Articolo di Francesca Fabbri
Sono trascorsi quasi due mesi da quando le forze talebane sono entrate a Kabul, rivelando quanto sia stato inutile il sacrificio dei soldati che hanno combattuto per un ideale di democrazia che non si è mai realizzato. Del polverone che hanno sollevato le riprese e le immagini degli afghani che si attaccavano alle ali di un aereo e che affollavano l’aeroporto pur di non cadere di nuovo in un regime oscurantista, non è che rimasto un silenzio indifferente, spezzato da qualche testata giornalistica che si prende la pena di dare voce a quelli che la stanno perdendo ogni giorno di più.
Mentre i taliban fanno accordi con l’Iran su energia e infrastrutture e incontrano le delegazioni britanniche e statunitensi a Doha per riaprire un dialogo, le preoccupazioni per il popolo afghano, almeno dal punto di vista mediatico, stanno scemando. Ogni singolo cittadino afghano che non abbraccia in alcun modo la dottrina retrograda e piena d’odio degli “studenti coranici” teme per la sua vita e quella dei suoi familiari.
Le donne, considerate esseri inferiori, sono le prime ad aver perso già la maggior parte dei loro diritti in pochissimo tempo: sono lasciate fuori dall’istruzione (escluse le bambine che possono frequentare le elementari), è vietato a loro lavorare, eccezione fatta per chi opera nel settore sanitario, né tantomeno stare al governo. L’allontanamento dai luoghi di lavoro e dalla scuola, ambienti che hanno rappresentato fino ad alcuni mesi fa un simbolo di emancipazione e progresso, segna la morte di ogni speranza per il loro futuro. Restrizioni prese a detta dei capi del non riconosciuto Emirato per “tutelare le donne” fino a che non si sarà instaurato un “vero ambiente islamico”. Parole ipocrite che vogliono solo ingannare e depistare l’attenzione internazionale dalla limitazione della libertà e dalle violenze che si stanno consumando a Kabul così come nelle province.
La presenza dell’ISIS-K e dei gruppi di Al Qaeda mette ancora più in pericolo le sorti del popolo afghano. Venerdì 8 ottobre è avvenuto un attacco terroristico in una moschea sciita nella provincia di Kunduz causando quasi 100 morti, rivendicato dallo Stato Islamico. È stato l’attentato con più vittime da quando l’esercito statunitense e la Nato hanno abbandonato Paese.
Donne, uomini e bambini, stanno pagando il prezzo della libertà e stanno perdendo l’attenzione mediatica che meriterebbero. Proprio i social media sono diventati strumenti importanti non solo per denunciare l’emergenza umanitaria in corso ma anche per dare una sicurezza alle persone in pericolo. Secondo la piattaforma social “with afghan women” gli afghani comunicano con i loro familiari soprattutto tramite WhatsApp mentre il Facebook Safety Check permette agli utenti di segnalare se sono salvi in caso di sparatorie oppure, appunto, attentati. Intanto si attende il G20 straordinario del 12 ottobre, convocato dal premier Mario Draghi, che si spera non sia un’occasione persa, un teatrino per mostrare che si sta facendo qualcosa di utile e tempestivo per un’emergenza umanitaria a cui non si sta dando abbastanza peso e che pare essere non più ugualmente interessante o urgente come lo era fino a qualche mese fa. Si vedrà se le sorti di milioni di persone riceveranno di nuovo la dovuta attenzione o se invece cadranno lentamente nell’indifferenza e di conseguenza nell’oblio