di Francesco Subiaco
Camillo Sbarbaro diceva che si inizia a scrivere per essere notati e si continua a scrivere perché si è noti. La scrittura è un bisogno, una febbre, una smania. Si scrive per nascondere le proprie paure su carta, per esorcizzare il dolore, per creare i mostri che poi si vuole sconfiggere, per lasciare un ricordo o peggio un testamento. La scrittura ha un che di religioso, dentro ogni apprendista delle buone lettere si cela, inconscio e inconfessabile, il desiderio di un lettore segreto, un padre, un amore, un dio, per i più egocentrici o fedeli, di trovare un conforto, un contatto umano. Un legame, perché religo vuol dire anche legare a sé, con forse i fantasmi di un passato in cui si è intrappolati, forse un mondo ostile che si vorrebbe diverso. Scrivere però è anche un appello, a cui molti rispondo senza essere chiamati, che comporta dei lati oscuri, delle vicende bizzarre, oppure una fantasia atipica, irreprimibile, disturbata e patologica. In ogni autore si nascondono infatti i germi della pazzia, dell’egocentrismo, la smania di essere amati, il sentimento di rivalsa, la frustrazione della vita di tutti i giorni, l’incomprensione dei contemporanei. Il marchio di far parte di una moltitudine nel tempo e non nello spazio, di sentirsi gli ultimi, i soli, gli unici. Un sentimento straniante quanto elettrizzante. Ciò detto non è sempre vero che dietro ad un emarginato, un pazzo, un esaltato, un frustrato, si nasconda un genio. Molte volte tali sintomi nascondono solo un illuso. Perché se possiamo essere d’accordo nel dire, con Schopenhaur, che in ogni genio, c’è un che di infantile, ma dietro ogni infantile non c’è quasi mai un genio. Come dietro alla figura standard dell’uomo delle lettere e delle arti si nasconde, la maggior parte delle volte, non un genio ma un mediocre, al limite un mestierante. In ogni pittore c’è un imbianchino promettente, in un giornalista un pettegolo, in un romanziere un mitomane, in un attore un bugiardo. Ma non si può far emergere il genio dietro la mediocrità umana, se non si scrive, se non si crea. Malaparte era un mitomane un narcisista, ma soprattutto l’autore di uno dei più bei romanzi del novecento. È lo scrivere che conta, non l’essere letti, non il giudizio. E per scrivere ci vuole impegno, ci vuole una lotta con se stessi e con la parola. Ci vuole una grande unica maestra, la letteratura. Perché non esistono scorciatoie per raggiungere uno stile se non il confronto e la sensibilità. Ma un grande scrittore al contrario degli evangelisti non viene ispirato dal divino, deve confrontarsi, allenarsi, ingegnarsi, imparando i trucchi del mestiere prima di farli propri. Per trovare una buona palestra è interessante il confronto offerto da Stefania Crepaldi nel suo “Lezioni di narrativa”(Audino). In cui attraverso una serie di esercizi, di confronti, di esempi, la Crepaldi non insegna a scrivere, ma a prepararsi a scrivere, attraverso una carrellata di immagini, metodi, trucchi, che possono essere un interessante punto di partenza non per essere notati, ma per imparare a notare le tecniche, gli stratagemmi di uno scrittore e poi iniziare a scrivere. Perché il metodo e l’esercizio sono gli unici strumenti che danno senso al talento. Ed il talento senza genio, si sa, vale poco, ma, è ancor più noto, che il genio senza talento, non vale nulla
un copia-incolla di citazioni non è una recensione
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