO SUBIACO

Le rovine sono i sogni della storia. Delle visioni anacronistiche che contaminano con le loro suggestioni la fantasia dei poeti, i capricci degli artisti. Sarebbe difficile immaginare il romanticismo senza le cattedrali decadute di Friedrich o la poesia ottocentesca senza questa collezione di monumenti, reliquiari, sepolcri. Perché nella rovina si nasconde una promessa di eternità, di un futuro perduto, come in un vascello in fondo al mare la speranza di un tesoro. Una città che vive di queste immagini e promesse è certamente Roma. Un luogo che coniuga ed innesta questi anacronismi, facendola sembrare un bivacco tra le rovine, come disse Flaiano. Ma le rovine della capitale non sono come quelle che ereditarono gli uomini del medioevo o all’alba della modernità. Esse si esauriscono nella loro defunta grandezza, i cui eredi sono dei custodi e non dei continuatori. I marmi del Colosseo non offrono una promessa di impero, semmai l’occasione di una gita turistica. Pezzi da museo senza anima e senza destino. Una riflessione quella sulle rovine che accompagna uno degli ultimi testi di Pierre Drieu La Rochelle:“Intermezzo Romano”, recentemente pubblicato da Camilla Scarpa e la sua ASPIS e curato da Marco Settimini. L’intermezzo al suo interno contiene il dittico italiano, “La voce” e “Intermezzo romano”, e “Appunti per un romanzo sulla sessualità”. Opere dal forte carattere autobiografico, in cui lo scrittore di Fuoco Fatuo, si muove in una Roma sorrentiniana e decadente. In cui le rovine delle civiltà perdute, non fanno che sottolineare la mancanza di vita dei suoi abitanti, che si muovono come dei grandi parassiti di un passato lontano che non fa altro che rimarcare la loro piccolezza, aumentando il senso di morte e immobilismo, che rende la città eterna un grande e assolato reliquiario, di un termitaio interminabile. In cui le ombre di un passato monumentale non fanno altro che ricordare la stagnazione e la banalità di un presente retorico e farsesco. Dove la presenza delle suggestioni estetizzanti di Barres e D’Annunzio, mischiate alle fanfare di cartapesta del regime fascista, mostrano un mondo di spenti guardiani, di caricature sensuali, ma impotenti. Una città di accademie, di cui “aborre i musei in cui le opere d’arte gli appaiono fanciulle morte”, nonostante si possa andare per le rovine per trovare “una lezione di giovinezza rovesciata”. Una Roma in cui pionieri americani si aggirano per le corti salottiere di nobili esausti ed imborghesiti, che sperano di essere portati come grande mummie sulla barca statunitense. Il Gille (e poi il Drieu) dell’opera si muove inseguendo, le sue donne fatali, tra i salotti di questi eredi decaduti degli antichi imperi, colmo di disprezzo. In questo “olimpo fatiscente” dove una aristocrazia morta si aggrappa parassitariamente ad una borghesia dissanguata(corrompendosi a vicenda) in una degenza annoiata. Come il Marcel de La Recherche anche Drieu si confronta con una nobiltà deludente e pigra, alla deriva come del resto il cattolicesimo romano, prigioniero dei suoi splendidi palazzi di assoluti, custodi delle ceneri delle fiamme che arsero il mondo di ieri. Le rovine che queste figure rappresentano non sono altro che fantasmi del “Cristo delle cattedrali” e del grande “medioevo mediterraneo”, ombre di un mondo magnifico ridotto a reliquia. L’intermezzo romano di Drieu non ha nulla a che fare con i sogni panici dannunziani o con la propaganda imperiale dei totalitarismi, è uno “spleen oraziano”, in cui questo ultimo decadente si muove in uno scenario che più che il piacere ricorda La grande bellezza, più che i signori schiacciati dal grigio diluvio democratico e della terza Italia, i “Gourmentes” di Proust. Lui è il giovane europeo, rinchiuso in questa vetrina, protagonista di drammi sensuali, ma non sentimentali. Inseguendo le sue donne vaghe e seducenti come atmosfere, che sembrano provenire dai fondali del’animo del lettore. Con le loro pose aggraziate, la sensualità morbosa, il distacco impersonale ed imperdonabile. Donne che sembrano puzzle di passioni, mosaici di turbamenti, che vengono guardate e ritratte dallo sguardo unico di Drieu la Rochelle. Uno sguardo che tocca e anima le persone, gli oggetti e il mondo che lo circonda in maniera impietosa, tra estrema delicatezza e pacata ed asfissiante ferocia. Guardando la propria interiorità con una sincerità e schiettezza sbalorditiva. Nei suoi soggiorni romani Drieu restituisce al lettre, delle pagine magnifiche in cui la decadenza sembra trasformarsi da fondali in personaggio della tragedia del tramonto di un mondo lontano ed eroico, di cui Drieu La Rochelle diventa il testimone sensuale e raffinato, classico e romantico. Un ultimo delicato protagonista di un intermezzo brahmsiano tra due epoche, sotto i pini di Roma alla ricerca di un ideale, di un mito, di un sentimento, che lo portano ad aprire le proprie ombre, il proprio sottosuolo.