Antonio Mocciola e la sindrome di “Stoccolma” come analisi dell’uomo


Antonio Mocciola è un autore teatrale-cinematografico in continua ricerca verso una libertà espressiva che possa far emergere punti di domanda agli spettatori delle sue opere. In veste di scrittore ha  pubblicato sette libri e ha scritto ben venticinque commedie. Inoltre lavora per il cinema e per la televisione. Ha curato le edizioni di alcuni lavori dedicati alla cantante Giuni Russo e ha collaborato con Franco Battiato.  Nel 2016 va in scena “La Cella Zero” scritto con Pietro Ioia, tratto dal libro di quest’ultimo sull’esperienza della violenza del sistema carcerario. Nel 2020 ecco andare in scena “Santo Stefano” sulla vita dell’anarchico Gaetano Bresci. Il suo ultimo spettacolo “Stoccolma”, finalista al Premio Annoni 2021, è un forte che prende come pretesto la Sindrome di Stoccolma per affrontare gli abissi legati alle relazioni familiari e all’identità.  Il suo debutto, in anteprima per la stampa, si è tenuto domenica 10 ottobre al Teatro Avamposto di Napoli.

Adesso è in scena il tuo spettacolo dal titolo “Stoccolma”. Di cosa si tratta?

La sindrome di Stoccolma, a cui si riferisce il titolo, è l’innamoramento che può scattare da parte della vittima nei confronti del proprio carnefice. Mi intrigava ambientare lo spettacolo in una cantina, dove uno studente (Michele Capone) rapisce il proprio professore-aguzzino (Antonio De Rosa), con esiti inimmaginabili. La regia di Maria Verde e le musiche di Antonio Gillo hanno completato il quadro, e speriamo di portare in giro questo testo, finalista peraltro al Premio Annoni 2021 per la drammaturgia. A novembre tengo molto al debutto di Adolf prima di Hitler, con Vincenzo Coppola, Francesco Barra e la partecipazione di Gabriella Cerino, per la regia di Diego Sommaripa, in un teatro da noi napoletani assai amato, l’Elicantropo.

La tua è una visione artistica che cerca di scuotere gli animi, raccontando storie anche controverse e di forte impatto. Quanto hanno inciso gli enfant terrible su di te?

Amo tutti gli autori controversi, scomodi, spesso non capiti. Diffido della “popolarità”, o comunque mi sento meno partecipe quando c’è un prodotto amato da tanti. Da Gide a Sade, da Lautréamont a Gadda, mi affeziono a tutti coloro che osano, che rischiano. Mai essere innocui, mi diceva Battiato, la cui presenza manca tanto a tutti noi, nell’anno in cui, peraltro, abbiamo perso anche Piera Degli Esposti, per la quale scrissi il mio primo testo, nel 2007. Un anno davvero infausto.

Il teatro italiano è ancora vivo?

Il teatro si, gli autori anche, gli attori più che mai. Il pubblico non lo so. Il covid ha spaventato molti, e già il piatto “piangeva” prima. Spero che si capisca che le sale teatrali, e cinematografiche, sono i posti più sicuri del mondo, sia perché sono sanificati, sia perché non sono mai frequentatissimi. Manca però il coraggio delle produzioni, affezionate al guadagno immediato. Cosa davvero ironica, per il teatro…

Il tuo libro “Le belle addormentate” è legato ai sacri luoghi ormai in totale abbandono, quelli dell’Italia profonda. Quanto credi siano importanti le radici in un momento in cui la rimembranza verso gli avi pare essersi persa?Torneremo fatalmente alla terra, alle radici. Le città hanno raggiunto la saturazione, stravolte da un’urbanizzazione selvaggia e da un peggioramento deciso della vita nelle periferie. E’ anche vero che città come Milano, ad esempio, stanno vivendo una vera e propria golden age, a differenza di Napoli, Roma, e ahimè anche Torino. Abbiamo abbandonato l’Appennino a sé stesso, ad esempio. Eppure veniamo tutti da lì. Mi sembra un suicidio tattico: la montagna è una risorsa. Le belle addormentate, che pubblicai sei anni fa, è più che mai attuale. E infatti tuttora me lo chiedono.

Oltre la letteratura e il teatro, hai scritto anche per il cinema. Quali sono le principali differenze, in termini di scrittura, tra i due mondi?La sintesi che ti chiede il cinema, il peso dei silenzi, il valore delle immagini, la possibilità di lavorare sui volti, le sfumature, è eccitante per uno sceneggiatore. Devo ammettere di essere più nei miei panni quando vedo il respiro dell’attore in sala, ma se penso al successo di alcuni film che ho scritto, tipo Papà uccidi il mostro per Fabio Vasco, Ubbidire per Giuseppe Bucci o a La controra di Paolo Sideri, con i miei amati Lucianna De Falco e Giovanni Allocca, in rampa di lancio, non posso che amare anche la scrittura cinematografica. In fondo sono lo stesso ragazzo che scriveva bei temi al liceo classico. Cambia solo il vestito, e l’habitat. Nessuno può sfuggire alla propria natura.
 

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